IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – La traduzione "in genere ritus"

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Pianura d’ossa (rielaborazione di Gianluca D’Andrea)

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – La traduzione in genere ritus

In Gv 2, 21 l’evangelista, riferendosi alla distruzione del tempio da parte di Gesù, ci dice che si trattava del “tempio del suo corpo”. Questa fondamentale sottolineatura giovannea potrebbe essere la base per provare a pensare alla traduzione letteraria in genere ritus. Questa dichiarazione teologica, infatti, sottolinea che sempre, quando si parla di esperienza, non si deve dimenticare che essa è per sua natura multimediale, estetica e spazio/temporale: il tempio non è riducibile alla sua costruzione, esso è anche (e forse soprattutto) fatto dell’insieme sinestetico dei vari linguaggi: perché il corpo, come il testo, parla e ascolta; compie azioni e gesti significanti ed è esso stesso significante nel suo insieme; inoltre, esso è sempre un corpo incarnato in un contesto storico e spaziale, culturale e temporale. E tutto questo ne fa un corpo rituale, vale a dire un tempio nel suo evento non riducibile alla mera linearizzazione cartesiana o della scrittura, alla sua costruzione, ai suoi apparenti confini e muri.
E così lo stesso testo non è riducibile alle sue coordinate logico-grammaticali o concettuali; esso non è un veicolo o un contenitore di significati e immagini solamente. Traducendolo, infatti, esso vive la sua multimedialità, ritorna a rivivere incarnandosi nella partecipazione attiva, interna, del traduttore, dell’esecutore e dell’ascoltatore/lettore – riportando al presente e alla presenza la sua origine, la sua archè: “in principio era il logos”, vale a dire che il principio, l’archè, non può essere collocato oltre o al di sopra dell’evento del testo e dei suoi contesti, ma nel logos che si fa carne, gesto, tempo e storia, sentire e patire, suonare ed essere suonati, accordare ed essere accordati.
Se la traduzione ha un qualche valore, dunque, non sta tanto nella sua capacità riduttiva di tradere e trasportare da un codice linguistico all’altro un pacchetto di significati, magari abbelliti dalla nostra sensibilità e adattati alle coordinate spazio-temporali e contestuali della nostra esistenza – ma dal rendere attiva e viva quell’archè, la sua “tradizione” in atto che, diventando corpo, gesto, sentire e incarnazione, ci rende fedeli sia alla nostra benedetta finitezza, sia all’inesauribilità significante della multimedialità storico-temporale di un testo-corpo che si fa carne.
Naturalmente, non tutto dipende da noi e dal nostro sguardo: questo sarebbe pura e semplice idolatria; la bellezza non è un trascendentale, e nemmeno il nostro modo di concepirla. Essa è piuttosto, anche nella pratica del tradurre, la grazia di vedere, vivere e sentire il tutto, con i sensi, lo sguardo e i linguaggi di un Altro/altro. È vedere, da una prospettiva religiosa, non la bellezza di Dio, ma il mondo con i suoi occhi, di sentirlo con i suoi sensi, di praticarlo con i suoi gesti e con le sue azioni. Questa alterità mai del tutto riducibile a noi stessi, è anche l’alterità del testo originale in una traduzione; e la sua bellezza non sta nel suo essere un oggetto disponibile davanti al traduttore, ma in quel lasciare ospitale che il traduttore cerca di instaurare per far si che sia il suo stesso sguardo guidato dallo sguardo dell’altro.
La condizione del traduttore, in definitiva, è molto simile a quella del profeta Ezechiele che, nel capitolo 37, si trova di fronte alla famosa “pianura d’ossa”: egli si chiede ma, soprattutto, chiede all’Altro/altro e a Dio, “Signore, potranno queste ossa rivivere?”. E forse quelle ossa, quell’immensa comunità-tempio e testo, non sono né vive né definitivamente morte; ma l’uomo e il profeta, come il traduttore, hanno bisogno di staccarsi dall’unicità del loro sguardo – come gli uomini di Babele – per aprirsi alla possibilità di vedere, esperire e vivere attraverso lo sguardo, l’esperienza e la vita dell’Altro/altro, di Dio stesso. Sta nello sguardo di Dio la bellezza, nelle sue modalità multimediali di vedere, non nel nostro affannarci a costruire le nostre idee di bellezza e di perfezione, di traduzione o di esistenza. Ma, nello stesso tempo, tutto questo non avviene “oltre” la pianura d’ossa, ma in essa e da essa. E forse le ossa della traduzione, amorosamente analizzate e studiate, potranno davvero rivivere anche oggi, nel nostro presente.
Tradurre è anche quindi sempre prendere coscienza di quella pianura d’ossa che è il testo, e della sconfitta salvifica a cui andiamo incontro. Ma tale sconfitta, tale luminosa e tragica finitezza, è il punto in cui noi ci stacchiamo dalle nostre pretese egoistiche di chiusura babelica, dalle nostre idee di bellezza e di giustezza/giustizia, per aprirci all’anticipazione che rimette carne e tendini su quell’ammasso seccato e confuso, per ridare vita.
Ed è proprio questo abbandono fiducioso – fiducioso nell’Altro/altro ma anche nella sua radicale limitatezza – che si esplicita nella parola di Ezechiele quando dice “Signore Dio, tu lo sai”: in queste parole c’è un’etica profonda, che può essere perfetta anche per la traduzione. Essa, come abbiamo detto sopra, lascia spazio alla bellezza come modalità del vedere dell’Altro/altro, come anticipazione e affidamento all’alterità e alla relazione con essa.
Tutto questo comporta anche una radicale critica al concetto classico e ipostatizzato, ideale, di bellezza e a quelle che un tempo, in ambito di teoria della traduzione, venivano chiamate “belle e infedeli”. E anche in questo ambito può esserci d’aiuto la teologia, attraverso la Croce: essa, infatti, è uno scandalo che tiene insieme simbolicamente e concretamente una critica radicale all’etica, al religioso, al politico ma anche all’estetico; è la crisi di ogni pre-giudizio etico, religioso, politico ed estetico. È anche la fine della bellezza come “idea”, come “copia”, come adeguazione ad un concetto o ad un dogma. La sua trasgressione impedisce ogni accomodamento dell’alterità, ogni protesi od ortopedia estetizzante, mostrando proprio nella sua finitezza e debolezza l’alterità in quanto tale, nella carne stessa di quell’evento, di quell’uomo, di quel textum vivente fatto di nervi e carne, di azioni e silenzi, di parole e di grida. Con la Croce, infatti,

