
Musicisti etruschi in una raffigurazione parietale
di Andrea Ponso
IN GENERE RITUS – Poesia e performance: un bricolage rappresentativo. La finta pratica della comunità e del “popolare”
E’ innegabile che, da qualche tempo, sia tornato alla ribalta un modo di proporre la poesia che, pur non essendo inedito, e pur non avendo mai smesso di operare, sembra riscuotere un nuovo interesse da parte dei poeti e dello stesso pubblico. Vorrei provare a formulare alcuni appunti in merito, naturalmente dal mio punto di vista, sempre limitato, ma centrato sulla pratica rituale che, come si sa, ha strettissimi rapporti con il performativo antropologico ed estetico.
Il meccanismo performativo, almeno dal punto di vista rituale e liturgico, dovrebbe funzionare come una sorta di violazione che si abbatte positivamente sugli eccessi di significato cristallizzati nei linguaggio consueti, per liberarne, ogni volta di nuovo, la forza significante di contro ai blocchi riduttivi dei concetti, dei sentimenti e dello stesso “entusiasmo” legato all’improvvisazione.
Nessun atto performativo può raggiungere quindi il suo fine se non all’interno di una rigida e rigorosa conoscenza, pratica e accettazione di tali blocchi e di tali impostazioni: esso, infatti, funziona come un vuoto vivo e liberante, o come capacità di scatenare le contraddizioni e l’impensato implicito in ogni codice, solo all’interno di un sistema codificato e profondamente conosciuto e vissuto sulla propria pelle e fin nelle terminazioni nervose del proprio corpo; dal punto di vista strettamente rituale, queste sarebbero le regole ferree del rito, la sua “immutabilità”, il suo pre-giudizio, la sua pregiudiziale conformazione formale data che, già a questo livello dato, persegue anche la funzione di relativizzare le soggettività che vi partecipano.
Il paradosso, come sempre, è il seguente: non è possibile raggiungere l’immediatezza, il cadere nell’atto in cui ci si distrugge e ricostruisce nel nascere, senza avere coscienza e conoscenza, teorica e pratica, delle infinite mediazioni che ci costituiscono sia a livello personale, sia storico che culturale e sociale; sono proprio questi “ostacoli” all’immediatezza di primo grado, essenzialmente ingenua per non dire falsa, che fanno montare la forza destabilizzante dell’evento rituale stesso; tali ostacoli, infatti, si rivelano come resistenze che, in quanto tali, aumentano la forza pre-linguistica che le in-forma riducendole a informazione o ideologia: proprio attraverso questa resistenza ogni specificità si scopre portatrice di una tensione verso il suo oltre, verso quell’apertura mai del tutto controllabile che è però il frutto di una rigorosa disciplina e rispetto quasi ossessivo delle regole interne del rito.
Anche l’ironia e la leggerezza, che spesso caratterizzano queste manifestazioni e questi tentativi, risultano superficiali: non nel senso di un fermarsi alle forme esteriori ma, al contrario, proprio per il loro ridursi ad aggredire solamente i significati; quando, invece, la vera profondità del comico dovrebbe abbracciare ogni aspetto della performance, soprattutto nella profondità della costruzione dei significati attraverso le forme, i significanti e lo stile. Anche una barzelletta ci fa sorridere, ma essa non fa che confermare l’orizzonte da cui per un attimo si stacca. Ecco, tante iniziative poetiche legate agli slam-poetry o allo spoken poetry, sembrano, a mio avviso, non superare questo livello elementare, diventando in qualche modo “ideologiche”. Questo non significa che non tentino l’uso degli altri linguaggi e codici della performance, ma tale uso sembra sempre rimanere funzionale a qualcosa che è già saputo e conosciuto, ad una volontà soggettiva di rappresentarlo, ad un pre-giudizio concettuale di partenza che, poi, i significanti si prefiggono di portare in scena per “comunicarlo”: è la stessa dinamica, ad esempio, della pubblicità commerciale, con la differenza che quest’ultima mette in movimento strumenti molto più precisi e raffinati, e un insieme di conoscenze e strategie comunicative quasi imparagonabile. Un approccio di tipo cognitivo leggerebbe tutto questo sotto l’etichetta di funzioni pedagogico-cognitive, “il cui centro di interesse non è rappresentato dal significato del rito ma dai significati mediati dal rito”. Qualcosa di simile accade anche nell’approccio catechetico della liturgia cristiana:
«L’opinione che la liturgia cristiana svolga prevalentemente un ruolo catechistico e pedagogico […] sembra adottare un punto di vista cognitivista, pur non sposandone i presupposti teoretici. Ovviamente, se quei ruoli vengono gestiti con maggior successo in ambiti diversi dalla liturgia, quest’ultima subisce un processo di delegittimazione. I riti che non insegnano e non educano sembrano azioni vuote. Ma che cosa sono le azioni rituali? L’interrogativo rimane anche nel caso si adotti l’approccio cognitivista o la prospettiva catechetica, dato che questa prospettiva e quell’approccio presuppongono una relazione intima tra le azioni, di cui è composto un rito, e le convinzioni, di cui è composta una credenza simbolico-religiosa. L’ipotesi che si potrebbe adottare è la seguente: le convinzioni religiose non sono al di là delle azioni rituali, ma condizionate da queste ultime. In termini più tecnici si può ipotizzare che la pragmatica del rito condizioni la semantica religiosa» (Giorgio Bonaccorso, Il rito e l’altro. La liturgia come tempo, linguaggio e azione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, pp. 118-119).
