
Charles Simić (Foto: Alex Greenlee)
di Gianluca D’Andrea
Charles Simic: una poesia da The Voice at 3 a. m. (2008)
Serving time
Another dreary day in time’s invisible
Penitentiary, making license plates
With lots of zeroes, walking lockstep counter-
Clockwise in the exercise yard or watching
The lights dim when some poor fellow,
Who could as well be me, gets fried.
Here on death row, I read a lot of books.
First it was law, as you’d expect.
Then came history, ancient and modern.
Finally philosophy – all that being and nothingness stuff.
The more I read, the less I understand.
Still, other inmates call me professor.
Did I mention that we had no guards?
It’s a closed book who locks
And unlocks the cell doors for us.
Even the executions we carry out
By ourselves, attaching the wires,
Playing warden, playing chaplain
All because a little voice in our head
Whispers something about our last appeal
Being denied by God himself.
The others hear nothing, of course,
But that, typically, you may as well face it,
Is how time runs things around here.
*
Scontare il tempo
Un altro giorno tetro nell’invisibile
penitenziario del tempo, a fabbricare targhe
con molti zeri, a seguire percorsi fissi in senso anti-
orario nel cortile delle esercitazioni o a osservare
le luci che si abbassano mentre qualche disgraziato –
potrei anche essere io – frigge sulla sedia.
Qui, nel braccio della morte, ho letto molti libri.
Prima la legge, come puoi immaginare.
Poi la storia, antica e moderna.
E infine la filosofia – quella roba sul nulla e sull’essere.
Più leggo, meno capisco.
Però altri detenuti mi chiamano professore.
Ho già detto che non avevamo guardie?
Le porte delle celle le serra e le disserra
un libro chiuso.
Anche le esecuzioni le facciamo
da noi, collegando i fili,
impersonando il secondino, il cappellano
perché una vocina nella testa
sussurra che il nostro ultimo appello
è stato respinto da Dio stesso.
Gli altri, ovviamente, non la sentono
ma questo, al solito – lo vedrai anche tu -,
è il modo in cui qui il tempo governa le cose.
(Trad. Nicola Gardini)
Postilla:
Certo, se il tempo è “penitenziario” ancora sopravvive una dialettica con all’opposto la possibile fuoriuscita. La faccenda è oscura perché è la scrittura la gabbia – nello specifico il tempo autistico della scrittura in versi – quella scissione dal mondo che s’insinua “nella testa” del poeta, cioè la caduta libera dell’alterità. Non è stato “Dio” (l’Altro, senza per questo scomodare Lacan) a respingere “l’appello” ma il soggetto (l’uomo?) a girare le spalle al “tempo” della dialettica, ad autorecludersi in uno spazio “virtuale” per farsi riflessione assoluta, nel disorientamento, nella mancata comprensione: «The more I read, the less I understand».
Il carcere-osservatorio in cui possiamo scandire il tempo della fine, “scontarlo” in «percorsi fissi in senso anti-/orario», nelle nostre vite neutre – neutralizzate -, interscambiabili, visibili solo nel momento della condanna definitiva, la comune sparizione.
Singulti novecenteschi, i topoi del carcere, dell’alterità estinta, del solipsismo voyeuristico, sono i vasi conduttori della fine di un mondo, circuitazione e attraversamento. Ma, scontato il tempo, è proprio la «vocina nella testa» il riscatto, l’altro interiore, “schizomorfico”, che ci allontana dal rimpianto per la perduta unità. Unità, d’altronde, è adesso semplice evidenza dello strato di pieghe e fratture che fanno l’essere, che fanno questo “essere” adatto a farsi attraversare dal tempo. Non integrità, allora, ma spartizione. L’illusione, squadernata in mille rivoli, del contatto, arcipelago fluttuante in una rete che non è più carcere, ma scelta ipnotica. L’essere non è più ironia o ribaltamento ma, attraverso questo stesso ribaltamento, è un costante dimenticarsi in un tempo senza linearità e progressione. Intermittenza, perché «Anche le esecuzioni le facciamo/ da noi, collegando i fili» e recitando ogni ruolo possibile.