
Paradiso XIV, La Croce con Cristo, illustrazione di Gustave Doré
di Andrea Ponso
Canto XIV
I nostri corpi terreni non sono più, nella prospettiva di fede, “figura” delle anime paradisiache; è esattamente il contrario: sono le “anime” paradisiache ad essere “figura” del corpo glorioso definitivo: “Come la carne gloriosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta; perché s’accrescerà ciò che ne dona / di gratuito lume il sommo bene”. Ma, allora, sono “anime” o “corpi” (come abbiamo sempre continuato a sostenere) quelli che Dante incontra in paradiso? Verrebbe da dire si e no insieme, né l’uno né l’altro o l’uno e l’altro. Sono corpi, perché la voce e la memoria della vita passata sono presenti al corpo, sono scritti nei corpi e nei gesti, nelle tonalità vocali e ritmiche, nella traccia significante che arde ed esce da se stessa ex-sistendo e incontrando il pellegrino; ma sono corpi e carni particolari: né soggetto né oggetto, pura relazione imprendibile e mai del tutto riducibile ad enunciato – solo una continua, danzante e luminosa, concretissima enunciazione, solo canto.
E, tuttavia, come i corpi terrestri, seppure ad un altro livello, sono in cammino verso il corpo glorioso. E, anche questo cammino, questo divenire verso la pienezza, non può appartenere all’immobilità di un concetto o di una idea, ma solo alla flessibile materia della carne. Stanno ancora e sempre nascendo questi corpi, e forse Dante ce lo indica sommessamente quando introduce la voce di Salomone, che risponde alla sua domanda sulla condizione dei beati dopo la resurrezione della carne: è una voce che somiglia a quella che annuncia la presenza del Verbo nel grembo di Maria – “forse qual fu da l’angelo a Maria, / risponder […]”. Non si smette di nascere nuovi, non smettono di nascere nuovi: è una continua annunciazione.
E saranno corpi “capaci” – capienti, più forti nella loro potenzialità di ricevere lo splendore e la grazia: “né potrà tanta luce affaticarne: / ché li organi del corpo saran forti / a tutto ciò che potrà dilettarne”. Pur nel loro splendore, quindi, i beati non sono ancora al culmine della promessa, si trovano essi stessi in un “già e non ancora” che diventerà pienezza totale solo quanto il corpo riacquisterà la totalità della sua potenza ed estensione. Si tratta, per noi che siamo chiusi in verità parziali, di una vera e propria ascesi, nel senso più profondo del termine: non una rinuncia al corpo, ai sensi, agli organi e alla carne, ma una loro dilatazione, un vero e proprio allenamento a diventare finalmente corpo e carne in pienezza – fino a quel “disio de’ corpi morti” che non è semplice ricongiungimento dell’anima con il corpo ma abbraccio della finitezza e della morte nella totalità del corpo glorioso.
E forse non è un caso che proprio dopo queste scoperte dantesche arrivi l’insostenibilità della visione allo “sfavillar del Santo Spiro”: “come si fece súbito e candente / a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!”. Lo sfavillare dello Spirito – meglio dello “Spiro”, di quella profondità del respiro che è propriamente Vita – non è che la presenza di questa totalità gloriosa che il corpo di Dante ancora non può sostenere: e non perché è corpo, ma perché non lo è ancora abbastanza, non lo è ancora in pienezza. Beatrice viene in soccorso, forse consolando Dante di questa poca carne gloriosa, come fa la filosofia e il pensiero di fronte all’inspiegabilità della carne e della sua pienezza, in una modalità per certi versi simile a quella di Paolo quando, davanti all’aeropago, parla della resurrezione della carne; anche se, nel nostro caso, Beatrice ha funzioni chiaramente diverse: non di rifiuto ma di misericordia e salvezza.
E infatti, anche la bellezza e i sensi di Beatrice, alla vista di Dante, crescono in ascesi cielo dopo cielo – tanto che Dante “osa” dire, nel finale del canto, che sembra privilegiare la bellezza di Beatrice a quella della visione e azione dei “beati militanti” e al simbolo stesso della Croce che essi mostrano: “Forse la mia parola par troppo osa / posponendo il piacer de li occhi belli”. Ma in quella bellezza è contenuta, di pienezza in pienezza, anche quella di Beatrice, in particolare quella degli occhi che, con il resto del corpo, crescono diventando sempre più spirituali laddove diventano anche sempre più corporali: “ché ‘l piacer santo non è qui dischiuso, / perché si fa, montando, più sincero”.
Ciò che rimane “indietro” nel salire è l’intelletto, la memoria: “Qui vince la memoria mia lo ‘ngegno” – non il corpo e i sensi; e Dante si scusa perché il suo corpo e i suoi sensi ancora non sono “capaci”, capienti per accogliere tutto: “ancor mi scuserà di quel ch’io lasso / vedendo in quell’albor balenar Cristo”. La prova di tutto questo sta nella metafora musicale che è costretto a usare per dire la visione che gli occhi non riescono a contenere e, quindi, a depositare nella “mente”: “E come giga e arpa, in tempra tesa / di molte corde, fa dolce tintinno / a tal da cui la nota non è intesa, / così da’ lumi che lì m’apparinno / s’accogliea per la croce una melode / che mi rapiva, sanza intender l’inno”. Non è la musica forse più legata al corpo e ai sensi che la stessa visione intellettuale che, qui, non può più sussistere? Non è una esperienza dei sensi e del corpo, primariamente, quella del significante musicale che supera il “segno” della stessa Croce? Non è maggiormente immersiva questa esperienza del corpo “che non intende e ode”? Laddove si credeva di trovare “significati” (e quindi intelletto scorporato e “memoria”) si trovano “significanti”, la forza sensitiva e relazionale della musica, nel suo ritmo e nel suo movimento, che sorprende proprio l’intelletto, il νοῦς mediante la carne, i sensi, il corpo.