
Sandro Botticelli, Dante e Beatrice
di Andrea Ponso
Canto I
Quale sarebbe la materia del canto. Una materia c’è. Dante prova a dirlo nel suo resto, il resto di un’esperienza e di una pratica che, proprio per il suo excessus mentis, per la sua pienezza – è quasi niente, è solo un “resto”:
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Il “profondare” mistico dell’intelletto non fonda fondamenta stabili e gestibili dal linguaggio come suoi oggetti, ma è proprio di questo “profondare” lo sradicamento, l’apertura di un vuoto vivo, di una falla, di una fonte che è culmine e foce che poi si apre verso la pianura con più braccia, senza escludere niente. Perché avvicinandosi al proprio desiderio, “appressando sé al suo disire”, ogni costruzione scopre la responsabilità del suo desiderio come infondatezza. Tale smembramento della memoria, come le screpolature nella buccia di un frutto quando è maturo, sono propriamente la prospettiva e l’orizzonte dei linguaggi, non solo della lingua, ma di ogni segno – e lo sono in quanto fonte che zampilla al presente e che, per questo, la memoria non può mai catturare per intero. E la memoria vive in questo oblio che libera e ci fa vivi nel suo resto, che “sarà ora materia del mio canto”. Del resto si tratta di un viaggio, di un percorso e non di una stabilità. Del resto è il viaggio: il resto è questo viaggio nella pienezza. E resto e pienezza coincidono e si concepiscono a vicenda, dandosi alla luce.
Come il frutto maturo si screpola per il suo essere maturo, così Dante richiama lo scorticamento di Marsia da parte di Apollo:
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
Questa pelle, questo tessuto o textum non è che pienezza dell’esteriorità, tratto in superfice dalle “membra sue”: impossibile da ri-membrare, da ricostruire come organizzazione. Perché grazia e armonia sono dentro e, insieme, oltre gli organi e ogni organizzazione in “stato”: oltre non per eliderli, ma per abbracciarli.
Ma “l’ombra del beato regno” è comunque “segnata nel mio capo”, come dice Dante, segnata e impressa – una im-pressione – come una traccia di un passaggio, di un pellegrinaggio che, forse, non è quello di Dante nei cieli, ma quello dei cieli in lui. E alla “Virtù” egli chiede di poter manifestare questo passaggio che non può che essere superficie ed esteriorità finalmente abbracciata nella sua pienezza: ancora come il frutto che, per essere gustato nel suo sapore e nel suo sapere, deve essere smembrato. E non è quello stesso fissare “li occhi al sole oltre nostr’uso” una modalità della maturazione e della pienezza del frutto pronto a cadere con gioia come la gioia duinese di Rilke? E non è questa pienezza della maturazione dei giorni che crescono dentro la polpa e sotto la buccia, in questi altri versi?
E di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.
Ed è Beatrice questa superficie, Beatrice questa pellicola che Dante vede, e nella quale Dante si vede dimenticando-si: si, finalmente. Beatrice, la filosofia? Si, ma una filosofia del tatto e dei sensi, della vista come suo superamento verso le profondità del sentire del corpo, vale a dire verso la pelle: una pelle che vede e sente, un trasformarsi e un trasumanar in pelle, un trasudare che trascende scendendo a patti gloriosi con la finitezza redenta, già e non ancora. L’alterità di Dio e dei cieli è in questa pellicola sottilissima ed esteriore, perché è l’esteriore l’interiorità realizzata e vissuta in pienezza: Dio inizia e finisce, con-tatto, nella pelle. Beatrice è questo scambio “dermatologico”, perché la pelle è sensibile alla Luce e si lascia mutare dalla Luce senza opporre resistenza, senza coprirsi ma scoprendosi quello che è: “… e io in lei / le luci fissi, di là su rimote”, “nel suo aspetto tal dentro mi fei” – il remoto e il dentro si baciano su questa pelle, su questa sottilissima pellicola.
Ed ecco qual’è “la novità del suono”, anche, e il “disio / mai non sentito di cotanto acume”: la dottrina pitagorica dell’armonia delle sfere tende la pelle e le corde dello strumento che siamo – e finalmente, ecco: incipit continuamente al presente la vita nova del e nel suono. E qui finisce l’immaginazione, che deve essere deposta come un peso che deve essere sgravato, dice Beatrice:
e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.
Dante immagina d’essere ancora “sulla terra” e non è così. Ma dov’è? È sulla terra, certamente, ma pienamente, fino a riunirla ai cieli; ed è solo il suo “falso imaginar” che ancora lo costringe a decidersi per un luogo. Ma quando il peso è sgravato, allora si è presenti nell’immediato presente, “come in cielo così in terra”, in un continuo essere “disvestito” dai dubbi del pensiero desideroso di classificare, mentre il desiderio corre a “disvestire” ancora e ancora, per rimanere in quel presente. Perché, in fondo, cioè in superficie, “tutte nature […] si muovono a diversi porti / per lo gran mar dell’essere”. E allora, poco più avanti, “fretta” a fine di verso risale nella fine del verso precedente in “quïeto”:
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ‘l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;
Ed è certo che, talora, la “materia è sorda” perché noi siamo sordi alla sua vibrazione, al suo suono e risuonare; e per questo la creatura “piega” in altra parte. È un rifiuto, ma che la stessa finitezza dell’opera e della creatura ora riesce a vedere come pienezza, perché abbraccia tutto ed è abbracciata in tutto. Ed è un abbraccio che non frena il “pellegrino”, che non grava e pesa, perché “il giogo è dolce e il carico leggero” (Mt 11, 30).