Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto V) – di Andrea Ponso

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Paradiso, Canto V. Dante e Beatrice (Fonte: Bodleian Library – University of Oxford ©)

di Andrea Ponso

Canto V

Il quinto è il canto didascalico in gran parte dedicato alla modalità profonda dei voti religiosi; ma già al secondo verso siamo “di là dal modo” grazie alla potenza d’amore: di là dal modo, come dirà Giovanni della Croce. I voti religiosi sono messi in parallelo con il dono più grande fatto all’uomo, vale a dire il libero arbitrio: la rinuncia alla propria volontà, è quindi un sacrificio tra i più alti, perché esaltando il dono nel momento stesso in cui vi rinuncia, lo trasforma in relazione e abbandono; questa umiltà, pervasa di gioia e di fiducia senza pari, è la stessa che, in fondo, anche se con caratteristiche diverse, forse ritroviamo nell’atto conoscitivo stesso che Dante, e il lettore con lui, sta sperimentando per mezzo della grazia.
Ed è un rincorrere la luce, una luce che si fa sempre più forte e non solo, naturalmente, nel senso della vista, ma anche in tutti gli altri, portando ad un continuum che possiamo percepire nella tessitura di ritmo, significante e sintassi, proprio “sí com’ uom che suo parlar non spezza”, ora riferito a Beatrice ma che già Dante scopre in se stesso e nel suo essere: egli, come ogni altro uomo, è già tutto questo, è già questo continuum che deve diventare ciò che è – anche “s’altra cosa vostro amor seduce”. Certo, qui si parla dei voti religiosi, ma è già un parlare intero: un parlare di tutto a tutto, è già il divino escatologico che sarà (ed è già, e non ancora) “tutto in tutti” (1Cor 15, 28).
Questo parlare intero, che l’uomo è costretto a fare a pezzi – e cioè a renderlo oggetto per poter comprendere, rendendosi così egli stesso soggetto e, quindi, staccandosi dalla totalità mediante lo stesso atto che lo porterebbe a conoscere – è il culmine e la fonte di ogni cosa, anche delle stesse divisioni e della fatica e dell’umiltà di stare nella modalità spezzata, parziale, della conoscenza: anch’essa è “dentro” a questo parlare intero, anche la rappresentazione di oggetto, soggetto e conoscenza – pure se da sempre sono un’unico gesto di quel continuo che è la vita.
Beatrice, che in gran parte è il flusso stesso di questa indivisibile parola, di questo discorso che abbraccia indicando e indica abbracciando, chiede a Dante di fermarsi dentro: “Apri la mente a quel ch’io ti paleso / e fermalvi entro; ché non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso”: qui non si tratta semplicemente della memoria come di solito la immaginiamo; è qualcosa di più vivo e profondo: è un modello immersivo e vitale, in cui bisogna ricordare di essere, da sempre, per poter davvero avere esperienza di ciò che ac-cade senza ricadere nella contrapposizione e nella frammentazione. In questo senso, le metafore del pasto e della pastura, che tornano anche in questo canto, indicano una dinamica in cui il conoscere è qualcosa di fisico: è un lasciare che qualcosa entri dentro di noi, fino alla digestione, come accade nell’eucaristia e, nello stesso tempo, un lasciarsi immergere, come succede nel battesimo. Ed è questa apparente contrapposizione tra unità e parte che spinge avanti anche la vera conoscenza – anche se non c’è “avanti”, in realtà, e non c’è progressione o parte (e nemmeno l’unità come somma delle parti): è solamente un gioco a cui aderire con fede, un viaggio che porta dove già si è da sempre.
Bisogna entrare dunque in quel “silenzio” in cui già siamo da sempre, mettendo da parte il “cupido ingegno” e, nello stesso tempo, lasciandolo scorrere senza contrapposizione. Dice infatti Dante, descrivendo ancora una volta la sua guida: “Lo suo tacere e ‘l trasmutar sembiante / puoser silenzio al mio cupido ingegno”; ma “già nuove questioni avea davante”. Ecco la felice colpa, la buona contraddizione che favorisce il movimento verso l’alto e il profondare della conoscenza sempre più verso il suo presente immutabile e pre-categoriale: Dante è costretto amorosamente, umanamente e umilmente, a ricostruire le coordinate spazio-temporali e le modalità solite della conoscenza; è costretto ad avere “questioni” davanti a lui – “che già nuove questioni avea davante” – e cioè a ristabilire il dualismo tra soggetto, oggetto e atto del conoscere; ma si tratta forse solamente della pietà della scrittura, e dell’amore per la finitezza, lo stesso che sempre dimostrano tutte le anime che parlano con lui. E torna l’immagine bellissima della “pastura”, del cibo come conoscenza:

Come ‘n peschiera ch’ è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,

sí vid’ io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
“Ecco chi crescerà li nostri amori”.

Sarebbe uno stagno, una vasca d’acqua ferma, questo “splendore”? Si, ma ferma nella sua pienezza e, nonostante questo, guizzante e viva, disposta al salto, all’uscire dalla totalità, se mai fosse possibile, per donarsi all’umano bisogno di sapere ed esperire, come ci indicano i versi successivi.
Eppure, in fondo, non c’è un “fuori” dalla luce della pienezza, e l’irreale non è quello che vediamo ma la nostra “ignoranza”, che ci obbliga a non prendere davvero lucciole per lanterne: Dante ci invita a prenderle per lucciole, dimenticando il nostro bisogno di catalogare e distanziare, di porre un “dentro” e un “fuori”, di porre “lanterne” e pensiero, e tecnica al posto della naturale pienezza cangiante della semplicità. E ce lo mostra, come sempre, in un passaggio vertiginoso, che possiamo dire contraddittorio solamente se, appunto, rimaniamo nell’ignoranza delle nostre categorie classificatorie: un’anima esce dal gruppo per parlare – ma “esce” davvero?
In fondo è “come il sol che si cela elli stessi / per troppa luce …”, e “per piú letizia sí mi si nascose / dentro al suo raggio la figura santa”; e i due ultimi versi, inarrivabili, che tutto riassumono nella totalità che si comunica senza uscire, perché tutto è uno: “e così chiusa chiusa mi rispuose / nel modo che ‘l seguente canto canta”, dove l’insistenza alliterativa sulle c e sulle u paradossalmente, invece di chiudere apre al canto, e dove il solenne finale è canto e anche cadere ritmico – un cadere nella pienezza, un lasciarsi cadere che rischia il silenzio e l’attesa della risposta dell’imperatore Giustiniano nel canto successivo. Nella dinamica narrativa non è dato sapere se la voce continuerà: c’è questo stacco che è, ancora, preso comunque nel continuum ritmico della visione, che si deve seguire in quel “canto canta” che scende, per salire – che interrompe ancora una volta le coordinate spaziali per percepire, direbbero oggi i neuroscienziati, la pienezza olistica dell’esperienza mistica: pare infatti che sia proprio l’interruzione del bisogno continuo di organizzare lo spazio e di incasellare tutto in rapporti di causa-effetto una delle caratteristiche neuronali tipiche delle esperienze di profonda meditazione mistica; e questa interruzione non avverrebbe per difetto, ma per eccesso, in modo che propriamente il nostro cervello in qualche modo smette di cercare perché appagato e in pace. Non c’è “divertimento” in paradiso, non nel senso del di-vertere, perché è tutto nell’uno della presenza: lettore, narratore e atto conoscitivo insieme. E questa pienezza è gioia calma.

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