LA RELIGIONE DELLA LEGGE: “Tribunale della mente” di Corrado Benigni, Interlinea, Novara 2012

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Corrado Benigni

LA RELIGIONE DELLA LEGGE: Tribunale della mente di Corrado Benigni, Interlinea, Novara 2012.

tribunale_menteLa fede, poiché secondo la Legge tutti sono maledetti.

G. Calvino

Tribunale della mente è un libro religioso. Le concrezioni verbali che i testi della raccolta sono, mettono in scena l’anelito, la tensione “sacerdotale” verso un nuovo responso. Sacro, avvinto al seguito di una maledizione che la storia novecentesca ha scoperchiato e squadernato, capovolgendo ogni orientamento etico, rendendone inevitabile il ripensamento. Tribunale della mente si svolge proprio in questo disorientamento, costatando la rottura dell’alleanza dell’azione umana col mondo e, visto che di poesia e scrittura si tratta, meditando su un “verbo” che ha perso l’aderenza del contatto, la possibilità di nominare:

I

Nulla è segnato e un’alleanza si rompe
dove in principio era il verbo.
Rimetti al cielo i tuoi debiti
come l’invisibile li rimette a te.
– Questi testimoni a colmare bocche
di nessuna verità, un rito di toghe rinvii -.
Accetta questo disordine, luogo che non ha luogo,
da un punto decrepito qualcuno ascolterà.

II

Consegna tu il colpevole all’errore,
se il sonno qui ci divide le mani
e l’aria ha molte crepe,
libera questi nomi sulle pietre,
riporta esattamente i fatti
sillaba su sillaba, forma tu la ragione,
inconsapevole delle leggi che la negano.

(p. 9).

L’atmosfera del libro, occorre evidenziarlo, non è condensata in un rigore lucido e asettico, nessuna geometria progettuale ne conforma i lineamenti, bensì un respiro contenuto, il soffio del pensiero che è anelito a una nuova chiarezza: il desiderio di perforare la nebulosa del nichilismo, per cui è valido tutto e il contrario di tutto, in termini etici.
Lo stile di Benigni si fa interrogativo, l’intera prima sezione, Onere della prova, è costellata di punti di domanda, nella retorica della stessa che si apre alla reticenza di qualunque risposta, che è, appunto, il vuoto della nominazione. Atarassia d’infingimento messa in campo da chi ha digerito un codice, cioè la fissazione di una norma.

I

«Antigone, è vero quello che dicono? È vero?
Dove sono le prove?»
Non si trova la formula, non si trova,
per non avere commesso il fatto,
siamo comunque responsabili
in questo non luogo a procedere;
chi decide ha occhi bendati
e l’ombra di una mano chiede pietà.
«Chi torna indenne dall’orto degli ulivi?»

II

Cos’è questa verità che ci arriva
in piena fronte come un’accusa?
Osserva, nulla è difeso,
esci dal sonno di quest’acqua lentissima,
c’è una parola che schiude le crepe
e scava verso l’esterno; seguila
fino al volto bendato, dove
non è scritto ancora il verdetto
e clandestini chiedono il conto.
Non ha proroga questo termine,
vittime senza innocenza,
dentro un grande paradigma
tutto sarà riscattato.

(pp. 11-12).

