
Hieronymus Bosch, Trittico del giardino delle delizie, olio su pannello – 1500 ca., Museo del Prado, Madrid
di Andrea Ponso
IN GENERE RITUS – Qohèlet o del “niente” sempre nuovo sotto al sole
In uno dei suoi testi più profondi e anche letterariamente sorprendenti, Michel De Certeau analizza una delle molte storie relative ai “santi folli” con queste illuminanti parole:
«Una donna, dunque. Non esce dalla cucina. Non esce, perché è qualcosa che riguarda lo sbriciolamento e gli avanzi di cibo. Ne fa addirittura il suo corpo. Si sostenta nell’essere solo questo punto di abiezione, il “nulla” che ripugna. Ciò che “preferisce” è di essere la spugna. Sui capelli, un cencio da cucina. Nessuna discontinuità tra lei e i rifiuti: non “mastica”; niente separa i detriti dal suo corpo. Essa è questo resto, senza fine – infinito. Con procedimento inverso alla produzione di immagini che idealizza la Vergine Maria, unificata nel Nome dell’Altro, senza rapporto con la realtà del corpo, l’idiota sta tutta intera nella cosa simboleggiabile che resiste al senso. Prende su di sé le funzioni corporee più umili e si perde in un insostenibile, al di sotto di ogni linguaggio. Ma il rifiuto “ripugnante” permette alle altre donne di spartire i pasti, di avere in comune i segni vestimentari e corporali di elezione, di comunicare parole; l’esclusa rende possibile un’intera circolazione» (M. De Certeau, Fabula Mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Il Mulino, Bologna 1987).
Questo “sbriciolamento”, questo “punto di abiezione”, questo “nulla che ripugna” e che non pone barriere di “discontinuità tra lei e i rifiuti”, tra il suo corpo e i “detriti”: questo “resto senza fine” – mi pare l’esatta percezione dell’indescrivibile nucleo che dovrebbe alimentare la ricerca e la scrittura: indescrivibile in quanto origine in atto, che spinge necessariamente a modalità del dire e dell’esperire del tutto particolari. Questo non cedere all’unificazione “nel Nome dell’Altro” staccato dalla realtà del corpo, è precisamente la “resistenza al senso” che diventa semiogenesi continua dei codici e dei “discorsi”. Questo nulla concretissimo di cui siamo rugosamente fatti e disfatti, questo sbriciolamento che è l’unica resistenza vera all’idolo in pietra che ognuno di noi cresce dentro di sé come un granuloma di felicità e stabilità – ma che, in realtà, sembra essere la metà meno viva e meno gioiosa di ogni esistenza. Questo tracciato atomico che ogni linguaggio, anche senza saperlo, presuppone e censura, oppure crede di mostrare proprio quando tale sicurezza lo affossa e lo trasforma in piedistallo, in posa. Esso è il vortice che temiamo fino all’orrore e, nello stesso tempo, l’unico respiro possibile di liberazione e di gioia.
Anche l’hevel di Qohèlet, forse, ci chiama, oscuramente e limpidamente a un tempo, verso questo vortice, questo vento che, ad un tempo, sparpaglia vanificando e raccoglie disperdendo. In questo senso la lingua ebraica può venirci in aiuto. Si è molto disputato sul senso di tale “nome”: se esso sia un nome proprio o solamente legato ad una funzione, perché la sua radice indicherebbe il “radunare”, il “chiamare a raccolta”. Ma cosa o chi sarebbe il soggetto di tale richiamo? Quasi tutti gli esegeti sono d’accordo nel ritenere che i “chiamati” siano gli ascoltatori; ma non potrebbe essere che, invece, non si tratti di soggetti bensì di “oggetti” o, per meglio dire, di parole, pensieri, sentenze, esistenze e presenze? Il testo non potrebbe essere la raccolta di qualcosa che, di per se stesso, è impossibile da accumulare e da tesaurizzare – come i “resti” e il discontinuo dei “rifiuti” che lo stesso hevel disperderebbe infinitamente, rifiutandoli al senso compiuto e idolatrico del concetto e della dottrina?
