
Marilena Renda
SI AGGIUNGANO I BAMBINI: Marilena Renda, La sottrazione, Transeuropa, Massa 2015
Ci sono questi bambini, i padri estranei, le generazioni sfaldate e l’ombra che interviene spettralmente sulla storia e sul tempo. Perché La sottrazione di Marilena Renda vuole essere il resoconto “in levare” di un’epoca, la cancellatura graduale dei segni («Devi abbandonare le parole stanche», p. 10) che non dicono più il presente. Sembra crearsi uno spazio, un vuoto che, comunque, inclina al riempimento. Il libro si chiude su un racconto (Bambini, p. 70) dopo aver considerato la dissoluzione del senso.
Il desiderio di ritrovarsi «in mezzo alle cose/ che sono tutte nuove» (p. 11) non smette di rievocare la precarietà e lo straniamento che hanno portato a questa necessità. Così la sottrazione del titolo è una forma di sopravvivenza, un “repulisti” nel declino: «I paesi che hanno vissuto una catastrofe – scrive Olson -/ in particolare quelli che hanno perso una guerra/ sopravvivono meglio a ogni forma di declino» (p. 12).
Resistenza dei corpi in ombra, dell’immagine nella memoria, in un paesaggio che la mente cerca di assemblare e agguantare con uno sforzo di fantasia: «Ti ho preso a poco / e quando ti ho portato a casa / ho visto che sulla camicia / avevi una macchia / ma stavi appoggiato alla finestra / e tenevi dritta una sedia rotta» (p. 14).
Le azioni avvengono, dunque, nell’oscurità del presente («Ti spiegherei volentieri i segni del mondo, / ma al buio come siamo è facile sbagliarsi», p. 17) come in un’interrogazione continua, in cui anche la possibile sicurezza della dimora è ridotta a una visione scheletrica del paesaggio, una città fantasma: «Quando siamo arrivati qui / la città era uno scheletro» (p. 21).
La parola si dispiega nell’incertezza, ma una nuova forma di fiducia emerge dalle pagine, a tentoni. Per salti logici prova a ri-articolarsi una sintassi: l’ordine ricreato dalla perdita del soggetto.
La riflessione sulla “casa” immette nel mondo, quello che si vuole finito, «Arriva il giorno che il mondo scompare» (p. 33), e quello che avanza dalle macerie del primo: «Siamo la città che si getta nel mare, siamo / la spiaggia intatta dopo l’inondazione» (p. 37). La catastrofe si apre su altre trasformazioni, ibridi, «Maschio e femmina insieme, sulla soglia della capanna» (p. 27), che si auspicano ricondotti a una nuova unità (l’intatto di cui prima), «Di due fogli che si incollano, il risultato è: / si rompono o si attaccano, di due l’una» (p. 32).
Le forme del libro riflettono il mutamento e l’ibridazione: prose e endecasillabi, versi lunghi liberi di franare ed espandere o contrarre il testo, una trama difforme, tra l’incertezza e il mostruoso. La fiducia traspare da una retorica dell’errore («Il giorno che fu aperto il mare Noè/ – no, non fu Noè, fu Mosè», p. 29) che viene accettato e predisposto a una conversione del senso: dal male la rinascita, il riscatto della parola nelle sue capacità plastiche di aderire alle deformazioni del reale (ecco la fiducia di cui si parlava). Quindi regressioni (epanodo giustificativo o “confusivo” nell’episodio di Noè/Mosè prima accennato, per evidenziare l’errore), adynaton, «Devo stare fermo tutto il giorno/ ma a un certo punto – forse – potrò muovermi» (p. 43), senza subordinazione tra i fatti, ma apertura alla possibilità come all’impossibilità degli stessi.
La sottrazione del significato e l’accostamento per errore fanno migrare l’operazione verso un paradosso oscillatorio, forse anche manierato, e nell’indecisione – almeno all’altezza dei testi centrali, tra la prima e la seconda parte – tra apertura e chiusura al mondo. Non fosse per l’ironia che permette al lettore di partecipare alla favola buffa dei bambini senza storia che vogliono sposare i cani (vedi p. 46), rischieremmo di vivere nell’attesa perenne di uno scarto o di una fuoriuscita dal niente che il passato (il Novecento) ha spalancato. Potrebbe non sembrare, ma l’esercizio quasi rieducativo compiuto dal soggetto per entrare in relazione con la fragile alterità dell’infanzia, annulla il sarcasmo e apre alla descrizione, per quanto metaforica – non sobria ma più umile – delle esperienze: «Se mi tagli in due, metà è della mamma / e metà di papà, che è morto e non lo sa. / Una parte andrà a Messina, l’altra a Tirana…», esempio in cui pare intravedersi un fatto accaduto, referenza – cioè maggiore confidenza – col reale, compartecipazione della finzione.
Il rinvio a qualcosa d’altro, che non sia l’incapacità di dire del dire, è lo spiraglio che il libro dischiude come ci mostra esemplarmente la prosa finale di cui parlavamo all’inizio. Bambini, in cui appaiono la vita e un tu che si muove in essa, quindi un noi che è sentimento d’appartenenza.