«viene così ad infrangersi il primato del bello, o almeno di quello legato ai modelli consueti. La croce è una delle più potenti infrazioni dell’armonia e della proporzione, soprattutto se, alla luce della fede, si identifica il crocifisso col Figlio di Dio. La croce è la quintessenza della sproporzione: la sproporzione tra la gloria di Dio e la vergogna del patibolo. […] A ciò sono chiamate non solo le arti visive, e in particolare la pittura e la scultura, ma anche altre arti, dato che nella vicenda pasquale di Cristo c’è la parola dell’abbandono, il suono stridente dei mezzi di tortura, il movimento che conduce alla morte, la rottura del tempio. […] la rilevanza riconosciuta alla sensibilità indipendentemente da un archetipo ideale (almeno in buona parte del mondo biblico) in tempi più recenti diventerà così centrale da poter divenire il prototipo dell’arte: sono così poste le premesse per la sensibilità e l’azione “come” bellezza. In secondo luogo, dato che la sensibilità e l’azione sono segnate anche dalla bruttezza, vengono poste le premesse per una sensibilità e un’azione che sono oltre la bellezza» (G. Bonaccorso, L’estetica del rito. Sentire Dio nell’arte, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, pp. 38-39).

Il superamento di un archetipo ideale ha molto a che fare anche con la problematica della traduzione. Quasi sempre l’archetipo ideale viene dalla cultura e dalla lingua d’arrivo, imponendosi in maniera più o meno pronunciata sull’originale; senza contare che la stessa preminenza della divisione dualistica tra significato e significanti porta a privilegiare il primo a scapito dei secondi o, quanto meno, ad usare la forma e i significanti solo come possibilità di abbellire un contenitore in cui già il contenuto è in qualche modo fissato. Ci può quindi essere, nella traduzione, un idolo ideale della bellezza come forma che si adatta alle caratteristiche della lingua d’arrivo; e un idolo ideale della bellezza dei significati e dei concetti in qualche modo indipendenti dalla forma vista come qualcosa di accessorio o estetizzante, qualcosa come il tentativo di portare l’anima del testo originale in un altro corpo adattandola alla sua morfologia. In entrambi i casi le operazioni mancano propriamente il senso e la pratica dell’incarnazione. E questo, sia da una prospettiva di antropologia biblica, sia da una prospettiva cristiana, non è sostenibile.
Il modello, anche per la traduzione, dovrebbe quindi essere proprio quello della rivelazione:

