Francesco Balsamo, “Cresce a mazzetti il quadrifoglio”, Il ponte del sale, Rovigo 2015

Francesco Balsamo 4

Francesco Balsamo

IL MONDO TOCCATO IN SORTE: Francesco Balsamo, Cresce a mazzetti il quadrifoglio, Il Ponte del Sale, Rovigo 2015

cresce-a-mazzetti-il-quadrifoglio-di-francesco-balsamo-su-lestroversoAlla fine del libro (ultima fatica di Francesco Balsamo, autore catanese che affianca la scrittura in versi a un’originalissima produzione figurativa, per la quale mi concedo di rimandare al libro di disegni Non copiare dagli occhi, Incertieditori, Legnago 2012 – con testi di Guido Giuffrè e Renata Morresi) possiamo leggere una dedica particolare al padre che viene paragonato a un albero (così come, all’inizio della raccolta, troviamo un disegno dello stesso Balsamo che rappresenta anch’esso un albero): «mio padre, da maneggiare come un albero – / a mio padre,». La pianta maestosa e insieme fragile, indifesa e imponente, apre e chiude un’operazione “augurale”, all’insegna della protezione e della crescita. Un mondo “vegetale”, un fermento che si confronta con la caduta esiziale – la morte è presente e “vegeta” tra le parole come segnale d’adesione, senza invocazioni tragiche, almeno in apparenza – intrecciando i lineamenti della lingua in un disegno profondamente evocativo.
Il dettato sommesso, frastagliato di oggetti banali che non assolvono sempre al compito loro assegnato – «come fischiare dentro un bicchiere», (p. 21) – o di luoghi comuni rinnovati dalla semplice sostituzione di un termine, sembra preconizzare la scomparsa della funzione utilitaristica della parola, come se ad agire fosse solo il riflesso che la ri-sostanzia – come un’ombra più concreta del reale: «aspetto le prime luci del tavolo», (p. 28). L’effetto che si crea non è straniante ma accogliente perché s’istalla sulla familiarità del quotidiano, minimo, certo, ma non minimalista, non tollerabile a tutti i costi, ma sfuggente.
Balsamo sembra riflettere sulla capacità che le parole possiedono di custodire (ancora un riferimento alla paternità) quello che i giorni ci portano in sorte – «la sfortuna/ (o la fortuna)/ si è inoltrata a passi lunghi», (p. 26) – senza forzare il senso in maniera reattiva ma parlando il linguaggio dell’ospitalità.
Non si tratta di un’operazione accomodata sui minimi risultati, lo accennavamo poc’anzi, perché la lingua resta in tensione, non si distende su una visione “comune” ma ne rilancia i risultati riattivandoli attraverso la composizione di piccoli quadri, apparentemente paradossali, ma che tanto ci dicono del nostro essere “in comune”, sia nell’assolvere i nostri gesti quotidiani, sia nella loro continua dissoluzione: «a volte le cose del giorno non sono molte/ e gli uccelli sono il miglior esempio di ciò che ci manca/ o di ciò che abbiamo, / una foglia non ancora scucita / un’altra che trema nella rete della gola – / basta contare gli spiccioli del pomeriggio, / quel che ne rimane all’orecchio/ e la tristezza a fiori tenui/ poco alla volta ci chiude le mani», (p. 25).
Che non si tratti di un libro “pacificante” sotto l’aspetto del rapporto dialettico parola/mondo (per quanto già dal titolo si respiri una freschezza augurale nella sua originalità) ce lo segnalano le citazioni in apertura, da Ceronetti e, soprattutto, da Aglaja Veteranyi, scrittrice rumena poi naturalizzata svizzera morta suicida nel 2002: «Passiamo molto più tempo da morti che da vivi per questo da morti ci serve molta più fortuna». Oltre il piacere del ribaltamento, strategia cara, come abbiamo visto, all’autore catanese, sempre in direzione dello sconcerto e dello stupore, l’ironia sembra l’unica condizione che renda accettabile la fine, nel gesto apotropaico (come avviene spesso nella prosa frammentaria e “deforme” della Veteranyi) si esorcizza la scomparsa del segno – e del senso – in un continuum che non consente la fissazione ultima, non la vuole. Per questo la parola si trasforma in un’antifrasi incessante, iperbole al ribasso, nel metalogismo che preme e affonda a oltranza per non subire la gabbia del senso, cioè la banalizzazione segnica.
Con questi accorgimenti l’operazione di Balsamo si manifesta nella sua inquietudine, sfruttando la radicalità predestinante dei luoghi d’appartenenza (una Sicilia fatalmente tragica eppure buffa, nella sua mascherata sovrabbondanza che nasconde la paura scaramantica della scomparsa), scomponendola nei passaggi di un racconto sulla sorte che tentano di cogliere e ristrutturare il messaggio effettivo del mondo: nonostante il panorama di sconfitta, all’orizzonte può prefigurarsi l’accoglienza del luogo, ma solo accettando lo sforzo di ri-crearlo. Uno dei caratteri della Sicilia, la predestinazione passiva o il fatalismo, viene frantumato e ricostruito con l’inserzione di un sentire altro. La buona sorte, allora, può diventare il contraltare allegorico della sventura: l’ospitalità.
I movimenti metalogici, cui si faceva riferimento, e le metatassi (le ripetizioni anaforiche in apertura di componimenti diversi, enumerazioni, isocolon: «contrabbandare cose piccole in un foglietto / cose ordinate come per un viaggio», p. 34), nel loro esubero, aumentano l’aspettativa di senso. La parola combatte per la propria autonomia e l’agone non si risolve in una conciliazione, bensì sposta i termini della lotta in una dimensione plastica, arrembante, nel tentativo di frenare la caduta o ribaltarla: «ora basta/ tenersi per cadere/ con la faccia sul foglio», p. 35.
Lo sforzo serio di Balsamo è tutto nella movenza di un gesto sfumato che parte dalle contraddizioni e dall’inadeguatezza dello strumento utilizzato per captare il mondo, o da quella del mondo stesso che non si lascia catturare (l’ironia origina da questo disagio rintracciabile anche nelle operazioni figurative dell’autore). Anche per questo la parola si altera fino a creare nuovi mostri. In questo gioco deformante è coinvolto persino l’amore che diventa commistione, neoformazione: «un ginocchio è gemello / di un ginocchio / come l’altro tuo polmone / è gemello del mio / che si possa andare avanti con quattro / gambe è un prodigio da passante/i / dove sono le mie dita / fra queste venti? / che fra una spalla ci possano stare due teste / adesso si può solo sorriderne», p. 61. Perché nella tensione al mutamento che può imbattersi nella sorpresa, o meglio nella fortuna di qualcosa che ci sorprende, si nasconde una rinascita.