Dalla lingua ridotta e perduta, in cerca della rinascita, all’affabulazione, a un racconto che può ritrovarsi aprendo gli occhi sui dati esperenziali, sugli indizi che l’esistenza, con le sue fatiche e devastazioni, può ancora essere in grado di offrire.
Gianluca D’Andrea
(Settembre 2015)

Mel Bochner, Language is not transparent (1969)
ESTRATTI
Lascia cadere, tra le altre cose,
il bene degli altri.
Gettalo a manate
quello che ti vollero,
il detto non più.
Le correnti d’aria
muovono in levare
e in avanti
(ma verso il basso, poi)
*
Ti ho trovato al buio
al cimitero dei mercanti,
dalla parte dei ceceni,
dove vendono le posate,
le monete spaiate,
le tazze che nessuno vuole.
Ti ho preso a poco
e quando ti ho portato a casa
ho visto che sulla camicia
avevi una macchia
ma stavi appoggiato alla finestra
e tenevi dritta una sedia rotta.
*
Arriva il giorno che il mondo scompare –
fossi un uccello, non vedrei più il cielo.
Ciò che di me si sveglia, degli oggetti
vede frammenti, come se la notte
li avesse esacerbati. Un silenzio
a cui non serve nulla, non uno iota,
non un ghiaccio su cui camminare.
Se fossi te, chiamerei questo scorno
del mondo velatura, partenza, perfezione.
Invece sono la bambina scomparsa,
la volpe della sera che guarda in controluce
il niente che si apre sotto il suo passaggio.
*
Questo bambino grasso dalla felpa nera,
che vuole sposare un cane, e il cane è suo figlio,
questo bambino che arriva sempre tardi
e piange la morte degli insetti e delle rane,
che realtà lo dissuade da noi,
cosa lo porta tanto lontano,
lontano che non ci passa un’ombra?
*
Se mi tagli in due, metà è della mamma
e metà di papà, che è morto e non lo sa.
Una parte andrà a Messina, l’altra a Tirana,
dove mi aspettano cugini in groppa a capre
e cerimonie con gonne bianche. Devo diventare
bella entro il dieci maggio, mi devo cresimare
e sono pronta a tutto, anche a digiunare.
Sono un nome che passa di bocca in bocca, ora.
Sono vicina a Dio, alla vendetta e alla verità,
sono ferita per intero, e mio padre lo sa.
*
L’immagine ha pochi tratti.
La visione, per ingrandirsi,
ha eliminato cardini e coltelli.
Il quadro non sarà innocente,
una volta finita la sottrazione.
Quando lo guarderai a fondo,
vedrai che per sbaglio
hai tolto pure le cose vive.
Restano una sedia di schiena
e il contorno da riempire
di un’ombra,
e poco altro per dirti
l’operazione che adesso
puoi fare.
*
Bambini
Quando comincia la scuola, nessuno pensa alla sua fine. Durerà in eterno, sembra certo. Quando la scuola finisce, non sembra possibile che debba ricominciare, prima o poi. In ogni caso, serve che tu sia capace di entrare e uscire all’ora che devi, e il giorno che finisci spiega brevemente ad alunni e genitori la natura poco sentimentale dei contratti a tempo determinato.
[…]
Quando hai l’impressione che non puoi fare niente di utile, di buono e produttivo, forse è davvero così. Una volta eri la salvatrice dei momenti difficili, ora non salvi più nessuno. Ti limiti a chiedere il silenzio, ad alzare le mani come per calmare le acque, a mettere il dito davanti alla bocca nei momenti più critici, più confidenziali.
[…]
I momenti migliori non sono quelli in cui dimentichi dove sei, ma quando ti giri verso la finestra per qualche secondo guardi gli alberi, le macchine, i panettieri con i sacchi in spalla. Di solito succede tra le dieci e le dieci e un quarto del mattino: sono gli attimi che respiri, e a modo tuo sei perfino efficiente.
[…]
più passano gli anni, più i bambini diventano fragili. Hanno braccia da rondinelle e pelli da piccoli animali in mutazione, dita pulite o dita sporche, lingue blu per le troppe caramelle, tatuaggi a penna nera e rossa sulle mani e gli avambracci, sorelle e fratelli che stanno per nascere, febbri misteriose, dolori nel traghetto da un’ora all’altra. Tra le cose che mancano, sicuramente le aspirine. E una grande stanza in cui calmarsi, prendere fiato, far passare la nebbia nella testa.
[…]
I bambini molto poveri sanno spesso cos’è giusto. Se chiedi a Sara se è giusto che lei viva in uno scantinato e non abbia i soldi per i libri, lei ti dice che non è giusto. Lei ha molto bisogno del mare o, in alternativa, della campagna albanese, dell’estate, i cugini, la nonna. Ahhh – dice allargando il petto – io in campagna rinasco.