
Maurits Cornelis Escher, Giorno e Notte (1938)
di Gianluca D’Andrea
«man mano che si saliva la fisarmonica dei dioriti si srotolava come un valzer alpino».
(O. Mandel’štam)
La difficoltà del segno di trovare le sue aderenze al contesto, questo ci dice Mandel’štam sull’improbabilità di un accesso a una vera prospettiva sul mondo. Seguendo Magrelli, si tratterebbe di una miopia molto particolare, che può suscitare una visuale doppia, per cui correttezza e il suo opposto procederebbero affiancate. Già, perché non si tratta per niente di opposti, ma di uno stesso processo (uno stesso procedere), non da versanti separati ma in un’unica inclinazione. Il percorso muta la prospettiva, per cui l’occhio ponendosi in maniera diversa coglierebbe altri segnali.
Ecco, questi altri segnali formerebbero il supporto per una nuova segnalazione: laddove il paesaggio restasse lo stesso, l’osservatore ne muterebbe il senso. Un po’ come nella meccanica quantistica, è impossibile prescindere dalla presenza, per quanto umbratile, dell’osservatore. Eppure, questo stesso osservatore è una presenza che si forma nel paesaggio, ne raccoglie gli indizi e li articola in segni, in tracce che lo testimoniano e lo annientano.
Forse la poesia non è questa transizione che capta il mondo per dissolverlo, manifestando un’ombra? un’illuminazione nella tenebra che oscura la presenza. Un passaggio costante che finge il suo sviluppo, che riporta una percezione (più percezioni) allo stato inerte dell’assenza. Perché l’osservatore passa e il passaggio lo intride di tracce.
«che giornatina voluminosa m’era capitata in sorte!»
(O. Mandel’štam, Alagez, da Viaggio in Armenia)