Ma la reticenza stessa, l’impossibile risposta, coincidono in quel vuoto che si apre alla ri-creazione, attraverso cui sarà inevitabile rintracciare altre norme verso un nuovo «grande paradigma», appunto, in cui «tutto sarà riscattato».
L’insieme di regole, di codici, non ha altro modello se non lo scardinamento della norma. La giustizia deve riconoscersi fuori dalla giustizia, rischiando la sua fine, come in Dürrenmatt, la figura di Traps – personaggio sintomatico perché giudicato fuori dall’aula, sul palcoscenico della vita – sembra dimostrare: «Traps non era un delinquente, ma una vittima del nostro tempo, della nostra civiltà occidentale che, ahimè!, era venuta perdendo a poco a poco la fede […], il cristianesimo, i valori universali, ed era caduta nel caos: il singolo non aveva più una stella che lo guidasse, non si vedevano che disordine e abbrutimento, violenza e immoralità» (F. Dürrenmatt, La panne, Adelphi, Milano 2014, p. 78). Il singolo non ha una «stella» a guidarlo, la stella della cabala che, come in Nerval, non è che la poesia, cioè l’alfabeto che ne compone la struttura. Tutto il percorso di Benigni è ricerca di questo nuovo alfabeto, partendo dalla costrizione di chi deve testimoniare le ceneri del vecchio, cioè la tradizione (il titolo della precedente raccolta è indicativo in tal senso: Alfabeto di cenere). Così «Una lingua ammutolita si fa strada tra le parole» (come recita l’incipit del testo a p. 13), cercando nella sacralità (la maledizione) la sua origine.
Anche il rigore metrico è in funzione di una riformulazione (ri-forma) dei valori, cioè la ri-formazione del testo. In questa direzione, l’impatto linguistico, metrico e formale riflettono l’impronta territoriale d’appartenenza: la Lombardia non può essere slegata dalle ripercussioni riformistiche di radice calvinista e l’area bergamasca non è esclusa da un impianto culturale eticamente rigoroso e, in senso ancora etico, conservatore (in questo modo potremmo riconsiderare l’economia testuale di Tribunale della mente, la sua sobrietà spicciola, la ruvidità nell’utilizzo di pochi termini e semplici, nonché la linearità della sintassi, in direzione di un appianamento delle asperità, a volte affioranti nel dettato).
Tornerei, adesso, alla tensione “sacrale” del libro, all’evidenza, cioè, di un’ambivalenza che produce le Sententiae della seconda sezione. Il modo “sensibile” del dire che, dal singolo – dall’opinione individuale – si trasforma in “sentire” comune, in una parola, norma. Il percorso in direzione del senso, attraversando il pensiero, può comunicarsi solo “responsabilizzando” la parola:

Il giudice legge la sentenza: «Pena sospesa». Eppure nessuna udienza è tolta, nessun verbale è redatto. Il cancelliere ha una mano invisibile e trascrive immobile le nostre parole. Che cos’è la verità, giudice? Questa corteccia che brucia ancora. Il dolore è verità, tutto il resto è dubbio. La verità riposa nella calce, animale rapace. «Prima bugie, poi pressione, poi ancora bugie, ancora pressione, quindi il crollo, e alla fine la verità», sentenzia il pubblico ministero. È così che si arriva alla verità? La parola ora ci consegna all’evidenza.

(p. 21).

Il mondo dell’opinione, della sentenza, pur contribuendo al legame collettivo, va oltrepassato. Si manifesta, anche in questa sezione, la tensione del linguaggio a una “religiosità”, a un rinforzo del legame che superi la norma costituita, rifacendosi al perenne inesprimibile, cioè la saggezza reticente che non giudica ma si limita a testimoniare un fatto. Come ebbe modo di affermare Simone Weil: «Ogni spirito prigioniero del linguaggio è capace soltanto di opinioni. Ogni spirito divenuto capace di cogliere pensieri inesprimibili a causa della moltitudine di rapporti che vi si combinano, seppure più rigorosi e luminosi rispetto a quanto il linguaggio più preciso esprime, ogni spirito pervenuto a questo punto abita già nella verità» (S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012, p. 42), la verità cui anche Tribunale della mente aspira, così come, attraversando un altro passo de La persona e il sacro, ci è possibile intuire la necessità del rigore linguistico (quindi morale) che si fa tensione all’alterità: «Il linguaggio enuncia relazioni. Tuttavia ne enuncia poche, giacché si svolge nel tempo. Se è confuso, vago, poco rigoroso, privo di ordine, e se lo spirito che lo emette o lo ascolta possiede una debole capacità di tenere presente un pensiero, è vuoto o pressoché svuotato di ogni reale contenuto di relazioni. Se è perfettamente chiaro, preciso, rigoroso, ordinato; se si rivolge a uno spirito capace, una volta concepito un pensiero, di tenerlo presente mentre ne concepisce un altro, di tenere poi entrambi presenti mentre ne concepisce un terzo e così via; in tal caso il linguaggio può essere relativamente ricco di relazioni» (S. Weil, cit., p. 40).
Il linguaggio di Benigni è in cerca di relazioni, di ristabilire il contatto in un legame assiduo in cui la parola, aprendosi al suo vuoto (crepa e piega, concetti così cari al pensiero secondo novecentesco), riattiva la verità del mondo in tutta la sua “nientità”:

