
Giovanni Giudici (Foto: © Carlo Carletti)
di Gianluca D’Andrea
Giovanni Giudici: una poesia da Eresia della sera (1999)
Voltati dopo tanto
Voltati dopo tanto
Dimenticati nomi
Al caos mentale non più
Distinguere tra poi e prima
Poco vigili sensi
Già eravamo persone di un tempo trascorso
Il nostro non ancora però del tutto consunto
Di un oltretomba vivi
Profeti di passato – l’esatto
Contrario di colui che nella Bibbia
Rammemorò il futuro
E a noi nessuna ormai fraterna lingua
Postilla:
Il disorientamento parte dalle difficoltà della memoria. Nella mente il “caos” perché sono scomparsi i nomi, dimenticati. La conseguenza è incapacità di scelta, distinguere, perdita della propria presenza “storica”: «Già eravamo persone di un tempo trascorso». C’è una comunità di riferimento (si noti l’utilizzo della prima persona plurale) ridotta, invecchiata, che si riconosce nell’incomprensione dei segni del futuro (il riferimento al profeta Daniele, nell’ultima strofa, sembra suggerire questo). Forse queste figure, che brancolano nel passato e si sentono rifiutate dal futuro, queste apparizioni attraversate dall’incertezza e dal senso di sconfitta, possono diventare monito, o meglio allarme, perché lo sforzo di comprensione dei segni del “futuro” non si sleghi dalla conoscenza di quelli del passato, per riattivare un orientamento temporale, una lingua, una storia, anche se non lineare (il componimento, infatti, è giocato sulla forza scardinante della metatesi, l’ingarbugliamento sintattico, l’iperbato: «E a noi nessuna ormai fraterna lingua»).