«Se nel modello privilegiato dalla filosofia greca un aspetto decisivo è costituito dalla partizione del reale tra mondo sensibile e mondo ideale, nel contesto biblico emerge un’altra dinamica, che non ripartisce la realtà, ma nell’unico mondo esistente riconosce due poli radicalmente diversificati e allo stesso tempo profondamente intrecciati: si tratta della polarità tra il Signore e il suo popolo, tra il Creatore e la creatura, tra Dio e l’uomo. […] Non a caso la nozione di spirito viene a qualificarsi non come l’indicazione di un mondo alternativo a quello materiale, ma come la relazione tra Dio e l’uomo. […] la relazione teandrica, ossia la rivelazione di Dio all’uomo, si muove tra una dimensione etica e una dimensione estetica, insistendo ora più sulla prima ora più sulla seconda. Se però ci si riferisce alla bellezza, è quanto mai rilevante procedere a individuare ciò che anticipa l’uomo e il suo impegno etico: occorre cioè rivolgere l’attenzione a ciò che sorprende l’uomo come avviene nell’intervento estetico di Dio. Il bello estetico è primario rispetto al bello etico (o al bene), proprio come l’essere sorpresi dal rivelarsi di Dio è primario rispetto alla risposta dell’uomo. E poiché la rivelazione consiste tanto nel fatto che Dio intercetta la sensibilità umana, quanto nel fatto che per fare ciò deve muoversi verso l’uomo, ossia agire, il primato della bellezza estetica riguarda tanto la sensibilità quanto l’azione» (Bonaccorso, ibid., pp. 40-41).

In questa logica della rivelazione come incarnazione può entrare anche la dinamica più appropriata alla traduzione. L’essere anticipati dalla rivelazione presuppone una continua criticizzazione radicale dei nostri modelli di bello, di forma e di cultura (senza tuttavia cancellarli): chi traduce dovrebbe scoprirsi letteralmente anticipato e sorpreso dal testo che sta ascoltando e a cui sta lavorando, così come dovrebbe accadere al lettore. La forma è quindi quell’azione che ha la forza di imporsi anche contro, seppure dentro, le nostre categorie, non lasciandosi mai catturare completamente nelle regole e nelle estetiche della lingua d’arrivo. Questa rivelazione della traduzione potrebbe forse essere avvicinata a quella capacità individuata da Deleuze di rendere minore la lingua maggiore, di deterittorializzarla, di lavorarla dall’interno mettendola in una crisi positiva, senza perdere o addomesticare la novità e la sorpresa della rivelazione dell’estraneità e dell’alterità che l’originale porta sempre con sé.
Se si prende come esempio la riflessione di Rosenkranz sul “brutto” si potrebbe forse sostenere che anche la bellezza di una traduzione non sta tanto nella mimesis dell’ideale originale che, inevitabilmente, cadrebbe nelle consuete categorie della lingua d’arrivo, ma in un’azione e in una dinamica di relazione tra queste ultime e l’alterità e il non-consueto dell’originale che, di solito, si tende a neutralizzare. Non si può più immaginare, insomma, una relazione al bello ideale, al testo di partenza come archetipo assoluto, proprio perché, così facendo, si proietterebbero quasi inevitabilmente le nostre concezioni di bello, di ritmo, di proporzione, e alle regole specifiche della lingua d’arrivo; una lingua che porta già al suo interno tutto un insieme di valori e di idee, di forme e di articolazioni regolari del testo che non possono non spingerci verso la direzione prima stigmatizzata. Lo scontro che può portare anche al “brutto” e al non-consueto, nel nostro caso, è quindi riferito alla frizione e all’attrito che l’azione del tradurre dovrebbe portare inevitabilmente con sé. La riconsiderazione di tale attrito tra i due testi in questione, allora, ci porta anche ad una pratica del testo come corpo e fisiologia, ad una somatica, ad un tatto che non significa semplicemente e idealisticamente rispetto delle “buone maniere” della lingua d’arrivo, ma percezione della ruvidità e grumosità, dei vuoti e dei pieni di una fisiologia del testo che si espone alla mano nell’ascolto, nella pratica e nella lettura.
Tutto questo passa attraverso la centralità del significante, di un significante non contrapposto ai significati ma che, tuttavia, li eccede anche nella figura stessa di quel corpo/significante che letteralmente sta in primo piano, davanti al segno che la croce comunque è:

«se il lavoro sul significante prescinde da semantiche prestabilite, si può accedere a qualsiasi operazione artistica, trasgredendo continuamente i canoni estetici. La trasgressione diventa l’atteggiamento prevalente: non c’è una bellezza da perseguire (con l’imitazione o con l’invenzione) sulla base di qualche suo significato precostituito, ma un’esperienza da attivare lavorando costantemente sulle possibilità inedite del significante» (Bonaccorso, ibid., p. 53).

Anche per la traduzione, dunque, risulta di fondamentale importanza quanto segue:

«Se l’arte ha a che fare con la sfera dell’azione e della sensibilità, in tali sfere deve esprimere una sporgenza, o meglio un’eccedenza. […] l’arte sembra implicare l’eccedenza nel senso di ex-cedere, di andare oltre, senza che questo comporti una qualche idea precostituita di trascendenza. La dinamica estetica consisterebbe nel non lasciarsi tradurre e circoscrivere in una modalità lineare che sia espressione dell’ovvietà quotidiana. L’opera d’arte, anche quando impatta il brutto, eccede tutto ciò che è semplicemente scontato. “Potremmo dire che l’arte provoca una percezione selvaggia che scalza le sedimentazioni culturali, infrange i divieti, fa ritorno alla propria nascita nei dintorni dell’originario” (Dufrenne, Estetica e filosofia, Marietti, Genova 1989, p. 14). In quanto estetica, sensibile, l’opera d’arte appare: ma il suo modo di apparire consiste nel sollevare dal solito apparire. […] Sotto questo profilo l’arte non è mai una semplice imitazione di ciò che appare quotidianamente ai nostri sensi, non è mai propriamente mimetica. Più precisamente, non è mai mimesis del reale, ma è per così dire mimesis di un’esperienza in cui si attraversano soglie inedite del reale» (Ibid., p. 55-56).

Queste ultime considerazioni, in particolare, legate alla mimesis, diventano un vero e proprio obiettivo della traduzione come rito e liturgia: l’atto del tradurre non si limita a riportare mimeticamente e in maniera letterale l’originale, ma cerca di parteciparvi attivamente, di entrare nelle sue dinamiche, nella sua azione e nella sua estetica come sentire implicato e non meramente da spettatore esterno. Ecco perché, anche nella traduzione, la mimesis riguarda non tanto il testo, quanto piuttosto la sua esperienza vissuta.

Lo stesso spirituale, dato che parliamo principalmente della traduzione di testi sacri,

«non dovrebbe essere collocato nel contesto di una realtà separata da quella visibile, ma come un modo di vedere che oltrepassa ciò che appare per volgere l’attenzione alla ricchezza incontenibile dell’apparire. Il punto fondamentale è costituito dal gioco tra visibile e invisibile, tangibile e intangibile, udibile e inudibile, non come relazione tra due mondi eterogenei, ma come unità nel sensibile tra l’oggetto visto (il visibile) e l’atto di vedere (che è l’invisibile), l’oggetto toccato (il tangibile) e l’atto di toccare (che è intangibile), l’oggetto udito (l’udibile) e l’atto di udire (che è inudibile). Sotto questo profilo si può parlare di un’eccedenza rispetto agli oggetti sensibili che è il sensibile stesso nella sua complessità» (Ibid., p. 56).

Un contesto che, naturalmente, implica non solo l’impossibilità dell’oggettivazione totale, ma anche quello della soggettivazione:

«La dimensione contestuale dell’arte ora assume la valenza di una perdita del “soggetto” inteso come realtà individuale forte e originaria, e implica l’emergere di una sorta di iper-soggetto. Questo iper-soggetto è l’interattività, che ovviamente non elimina il soggetto, ma lo configura come componente di un’interazione senza la quale scompare l’orizzonte dell’arte» (Ibid., p. 69).

Anche questa è una caratteristica del rito che può essere avvicinata a quella della pratica della traduzione. Insomma, il “primato del processo artistico” è sempre prevalente rispetto alla “semplice

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