
Cristina Alziati
di Gianluca D’Andrea
Cristina Alziati: una poesia da Come non piangenti (2011)
Adesso
Hanno mandato armi e ruspe
per sgomberare il campo
per demolire le baracche
dove vivono uomini donne bambini,
l’ordine è stato eseguito.
Hanno rassicurato i cittadini:
nessun allarme animali, nessun felino
risulta abbandonato di quelli
“che usano romeni e altre etnie
per dare caccia ai topi” è stato scritto.
Sulla melma del fiume
guardo scorrere lentissimi
cadaveri, qui sotto Ponte Milvio.
Ne riconosco i volti, furono assassinati
buttati morti o vivi nella Senna,
li chiamavano ratti, è ottobre, sono d’argento.
Compio ora gli anni della terra offesa.
Postilla:
Il tempo come dinamica iper-reale della memoria è, quasi paradossalmente, un nuovo rito. Anche in un autore apparentemente distante da dinamiche sperimentali – laddove il linguaggio è trattato in maniera cronachistica, nell’abbattimento dei generi, il racconto è possibile, ma solo nell’Adesso. Il presente si fa tempo assoluto, il passato una proiezione vertiginosa dell’«offesa», in cui gli eventi, accavallandosi, creano un nuovo spazio, popolato dai fantasmi della colpa. Le ombre non viventi sono fissate in sospensione, in un blocco che le vivifica, però le imprigiona in un campo circoscritto. Le date – appaiono in nota: 2007, sgombero dell’accampamento di Tor di Quinto a seguito dell’omicidio di una donna; 1944, massacro delle Fosse Ardeatine; 1961, uccisione di massa degli algerini che manifestano per l’indipendenza dell’Algeria – riportando a stagioni passate, fissate nella scrittura, sono monito ma anche, e soprattutto, le maglie di un ultimatum: l’affabulazione resta per sempre congelata nell’eterno presente dell’informazione. La trasfigurazione è parlare degli spettri che vivono incagliati in questo stesso presente che la scrittura “realizza” come ogni medium, deformando la cosiddetta realtà. La differenza con altri strumenti è rappresentata, forse, dalla pietas di un soggetto colpito a sangue dai fatti. Ma è poco?