quadrifoglio

Quadrifoglio (Fonte: Wikipedia)

Gianluca D’Andrea
(Agosto 2015)


TESTI

fare la gallina delle cose in miniatura
come faccio io
e con tutte le parole
sparire nel calzino nero di una poesia


scrivere è come segare uno specchio a metà,
come fischiare dentro un bicchiere
anche se invece servirebbe bere –
stare zitto con un pesce in bocca
e far passare a testa bassa una nave da sotto una porta,
facile solo se si potesse fare –
stare di qua, ma sentirsi di là dal muro
ma niente, devi tenerti di qua lo stesso –
come stare al bordo della pioggia
e arrotolarsi e srotolarsi la voce appena sopra la nuca –
un crollo in salita –
tenersi al caldo, perché qualunque cosa si scriva
lentamente la gela la carta,
posarsi allora una mano tutta intera sulla nuca di vetro,
o fare spazio alle foglie di un albero
tenendolo per mano –
scucire boschi per toccare solo il polso di un ramo –
scrivere e scendere lungo i pomeriggi
con un braccio solo
e coprirsi con l’altro, quello che manca –
spalancare le braccia ai giorni con una penna –
tenersi sul fuoco una penna,
quell’unica foglia secca,
perché qualunque cosa lentamente gela –
scrivere allora è cuocere un sasso poco alla volta,
o starci dentro con un brusio
(un brusio di sasso) –
poi voler pagare tutto con quel sasso nero
o, magari, stare come un sasso nella cesta di una faccia –
voler scrivere è come vivere ogni mattina con il palmo
nella tasca di domani,
prendere forse così alla sprovvista la morte di oggi –
scrivere è stare al buio per assomigliare a tutti
ma sembrando lo stesso nessuno
o assomigliare fra i tanti proprio a quello che fischietta
per ritrovarsi il cuore in viso –
scrivere è raccogliere quello che manca e passare di corsa ad altro


la sfortuna
(o la fortuna)
si è inoltrata a passi lunghi
fino al rifugio della bocca
(dove si nascondono i denti d’oro)
la fortuna
(o la sfortuna)
fa scattare con dolcezza
un sorrisetto


aspetto le prime luci del tavolo –
i fischi nei bicchieri –

il bestiario delle vecchie monete –
i soldini dei diminutivi, per te

la neve del convincimento,
che si veda compatta sul davanzale –

aspetto di premere la fronte
sulla fronte del tavolo –

di poggiare un piccolo bene
sul viso in discesa: giù, lento –

di cadere in ombra
per illuminare una cima –

aspetto di cominciare coi fiori
che c’erano prima,

di scegliere con dedizione
il seguito di quei fiori –

e intanto scrivo di morire
come si preme una parola,

come si resta legati a una maniglia,
come la fortuna impigliatasi sul fondo –

aspetto per ore
l’ora che si manda via di notte,

che inizi la pioggia
col pane dell’aria di mezzo


un ginocchio è gemello
di un ginocchio
come l’altro tuo polmone
è gemello del mio
che si possa andare avanti con quattro
gambe è un prodigio da passante/i
dove sono le mie dita
fra queste venti?
che fra una spalla ci possano stare due teste
adesso si può solo sorriderne
e che si sposti il tuo braccio quando si muove il mio
lentamente parlo dentro la più piccola
delle nostre orecchie
e ti dico solo il cuore è uno
solo come il coro di una sola candela


