
Franco Tosi, Mitosi 2#11 – 2013 (Olio resina su tela cm. 85×210)
di Andrea Ponso
IN GENERE RITUS – Dal “reale” come rappresentazione al ritmo della “simulazione incarnata”
Uscendo dal reticolato protettivo della scrittura risulta con maggiore evidenza quanta poca forza e significato abbia quello che, per semplicità, potremmo chiamare ritorno al “realismo” e al “quotidiano” in poesia. Scontato il fatto, mi pare, che questa tendenza non sia per niente un tentativo di aggredire e toccare quel “bollore di prepotenze che è la realtà” – come diceva Zanzotto – proprio perché esso viene in qualche modo ridotto solamente alla sua rappresentazione, e il più delle volte estremamente stereotipata e assunta come un dato ormai acquisito, sarebbe interessante provare a vedere su cosa essa poggia, magari anche inconsapevolmente. Questo tipo di scrittura sembra porsi come la voce di un soggetto di fronte al suo oggetto: una frontalità che ha molto a che fare con la pratica tanto in voga del selfie, dell’estemporanea fotografia di un momento, di un paesaggio – e, quel che è peggio, di un sentimento o di uno stato d’animo – da una prospettiva che è, per lo più, di tipo tele-obiettivo, mediata e distanziata anche dalla stessa scrittura, ormai appunto usata come vero e proprio media. Sì, perché non si tratta solamente di una scrittura da cartolina, illustrativa degli ambienti esterni o dei paesaggi: essa sembra trattare anche quello che viene chiamato “interiorità” con la stessa tecnica – nella convinzione che vi sia appunto qualcosa come “l’interiorità” da esibire all’esterno … ancora questi dualismi, questo cartesianesimo da liceali, fondamentalmente difensivo e ignaro delle dinamiche cognitive. Il processo, per essere brevi, è simile in molti aspetti all’effetto reality, ad una saturazione della realtà per eccesso, anche quando viene tratteggiata solamente per sommi capi o brevi cenni. Proprio perché, anche in questo caso, lo spazio del possibile viene quasi del tutto eroso e come oggettualizzato in primo piano, senza punti di fuga, usando il gioco della prospettiva realistica. Così, l’illusione, tanto diversa dall’in-ludus rituale, sarebbe quella di una saturazione che coinvolgerebbe anche gli altri organi di senso non direttamente interessati alla fruizione riduttivistica e rappresentativa. L’immediatezza, insomma, verrebbe data per scontata, scambiando il medium con i procedimenti mediatici. Una situazione che, teologicamente, prenderebbe il nome di escatologia compiuta e, quindi, non più bisognosa delle mediazioni rituali; e che invece, in ambito estetico, si può leggere come la rinuncia alla complessità mediante la convinzione o, meglio, la rassegnazione all’obbiettività del vedere e del sentire – che può naturalmente anche rovesciarsi nell’altrettanto rassegnata e difensiva parzialità soggettiva e sentimentale. Siamo molto lontani, io credo, da tutti quei processi recentemente studiati e sperimentati non solo dalle neuroscienze, ma anche dalle più semplici e ormai consolidate convinzioni delle scienze come, ad esempio, il principio di indeterminazione. Oggi è tanto in voga l’empatia legata al funzionamento dei neuroni specchio, ma pare che il loro funzionamento non sia così scontato e semplificato come si potrebbe pensare. Alla base, infatti, sembra ci siano neuroni legati alle aree pre-motorie che si attiverebbero contemporaneamente anche per funzioni di tipo sensoriale, creando una sorta di “simulazione incarnata” (Gallese), capace di far partecipare il corpo del soggetto ai movimenti dell’oggetto osservato o percepito tramite i sensi. Questa nuova visione, tuttavia, sembra contraddire quella di tipo cognitivo classico, legata fondamentalmente ai significati di tipo proposizionale e referenziale. In questa prospettiva cognitivista sembra di poter ancora parlare di rappresentazione, di rappresentazione non incarnata ed essenzialmente legata alla divisione tra soggetto e oggetto, nella convinzione comunque resistente e rassicurante di un referente che ci sta davanti e di un soggetto capace di conoscerlo anche senza inter-agire con esso – sia attraverso una sorta di allucinata oggettività, del tutto fittizia; sia mediante una vaga idea soggettiva. Sembra sia ancora questo il modello di tanta letteratura contemporanea; mentre le nuove frontiere delle neuroscienze sarebbero più propense a riconoscere un’azione pre-categoriale, in cui la divisione tra oggetto e soggetto non è ancora avvenuta, come vera e propria base e fondamento nella formazione anche del senso e dei significati:
E’ in questi atti, in quanto atti e non meri movimenti, che prende corpo la nostra esperienza dell’ambiente che ci circonda e che le cose assumono per noi immediatamente significato. Lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende. Si tratta […] di una comprensione pragmatica, pre-concettuale e pre-linguistica, e tuttavia non meno importante, poiché su di essa poggiano molte delle nostre tanto celebrate capacità cognitive. (Rizzolato/Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 3).
Ed è proprio questo lo spazio che il rito cerca di raggiungere e rendere attivo ogni volta. Da questo punto di vista, allora, credo possa valere anche per l’estetica e la scrittura lo stesso processo che ritroviamo nel rito. Scrive a tale proposito Aldo Natale Terrin:
Ho parlato altrove di zona franca della coscienza, della sua libertà rispetto al mondo, individuando in questo scarto e in questa cesura il momento ludico per eccellenza del mondo rituale e religioso simbolico. Non intendo smentire quelle riflessioni, ma mi trovo ad esprimermi in questo contesto in una maniera alquanto più pragmatica per un bisogno quasi istintivo e primordiale di affermare che il rito vale prima e oltre tutte le interpretazioni, le letture, le finalità e i significati particolari che vi si vedono iscritti. […] se i significati del rito non possono essere spiegati attraverso le linee del linguaggio naturale, mi sembra naturale che si debbano abbandonare quell’indirizzo e quella linea di ricerca. Per questo mi piace la quasi definizione che dà Staal del rito quando afferma che esso è come il canto degli uccelli. Ma che cos’è, in definitiva, il gioco (e il rito) se non questa espressione di una semantica globale il cui vero supporto è sempre e soltanto dato dalla pragmatica, in quanto le regole che sono costitutive del gioco come del rituale dimostrano chiaramente di avere una forza pragmatica inversamente proporzionale alla loro provvisorietà semiotica e semantica? (Aldo Natale Terrin, Antropologia e fenomenologia della ritualità, Morcelliana, Brescia 1999).
Da questo punto di vista, allora, cosa potrebbe intercettare quella che, semplificando, individuiamo come “realtà”? Dove potremmo trovare i suoi tracciati? Personalmente non credo sia possibile né a livello dei significati né all’altezza dei referenti. Piuttosto, invece, nel movimento stesso del poiein, nel continuum del ritmo e della prosodia, in quell’azione che attiva anche nel lettore, anche solo con scarti minimi – come può essere la direzione di uno sguardo che si volta, o lo stacco di un enjambement, o, ancora, la sorpresa di una modificazione della costruzione sintattica – il gioco partecipativo e attivo del gesto creativo stesso o del tatto e di ogni altro sentire sinestetico nell’incontro con il “reale” nel suo darsi ed esporsi. Si tratterebbe, insomma, di quello spazio liminale in cui l’incontro crea ogni volta di nuovo l’oggetto e il soggetto senza mai poterli fissare definitivamente, come accade, ad esempio, nella lettura dei tracciati atomici.