Sarebbe del resto un “vento” che soffia parimenti, sempre secondo De Certeau, nel famoso trittico di Bosch, scombinando e vanificando ogni tipo di possibile interpretazione e di significato – non elidendoli ma, al contrario, inducendo il “lettore” a cercarli e ad attraversarli incessantemente:
«Il quadro gioca sul nostro bisogno di decifrare. Rende schiava la pulsione occidentale alla lettura. La meticolosa proliferazione di figure chiama in modo irresistibile la resa narrativa indefinita, folkloristica, linguistica, storica o psicologica che, in cento deviazioni erudite, a ogni elemento iconico fa raccontare un senso. Come il discorso suscitato dai bagliori di sogno, la letteratura sul “Giardino” è una serie interminabile di storie indotte dall’uno o dall’altro dettaglio del quadro: con l’aiuto di una grande quantità di schede, lavori e documentazioni leggibili, essa fabbrica i racconti eruditi partendo da frammenti pittorici. Racconti che sanno di lettere sembrano generati all’infinito dal Giardino delle delizie. Questi racconti studiosi, in realtà, (le mille e una notte dell’erudizione), seguono, ritardano o smentiscono il momento in cui il piacere di vedere è morte del senso. Spesso contraddittori quanto perentori, i testi sapienti crescono di volume, ma al prezzo di abbandonare, se non di coprire, il luogo di cui parlano. Dal quadro che fa godere ai commenti che fanno capire, la differenza primaria è nel contrasto fra lo spazio chiuso del primo e l’indefinita disseminazione dei secondi, e nell’esteriorità del piacere di vedere rispetto al lavoro del discorrere» (M. De Certeau, ibid.).
A questi livelli ogni critica “testuale” viene quindi attivata al suo massimo potenziale e, nello stesso tempo, resa impossibile – preservandone il desiderio insieme allo scacco.
Ma, naturalmente, perché tutto ciò possa accadere, è necessaria una cornice dalle regole ferree, una maestria e un artigianato millimetrici, un insieme di ingranaggi per certi versi simili a quelli delle macchine celibi. Quando questi mancano, sia dalla parte del lettore, sia da quella dell’artista, può accadere una saturazione e stratificazione dei significati, oppure una totale indifferenza che, è meglio specificare, è l’opposto della vanitas e dell’hevel di Qohèlet.
Piuttosto, essa potrebbe essere per certi aspetti paragonata alle forme di comunicazione dei nuovi media, ma perforata e performata da uno sguardo altro, capace di relativizzarne in ogni momento quel primordiale bisogno conativo di presenza da certificare che potremmo riassumere nell’io (ci) sono o, meglio, nel ci sono anch’io. Bisogno umanissimo, quest’ultimo, e che riguarda tutti, ma che non basta a produrre esperienze estetiche e letterarie degne di nota e di critica.
Infatti, seguendo la pratica testuale di Qohèlet, parrebbe che il nostro uso dei nuovi media in campo estetico e letterario, si fermi proprio un attimo prima del “compimento” e della “raccolta”; mentre la dinamica del testo biblico sfonda il suo stesso “uso”, deponendo le armi della retorica e della sapienza proprio nel momento del loro massimo dispiegamento e oltre questo stesso dispiegamento che, così, ne diventa davvero la miccia detonante e la loro preservazione nella scomparsa. Vengono alla mente le dinamiche profonde del Chisciotte di Cervantes, quella follia che solo bardandosi di nobiltà e lignaggi immaginari, di fantasmi e di storie e fole di cavalleria, ha saputo spogliarsi e cadere interamente nella nobiltà della ricerca, fino a realizzare quella follia misericordiosa capace di vedere anche in due prostitute incontrate in una osteria, due nobili donne degne di ogni onore. E questa follia è in fondo simile a quella che viene dallo sguardo di Cristo, capace di trasfigurare la realtà fino al punto di toccarla misericordiosamente per quello che è.
In altre parole, se tutto è hevel, allora lo è anche questa stessa dichiarazione biblica – e ciò che rimane e viene raccolto non è un insieme di idee, immagini o concetti ma, piuttosto, il loro movimento e ritmo, lo scheletro vibrante e i gesti di una retorica testuale e vitale capace di salvare se stessa solo elidendosi e spargendosi per eccesso: un’esperienza a cui siamo chiamati a partecipare attivamente, come accade nel rito, perché qualcosa accada e cada. Il movimento rituale sembra accordarsi, in questo senso, ai celebri versi rilkiani delle Elegie Duinesi, in cui si dice: “E noi che la felicità la pensiamo / in ascesa sentiremmo la commozione, / che quasi ci atterra sgomenti, / per una cosa felice che cade“.
E in questa misura rigorosissima della dismisura, in questo confine poroso e non facilmente rintracciabile, vive, a mio parere, l’evento necessario dell’estetico nella sua gratuità, ma anche il peso insopportabile e tedioso del suo “impegno”, del suo esserci per presenziare aggrappandosi ai grumi e ai resti – di contro all’equilibrio dinamico, inservibile e folle della presenza. Un meccanismo testuale o artistico che non innesti questo sur-place estetico-rituale, che non muova la critica verso un’attività capace di modificarla fino all’osso, lasciandola poi sempre libera da ogni proprietà e appropriazione e capace così di ricominciare sempre di nuovo, mi sembra personalmente privo di vita.