l’amore,
sussurrò!
e si restrinse
e ricacciò una montagna
sotto il cuscino


tutti i pomeriggi è autunno

e ogni foglia secca
si spegne
come una vecchia lampada

è l’alternarsi della notte col giorno
o l’alternarsi del giorno con la notte

tutti i pomeriggi è autunno

e gli alberi in fila sono una sola frase
a perdita d’ombra

così uno manda via i giorni

gli alberi soli hanno la felicità aperta
degli equilibristi

*

l’ombra
è il mio lato di gravità

io scomparso di trenta grammi

è la mia mezzanotte di lavagna
il mio riflesso d’eternità
che calza la terra a grandi passi

l’ombra sono io solitario
e al sicuro, sotterraneo,

settantuno chili di riparo


dorme,
segna la tacca del sonno –
ancora una –
dorme,
tremolante come una candela,
un sonno sorvegliato,
l’ultimo bisbiglio
di una storia,
una storia d’acque notturne
e di luci spente

*

preme il viso sul cuscino:
carta contro carta –
dorme,
è uno dei sacchi di paglia
delle ombre


un abbraccio
è uno stare capovolti
un capogiro
il corpo
che scende spinto
dalla forza di un pendio
uno cade ed è
sorretto dal tremore di una stella


qui è facile come una crepa
farsi strada lentamente,
facile starsene curvi
dentro una bottiglia,
palmo a palmo
si restringe tutto

qui la morte è una cosa piccola,
di cerino,
un piccolo giro di luce
per una fine breve e nera

e dopo una seconda o dopo una terza
minuscola luna, qui
dal tuo corpo fioccano fiori
e si spandono al suolo


i morti ci guardano dagli angoli,
si raccolgono lì
come lanugine –
o lane crespate,
a collo alto,
il tenue collo di un pensiero


chi
muore
sta
tutto
in una
scarpa
si perde
nella punta
di uno stivale
chi muore
può solo sparire
si riempie
del vuoto
che riempie
allarga
le zone di calvizie
della terra

chi muore
scende un sentiero
e torna solo
è un forestiero
col petto aperto


i nostri cari vivi
che per loro conserviamo
scatolette di terra,
dove sbadatamente buttiamo
noccioli di pesca
o di altri frutti, dipende
dalla stagione,
e i nostri cari morti si allungano
familiari come fiori
si alzano in punta di piedi e vivono,
i nostri cari vivi


vivo
mi piego
mi sporgo
per toccarmi
nel farlo
mi sale
lungo il braccio
un poco di terra

vivo
in piedi
tutte
le parole
le leggere per prime
si mettono
a sventolare
piùnerechemai

canzonetta
sotto terra
uno stana
ciò che aspetta

uno intanto
aspetta
e sotto terra
canzonetta


morire è l’orto delle mani
e dei piedi

è anche una tecnica di neve
come un pensiero di dedizione –

morire è stare in casa
con una bandiera nera –

è anche un ricamo
riposto con cura negli armadi –

morire è riconoscere l’aria solo
con una pantofola

è anche stare in mezzo agli altri
e piegarsi con parole proprie


sono diventato come un cucchiaio
e ho nella nuca le profondità della bocca

ho in bocca la ghiaia delle parole
e per intero intravista la coda di un sentiero


poi pace
sale
come un buon profumo
di colazione
ancora in tempo
anche quando è tardi
un miracolo tenue
dunque
la si stringe così
al mattino
accanto a un pentolino
come uno dei molti zeri
del fumo di una tazza
tutto qua dunque
pace
facile come uno zero
poi pace
anche quando manca
e punge di freddo
e mi gela la coda del foglio


balsamo-francesco-copia

Francesco Balsamo (2015)

Francesco Balsamo è nato nel 1969 a Catania, dove vive e lavora. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera e Catania e alla facoltà di Lettere dell’Università di Catania. È tra i vincitori del premio Eugenio Montale nel 2001 — sezione inediti — con Appendere l’ombra a un chiodo, poesie pubblicate nell’antologia dei premiati, edita da Crocetti nel 2002, nello stesso anno riceve il premio Sandro Penna, per l’inedito, con Discorso dell’albero alle sue foglie, edito da Stamperia dell’Arancio nel 2003. Nel 2010 pubblica Ortografia della neve (Incerti editori, vincitore del premio Maria Marino 2011) cui seguono Tre bei modi di sfruttare l’aria (Forme Libere 2013) e Cresce a mazzetti il quadrifoglio (Il Ponte del Sale 2015). Alcune sue poesie sono state pubblicate su riviste: «Hortus» (Grottammare 2004), «I racconti di Luvi» (Palermo 2004), «Poeti e Poesia» (Roma 2004), «Ore piccole» (Piacenza 2007); e su antologie: Centro Montale – Vent’anni di poesia (Firenze 2001), Ci sono ancora le lucciole (Milano 2004), dieci poesie tradotte in polacco in La comunità dei vulcani (Messina 2006), Poeti e Poesia – poeti nati negli anni sessanta – (Roma 2007). Una sua raccolta è stata tradotta in finlandese e pubblicata a Helsinki nel 2004.

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