“E’ sapere la violenza” , un’impressione di lettura su “Transito all’Ombra” – di Andrea Italiano

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Giorgio Morandi, Natura morta, 1957 (collezione privata, Milano)

di Andrea Italiano

Transito-allombra_web-300x480Ho trovato un’efficace chiave di lettura di Transito all’ombra nel senso di violenza che percorre il mondo raccontato da Gianluca D’Andrea, una violenza non mostrata come un “fatto” bensì come l’ossatura portante di un corpo ricoperto dalla sua pelle. Il nostro mondo, questa società occidentale venuta a galla dalla seconda guerra mondiale e imperniata su mode e tecnologie sempre più perfette e cattive, sembra un enorme mare dalla superficie pacificata da tutta una serie di ipocrisie imposte (o autoimposte) per convincerci che abitiamo il migliore dei mondi possibili, il più felice di sempre. Ma, D’Andrea, ci lascia intuire che sotto (o dietro) questo “mare di felicità” vi sia un vulcano nascosto sempre sul punto di esplodere e portare alla superficie tutto il pus e il marcio che sottopelle si cova (“eccidio, omofobia, femminicidio”). Per questo trovo il suo verso (e poi l’insieme dei versi incatenati l’un l’altro) non nervoso – come invece scrive Pusterla in quarta di copertina – bensì scandito da un ritmo sincopato e un andamento lungo e lento che raggiunge spesso compostezze monolitiche minate però da lineature improvvise dalle quali s’intravede il vero nervosismo delle parole: “Illude Trieste, non vede – / Saba, Cattafi – il Novecento morto/ nell’assimilazione presente” (Trieste, Lubiana). Poesia emblematica di questo “mondo atroce” nel quale apparentemente nulla di atroce succede è quella che chiude il libro laddove il verso “è sapere la violenza” ci richiama a qualcosa che successivamente dovrebbe accadere; tuttavia questa consapevolezza della realtà si scioglie dopo due versi in una tenda che si richiude dietro un’umanità che si accampa in silenzio, nel semibuio. Questa fine “rassegnata” non esclude però lo stridere di qualcosa che si è intuito e che non si riesce a cancellare dalla memoria, come i morti “marciti/ sui legni, a mollo, assiderati” di tanti che “aspiravano al Natale” (La storia, i ricordi, IX) ma che al risvolto della medaglia si è rivelato (il Natale dei nostri tempi) l’ennesima illusione di un capitalismo dove tutto è ridotto a consumo, produzione, mercificazione di vite e rifiuti. Soprattutto il mondo dei ragazzi, quei ragazzi che D’Andrea conosce bene per la sua professione, mostra le stigmate di una violenza indicibile ma repressa sotto una coltre di apparente “modernizzante normalità” come quella della ragazzina con il “trucco che maschera altre negligenze/ diventando modello di eleganza” che poi è la stessa i cui sputi sono “la linfa di cui nutro la mia sopravvivenza” (Gli alberi, i ragazzi). Ribadisco, questa duplicità del mondo del poeta è la stessa del suo linguaggio che mostra mentre cela o che nasconde mentre svela ma con un tono che mai tocca l’urlo, lo strappo, l’assenza totale di punteggiatura che potrebbe significare l’estrema disperazione di chi vuole dire tutto in un unico fiato. D’Andrea ci parla del “Male” ma con calma, con la pacatezza e la lucidità di chi vede la giustizia “che si sgrana in tempi impercettibili” (Acquario), ma anche come chi ha un dovere da espletare senza urlare, cioè raccontare alla piccola figlia Sofia quel “poco o niente [che abbiamo] da dire/ eppure questo fiato, così buffo / è il dovere che ci unisce e dissolve” ( Lettera a mia figlia). Un modo di dire l’indicibile, questo di D’Andrea, di illuminare il cupo e tuttavia nulla togliere alla cupezza che mi ha fatto pensare alle tante nature morte di Giorgio Morandi, nelle quali il bianco abbacinante di bottiglie, bicchieri e ciotole apparentemente inermi (oppure simili a manichini in attesa di un giudizio) ma come attraversate da un’anima di pulsante instabilità, inspiegabile – sinistro – mistero, celava il nero indicibile di un altro tempo nero, cattivo, foriero di violenze cupe ed irredimibili che solo la poesia può descrivere nella sua essenza più profonda e disumana. Violenze nere ed irredimibili come i nostri, tanti, morti “marciti/ sui legni, a mollo, assiderati”.

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