NUOVI INIZI: Francesco Maria Tipaldi, “Traum", Lietocolle, Faloppio (CO) 2014

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Adriano Cecioni, “Cane che defeca” 1880 ca.

NUOVI INIZI: Francesco Maria Tipaldi, Traum, Lietocolle, Faloppio (CO) 2014

– Insomma, un Fiore, Rosmarino
O Giglio, vivo o morto, vale
Un escremento d’uccello marino?

A. Rimbaud

francesco_maria_tipaldi_traum_copertinasito1Germinazione, il passaggio dalla poetica della fine a una costruzione dell’essere, di un mondo che rinasce in conflittualità “tensive”, negli slanci a una fuoriuscita che rimargina i vuoti, i buchi comunicativi.
Fine del Novecento, la poesia originaria (e “originale”) di Francesco Maria Tipaldi investe il lettore con le ormai consuete deformazioni, l’impatto “allegorizzante” indugia su circonvoluzioni rococò scaturenti dalla totale immersione nell’ambivalenza finzione-realtà. I quadretti descritti – eppure indescrivibili -, tiepoleschi, vivono della presenza costante del doppio registro, stirando il senso, distribuendolo in stringhe di pensiero che si svolgono tra la sacralità dell’esclusione, dell’hybris linguistica, e la rapsodia volatile, il non senso che si fa strada nel “trauma”, nel sogno (anche il titolo galleggia sull’ambivalenza, in traduzione stavolta, e richiama evidentemente una terminologia “psicologica” legata alle fasi nascenti del XX secolo).
Tra sogno e realtà, la vita volteggia in paradossi folgoranti che riescono ad accendere un nuovo vigore comunicativo:

il papavero della festa

il maiale venne subito acciuffato
la sua fuga fu poco ragionata

fu un trionfo di sangue
sfracello di ossa, rose papaveri
la signora mungeva i ragazzini
sulla salitella

(p. 22)

La tensione instaurata nell’immagine, che si staglia dal vuoto testuale, sembra prendere avvio da un desiderio “espulsivo”, di rifiuto di qualsiasi cantabilità edificante, nella volontaria caduta “escrementizia” che evidenzia – la sempre più postnovecentesca – capacità della lingua di trasformare la “scatologia” in escatologia, nuova erotica relazionale:

Nonostante il contadino urlasse
il cane continuò a defecare – pur volendo
non avrebbe potuto fermarsi.

(p. 26)

Erotica della fine, della morte, della gravità dell’esistere che si ribalta in sgorgo liberatorio, appunto:

il nucleo del sole esplodeva all’esterno,
feroce

passarono i cani veloci al massimo e fu subito giorno
di nuovo, gravità: qualcosa tirò a terra l’enorme
contadina

le api le annusarono l’ano e i seni
ebbero miele
pregiato le api – per sempre – la primavera

(p. 27)

Ma è la dimensione mortuaria ad agire da contraltare “vivificante” nella paradossale, eppure necessaria, domanda dell’attraversamento. Soltanto, sembra dirci Tipaldi, nell’accettazione del male (della sua estenuante banalità) si può scorgere l’approdo a nuove aperture, al nuovo millennio: «la morte era questo calore passato ad altro/ questa forma silenziosa di lavoro» (uscirono per vedere cosa stesse accadendo, p. 30, vv. 5-6).
Già nella precedente raccolta, Humus (uscita nel 2008 per i tipi de L’arcolaio, cui si rimanda qui), l’imago rappresentativa, ombra di comunione, era la spinta di una verbalizzazione, che si confrontava con i bassi e gli alti delle sue capacità comunicative, ad agire. Traum espande questa tensione, aspira a una sacralità che non ha nulla di metafisico ma che sperimenta la potenzialità del mondo a crescere dalle sue “bassezze”: «fu quella distesa d’erba senza fiori, né neve/ il luogo immenso dove tutto/ divenne sacro» (fu quella distesa d’erba senza fiori, né neve, p. 37, vv. 1-3).
Un nuovo desiderio vitalistico si fa luce tra le ombre, ogni vicenda nella sua visionarietà espelle una nuova visuale:

Il tuo azzurro figliolo bambino
Gesù mi ha lasciato
per strada e se n’è andato a pescare
signor Dio, mio Dio della grazia, una donna ha figliato vitelli
non è straordinario?!
Aveva il ventre gonfio e la vagina sporca
era grassa come una vacca e la bocca era immensa
aperta aperta e voleva inghiottire la luna
troia la luna era
nel cielo una compressa effervescente, la notte era un enorme
bicchiere
vodka latte una troia mi ha sputato nella bocca
il seme della morte –

la vita è improbabile, i cessi sono
lontani e pioveva
pioveva la grondaia vomitava furiosamente
Il cassonetto sputava come fosse un drago
i suoi gatti enormi, come fossero
fiamme
– fwhuieiiww –
(i gatti sono persone cattive)

Mentre l’angelo di Dio era lì a guardarmi le spalle
io vi tirai un giavellotto
e lo uccisi,
povero fesso povero fesso
e la grondaia vomitava furiosamente
Qualcuno mi dia un passaggio o dovrò aspettare
che la casa venga in giro a cercarmi
e non credo senta la mia
mancanza

sono bagnato come un rospo
me la sono fatta sotto, sono un fiore
che da solo cammina
sono un fiore con le gambe

(pp. 45-46)

La parcellizzazione secondo novecentesca delle esperienze, la sottrazione di senso che ne è derivata, ha annientato il panorama relazionale in cui l’uomo del passato dimorava. Così l’ossessione perpetua della casa, della patria cui tornare, metaforicamente è riattivata in Tipaldi grazie all’attaccamento viscerale alla terra, alla sua carica destabilizzante di territorio costantemente selvatico, per cui l’orientamento non è plausibile se non nella possibilità della perdizione, senza la nostalgia di approdi ulteriori o ritorni rassicuranti (muore Argo e muore l’esempio “dispersivo” protonovecentesco, come nel componimento Patria di Pascoli):

236

quella trave dove i topi non passano
è la mia casa

le rimango attaccato come la morte
al tuo sesso, gelatina
– che la carne non va a male per mesi
francesco
maria cantare si deve al contrario
non avrai nostalgia, nè tantomeno
avrai ricordi

(p. 48)

Il tempo non è più memoria ma «contrazione» (cfr. p. 60), vortice di ricordi che si deformano. Il “trauma” si fa reale e mostra la sua illeggibilità e, nondimeno, l’ineluttabilità della sua evenienza che solo la cura per il mondo, che emerge dalle capacità affabulatorie di ogni linguaggio, può riattivare, o meglio, eternare.

– correremo nell’acqua nel nome del padre
ed io avrò nove anni –

Il sonno c’aveva abituato alla morte
discesero salmonelle celesti.

mai viste tarantelle tanto cupe
o tanto lente

si scendeva nel lago, gli uomini e le bestie
io e il mio cane Alzheimer e la famiglia,
c’erano tutti,
il grassone si torceva nell’erba, la tigre gli strappava
pezzi di carne

Per arrivare al passato il cammino è immenso

questa è patria di finitudine
i bambini tiravano calci e scappavano
un uomo disegnava un altro uomo
nell’erba

e poi tu passavi, indossavi altre facce
e altri nomi,
io vorrei insieme a te sparire nella luce
vorrei dormire nel cotone
dei tuoi occhi
eternamente

– figli miei, voi avrete la fortuna di assistere a un’apocalisse
significherebbe assistere al compimento,
all’amore dell’amore –

uomini vivi o uomini sognati
questo è il rifugio che Dio stava preparando per noi,
uomini e bestie
oppure è il tanfo della natura che si rigenera
o ancora si tratta del nulla, quello con cui i poeti
vanno fuori a giocare

se solo sarete coscienti, abbiatene cura

(pp. 72-73)

Gianluca D’Andrea
(Aprile 2015)

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