
Norman Rockwell, The Problem We All Live With (1964)
di Gianluca D’Andrea
Forse ci siamo già estinti
dovremo ricordarcene quando a cena
non sapremo di cosa parlare.
(Sara Ventroni, da La sommersione, 2016, p. 45)
Il mito è senza “stile”: racconta.
La fine della favola sembra essere il limite definitivo da cui parte incessantemente un altro racconto. Un racconto intermittente – una storia per “pulsazioni” direbbe Nancy – baluginante dalle epoche fissate nel documento. Nocumento in espansione – viviamo nel mondo della più grande, e fallibile, enciclopedia della nostra storia, un’auto-enciclopedia “comune” – in un mondo che si restringe, fagocitato dagli spostamenti.
Eppure chiuso da “nuovi” muri, perché gli spostamenti vanno acquisiti, non possono liberarsi nella loro necessità. Non è la necessità della sussistenza a “muovere” il mondo, ma l’infinita irraggiungibilità dell’utile: ci si sposta per spostare capitale, non ci si può spostare per sopravvivere. Ne andrebbe della sussistenza della parte “nucleale” del mondo – il capitale, appunto. Il “mondo capitale” o Occidente, se si vuole.
Il mito, oggi, racconta l’estinzione di una libertà necessitante, il genio d’occidente è sempre stato un riflettere sulla caduta. Occaso continua a chiudersi tra pareti, liberando le proprie astrazioni: illusioni, sogni, ombre. Chi è dalla parte sbagliata del muro cammina nel dolore, sperando, un giorno, di attraversare lo specchio.