Senza questa consapevolezza, l’uso dei vari linguaggi multimediali rivela spesso caratteristiche deprimenti per la loro povertà e per il mediocre approfondimento delle loro strategie di funzionamento: la scarsa conoscenza delle dinamiche di tali linguaggi, e soprattutto la difficile messa a fuoco della loro interazione, non possono portare all’altezza della performance vera e propria. Se nella performance rituale la multimedialità dei codici si attiva in vista di una sorta di sinestesia continuata e capace di mettere in crisi ogni specificità settoriale, se l’in-contro del gesto e della parola, dell’azione e del suono, del ritmo e dell’immagine, dell’organizzazione spaziale e sensoriale, sono in vista dell’abbandono di ogni sicurezza per lasciar emergere l’evento che anticipa ogni nostra pre-visione, e se il “cognitivo” e il senso emergono proprio dalle pratiche dei vari significanti rituali – nelle tante esercitazioni poetiche che cercano di usare la multimedialità avviene quasi il contrario: la ricchezza dei linguaggi, verbali e non verbali, si trasforma spesso in una gruccia per tenere in piedi un testo inconsistente, per arricchirlo di un divertimento che, nell’etimo, fa di-vergere dall’evento stesso nel suo accadere.
Questo bricolage della domenica – che tuttavia non sembra avere niente a che fare con il sacro della festa inteso in senso anche solo antropologico, e con la raggiunta leggerezza liberata del dilettante vero – si rivela quasi sempre per quello che è: spettacolo e rappresentazione, mai oltre; e mostra la sua ortopedia, se così si può dire, la sua assistenza sociale che fa in modo che qualcuno o qualcosa rimanga in piedi sopra un palco, davanti a un microfono, nonostante l’inconsistenza da cui si parte e, purtroppo, non quella a cui si dovrebbe arrivare tramite il gesto della performance.
In molti casi, insomma, la “crisi” che ogni gesto performativo dovrebbe scatenare come analisi in atto delle contraddizioni e dei conflitti da sempre presenti nel tessuto sociale e culturale, attivando “opposizioni classificatorie” trasformandole in “conflitti“, come direbbe Victor Turner (Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986), è già “compensata” e risolta fin dall’inizio e, al suo posto, noi al massimo ritroviamo la sua rappresentazione.
Allora, quello che “accade” non è altro che ciò che è già accaduto: ciò che già sappiamo, ciò che non fa che confermare il nostro ruolo e le nostre idee sulla letteratura e l’estetica, sulla storia e sulla società … anche e soprattutto quelle sulla performance! Quando invece dovrebbe essere proprio la stessa performance a educarci: come accade nella liturgia cristiana, gravata per molti aspetti degli stessi problemi, non dovremmo noi educare ai riti ma lasciare che i riti educhino noi. Eppure, questo stesso abbandono, come ho cercato di dire più sopra, non può avvenire se non ad un secondo grado di consapevolezza: non si tratta della falsa immediatezza dell’improvvisazione! Ogni improvvisatore vero sa benissimo che la libertà non sta all’inizio ma alla fine, che la “verginità” si raggiunge “fottendo”, che è solo nella profondità tecnica e nel rigoroso studio e pratica delle mediazioni e dei contesti che essa ad-viene, e mai sicura nel suo stesso accadere. Lo si chieda, tanto per non andare in cerca di chissà quali speculazioni, a qualsiasi musicista jazz, ad esempio.
Nella vera performance di tipo rituale, come in fondo ogni performance è, non dovrebbe mai mancare quello che alcuni studiosi hanno chiamato “disturbo comunicativo”: la capacità di interrompere ogni esaustività dei vari codici usati e profondamente patiti (non è forse anche questo una vera passione?), il rimando, questo si davvero ludico, a quell’oltre che accade proprio al centro dei linguaggi e grazie ad essi, alla loro non univocità e alla loro sintestetica sinergia – dentro rappresentazione, leggi, cultura e comunicazione, ma in una forma “non comunicativa”, perché portatrice di una comunicazione altra che tende piuttosto alla “globalità di senso”:
«Del resto, ciò che abbiamo chiamato “globalità di senso” non sta entro i limiti del significare; se si tratta veramente di una globalità di significati non è afferrabile da alcun significato, ma è solo dischiudibile da un significante aperto, fluttuante, disponibile a un continuo arricchimento semantico. Il rito è questo “significante fluttuante”, questo significante attivo che elabora senso, nel momento stesso in cui compie azioni.
