
Eglise Saint-Eustache (2014)
di Andrea Ponso
IN GENERE RITUS – Cosa c’entra il rito con la letteratura?
Perché mai provare a scrivere con regolarità in un sito come questo, che si occupa essenzialmente di letteratura, proponendo temi che non lo riguardano, almeno in apparenza, come la riflessione teologica e rituale? Le risposte potrebbero essere molte e, per nostra fortuna, nessuna completamente giusta. Il rito ha sicuramente legami con il ritmo, con le forme e le metriche, con l’estetica intesa nel suo senso primo; possiede anche quella capacità che chiamiamo sinestetica, tipica della scrittura poetica. Ma, soprattutto, ed è questo che più mi interessa, ha relazioni strette con la parola, ma in una modalità che mi pare fondamentale: nel rito la parola non è mai “prima”, non dovrebbe mai essere esaltata a scapito degli altri linguaggi e codici.
Chi si occupa di scrittura, oggi, spesso dimentica questa umiltà del rito di contro alla prevalenza occidentale della parola e della sua linearizzazione alfabetica – anche se in poesia essa viene continuamente spezzata quando pensa di essere giunta alla “fine” e riportata ogni volta al suo umile inizio al verso successivo. Del resto, questa critica al logocentrismo è una considerazione che ritroviamo, ad esempio, anche ne Il teatro e il suo doppio di Artaud, e che tutta l’antropologia e la storia delle religioni non smette di sottolineare come un dato sicuro e, aggiungo io, felicemente liberante.
Ci si dimentica che “in principio” non c’era probabilmente la parola ma, come ci ricorda Goethe, “l’azione”, il gesto, il movimento, la danza; e che i primi nomi dati alle cose erano gesti, azioni, organizzazioni dello spazio: e non è un caso che in molte lingue antiche, come ad esempio quella ebraica, il verbo abbia grande importanza, ritrovandosi anche in quasi tutte le formazioni delle radici delle parole. Questo ci rende consapevoli che la nostra presunta padronanza del linguaggio verbale, dei concetti e delle idee, non è altro che una convenzione perché la nostra mente lavora embodied, incorporata alla carne, alla fisiologia e al respiro; che la percezione è già una rappresentazione e che i significati sono veramente meno importanti, nella loro effettiva incisività, rispetto a tutte le altre componenti della comunicazione. Che la schematica divisione tra significati e significanti non è altro che un espediente, come del resto la stessa suddivisione tra prosa e poesia: il continuum del ritmo (che, come abbiamo visto, è quasi un sinonimo del rito), direbbe Meschonnic, di contro al discontinuo delle nostre categorizzazioni, ha la forza di modificare le nostre bloccate percezioni e idee sui generi e sul nostro stesso modo di pensare. Del resto, nella Bibbia tale divisione in generi dal punto di vista formale, sembra non avere nessun fondamento.
Il rito, come l’autentica riflessione teologica, non può mai essere messo a tacere completamente attraverso una sua esaustiva descrizione, mediante una sua definizione esauriente: la sua multimedialità, l’incrocio sinestetico di vari campi della percezione, delle pratiche e dei saperi, la sua capacità di mostrare l’invisibile nel visibile, senza cancellare il mondo, il corpo, il tempo e lo spazio, ci dice qualcosa di fondamentale sulla vita, indipendentemente dai dogmi e dalle credenze di ognuno di noi. Inoltre, ci obbliga ad una partecipazione attiva, sempre, senza lasciarci comodamente seduti nel ruolo di spettatori passivi o, peggio, distaccati e puri. Anche la scienza, come sappiamo, ha da tempo compreso la rilevanza dell’osservatore in rapporto al suo oggetto, e il fatto che il pensiero e ogni sua attività è qualcosa di diffuso, indistinguibile dai sentimenti, dai gesti, dai contesti e dalla stessa carne vivente che siamo, che la res extensa non si contrappone alla res cogitans, e che quindi ogni nostra attività e coscienza è sempre embodied, embedded e extended – come ci dicono ormai da tempo i ricercatori. Ed è per lo meno strano occuparsi di letteratura, estetica e poesia senza avere almeno una vaga cognizione di tutto questo.
La famosa definizione di Florenskij relativa all’icona in rapporto alla pittura prospettica mi sembra perfetta per avvalorare le brevi considerazioni appena fatte. Quelle che Florenskji chiama “trasgressioni dell’unità prospettica” sono propriamente la forza dell’icona, e non la sua debolezza; esse costringono lo spettatore a non essere solo spettatore, ma a partecipare all’evento uscendo dalla limitatezza del suo punto di vista prospettico, o di un solo punto di vista esterno all’opera: in questo modo non si può che entrare nell’evento dell’icona, rompendo e trasgredendo la falsa realtà/naturalità creata dalla prospettiva pittorica. Tutto questo, tra l’altro, permette di non confondere mai graphé (disegno) da perigraphé (circoscrizione/circoscrivere): di non cadere mai né nella concezione dell’immagine come mero contenitore accessorio al trasporto di significati, né al pericolo idolatrico. In questo modo, inoltre, il sensibile è lo spazio dell’epifania del suo oltre, il visibile dell’invisibile. Stare davanti all’icona è letteralmente l’impossibilità di rimanere fermi nel proprio limitato punto di vista prospettico soggettivo, magari spacciato per “naturale” o universale. Significa anche non esaurire la multimedialità contenuta nell’esperienza testuale nella pura linearizzazione alfabetica.
La cosa straordinaria, anche nel senso di profondamente deprimente, è che sono giunto a questo tipo di conoscenza non attraverso gli studi letterari che ho concluso, ma grazie a quelli biblici, teologici e liturgici. Magari sarà solo un mio personale percorso, una privata traiettoria di ricerca che mi ha portato qui; ma forse si tratta di qualcosa di diverso, di più universale. Il pressapochismo di tanti “attori” del mondo letterario, l’improvvisazione scambiata per freschezza e immediatezza comunicativa, la quasi assoluta ignoranza di fronte agli strumenti e ai codici, le trite e ritrite idee relative all’ispirazione, alla fisiologia e alla mente, che molti letterati si ostinano a perpetrare quasi con orgoglio … tutto questo porta la letteratura e in particolar modo la poesia in una sorta di ghetto scambiato per regno aristocratico – aristocratico anche quando si arroga la pretesa del sociale, del “parlare a tutti con il linguaggio di tutti”. Questa camera stagna mi ha tolto il respiro e mi ha spinto fuori. Ringrazio Dio per tutto questo. E mi scuso con tutti se è solo una mia personale “prospettiva”: vorrei invece fosse almeno l’ombra di un’icona.

Andrea Ponso (2014)
Andrea Ponso è nato a Noventa Vicentina nel 1975. Dopo studi letterari sta concludendo quelli teologico-liturgici. Si occupa di letteratura, teologia e traduzione dall’ebraico biblico e collabora come editor per alcune case editrici. Ha pubblicato testi di critica e poesia in varie riviste, mentre il suo ultimo libro, I ferri del mestiere, è uscito per Lo Specchio Mondadori nel 2011. Una sua nuova versione del Cantico dei cantici uscirà per Il Saggiatore nel 2015.
Ne avevamo parlato brevemente tempo fa, carissimo Gianluca: quanto mi piacerebbe un libretto che raccogliesse questi testi meravigliosi di Ponso!
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