La dimensione performativa consiste nell’attitudine dell’azione rituale ad essere un significante produttore di senso. Se viene meno l’azione rituale viene meno anche il significante e, quindi, viene meno la ricchezza di significati dischiusa in quel significante. […] C’è una sorta di intransitività del “significante liturgico” che lo rende insuperabile rispetto a quel senso che esso dischiude» (ibid. p. 128).
Non si tratta, infatti, solo del silenzio, ma di tutte quelle modalità non immediatamente codificabili come “informazione” e “comunicazione” – caratteristiche, queste, che dovrebbero essere da sempre patrimonio della stessa poesia, e che la loro messa in performance dovrebbe esaltare. Invece, a mio parere, manifestazioni come quelle che stiamo discutendo, quasi sempre ricadono in una pratica comunicativa fin da subito iper-classificata e sicura, incapace di comunicare attraverso il non comunicativo e i linguaggi altri che, peraltro, usa a sproposito e con un pressappochismo davvero molesto. In questo senso è di fondamentale importanza una particolare declinazione di quello che potremmo chiamare il “segreto”, in relazione con le pratiche di “iniziazione”: non si tratta, nel nostro caso, di esaltare una concezione elitaria della poesia e del suo proporsi e nemmeno di chiudersi in una sorta di ermetismo da iniziati; è, invece, proprio il contrario, perché il suo funzionamento consisterebbe in questo:
«Questa complessa dinamica del processo iniziatico non si realizza nelle singole componenti ma nel rito preso integralmente. L’intero rito, infatti, consente l’interazione tra i diversi punti di vista, consente, cioè, quel gioco tra conosciuto e non conosciuto che suscita nei non iniziati, nei candidati e negli iniziatori il senso del non totalmente posseduto e conosciuto; nessun punto di vista è esaustivo, dato che gli iniziatori vivono un passaggio che si avvale del confronto con altri gruppi. Il variegato gioco del “segreto” apre a ciò che è altro rispetto ad ogni singolo punto di vista, apre alla “trascendenza”. Si può quindi affermare che la strategia del segreto costituisce la performatività “religiosa” del rito. […] L’aspetto decisivo è dato dal fatto che all’origine di tutto c’è un modo di gestire le azioni; un modo del tutto inconsueto, fondato sul mostrare e nascondere secondo una diversa gestualità. La dinamica del segreto svela il mistero compiendo azioni, svela il sacro attraverso il corpo» (ibid. p. 129-130).
Pare proprio che il tentativo che spesso queste manifestazioni poetiche si prefiggono sia anche quello di svestire la poesia dei suoi paludamenti e di portarla ad un pubblico più ampio, in maniera più “democratica” e popolare. Ma se stiamo alle parole appena citate e al nostro ragionamento generale, l’effetto profondo è esattamente il contrario: se non si attivano le caratteristiche intrinseche alla performance rituale si rimane in una relazione puramente rappresentativa e spettacolare, all’intrattenimento insomma, senza creare quello spazio di relazione e di partecipazione capace di convocare le singolarità nel momento stesso in cui le modifica attraverso l’azione multimediale dei significanti, poiché l’azione comunitaria non passa attraverso i messaggi o i significati:
«Come risulta da innumerevoli dati etnografici, la segretezza non è un optional del rito, ma una sua dimensione intrinseca, che si configura anche come principio discriminante tra osservatore esterno e partecipante interno. A un osservatore esterno il rito appare come un miscuglio di linguaggio metaforico e di azioni prive di alcuna rilevanza per la vita quotidiana; quell’osservatore è portato a identificare il rito come fiction teatrale o con qualche altro tipo di rappresentazione. Per l’osservatore interno, invece, per chi è coinvolto dal rito, non solo perché è un credente, ma perché è trasformato dalle sue azioni, la fiction rituale non è una rappresentazione della realtà, ma un “di più” di realtà, una “presenza” eccezionale» (ibid. p. 130).
Il loro successo, anche se relativo, mi pare provenga proprio da qui, da questa rappresentazione del performativo, dalla sua rappresentazione piuttosto che da una sua effettiva pratica: il pubblico si diverte, e pure i poeti che vi partecipano; si crea facilmente un’audience – ma pubblico e attore dell’atto performativo rimangono quello che erano all’inizio, ognuno al suo posto, ognuno con le sue funzioni soggettive proprie, mentre
«Il segreto è questa proibizione di un’audience, è quell’atteggiamento in cui si rivela l’attitudine del rito a realizzare una profonda interazione tra i partecipanti. Il segreto opera in una doppia direzione: lega intimamente coloro che lo condividono, facendone una comunità, e impedisce lo sguardo dei semplici osservatori, evitando il pubblico. […] Il rito non sopporta un pubblico, poiché esso in-siste nella comunità che lo compie. Il rito è comunitario ma non pubblico» (ibid. p. 130-131).
Allora, il pubblico può casomai godere di qualche minuto di ilarità, di conoscenza o di sentimento. Niente di male in tutto questo, sia chiaro, ma parliamo d’altro.