Nessuna colpa ricadrà sui figli, perché le parole come il tempo sono contate e la natura non sa attendere. Acqua che beve se stessa. Come placare questa sete? Non c’è altra misura, non c’è altro peso, più del corpo. Universo e niente. Dentro l’evidenza della materia non è persa ancora la possibilità di una crepa, geometria di una promessa. Ogni nome nasce da una legge che lentamente dice chi siamo, mentre una luce si estingue per tornare nel giudizio di ciò che è già stato.

(p. 31).

Se è corretta l’accennata conversione del libro in direzione relazionale, è spiegabile anche l’apparizione di Figure, nella terza sezione, ovvero degli attori della scena processuale. Si mostra, ancora in termini di neo-formazione, la finzione maneggiabile dal «tribunale all’interno dell’anima» (ancora Weil; cfr. la prossimità etimologica esistente tra anima e mente, la quale converge sul concetto di spirito. Il soffio del legame tanto potente perché imponderabile come, d’altronde, la sua possibile scomparsa).

Il giudice

Non c’è colpevolezza senza prova, qui
dove assoluzione e delitto hanno lo stesso movente.
Reato o peccato, siamo tutti parte. Comunque.
Tutto è già stato
e ci chiama,
mentre un giudice impone il suo nome.
Qualcuno completerà il nostro gesto.
Tempo senza voce che scrivi la sentenza,
nulla corregge nulla.
Un vizio di forma forse ci salverà.

(p. 38).

Abbiamo accennato, riferendoci alla prima sezione del libro, Onere della prova, all’esigenza interrogante di Benigni. Se la domanda è alle origini del percorso che ogni soggetto avvia, esponendosi al mondo, l’ultima sezione, Giustizia, ha toni iussivi, nel senso implicito della giunzione, del vincolo che il singolo richiede per legarsi all’alterità, in una relazione che tenti di colmare la crepa, evento che si verifica solo abbandonandosi a essa. Per questo, forse, pur non potendo «riparare/ una voce spezzata, ripristinare/ il bianco della domanda» (Scrivi la sentenza – giudice –, p. 65, vv. 6-8), occorre insistere su «Quel che rimane […] diviso», senza facili consolazioni, perché l’unica possibilità “comunitaria” risiede, come monito reciso, proprio in quel «nulla» che non «ha più riparo» (tutte le citazioni testuali sono in Quel che rimane è diviso, nulla ha più riparo, p. 66, v. 1).
A proposito della poesia di Franco Fortini, Mengaldo ebbe a dire: «Il senso tragico della storia – in cui l’ipotesi rivoluzionaria non nasce dall’ottimismo del progressista ma dalla contemplazione inorridita della negatività» (P. V. Mengaldo, introduzione a F. Fortini, Poesie scelte (1938-1973), Mondadori, Milano 1974). Chi tenti di avvicinarsi al mondo attraverso le parole, oggi, non può non confrontarsi con la negatività, cioè con il rischio che il mondo non sia accessibile attraverso la nominazione. Parte costituente la verità di un mondo giunto a maturazione solo dopo aver attraversato l’immane esperienza del dolore novecentesca, la negatività non è punto di arresto, ma, come lo stesso Fortini ci ricorda, «una fine che sia anche un principio» (F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990, cit. in B. Frabotta, Composita solvantur. Le ultime verità di un poeta, in «L’illuminista», n. 12, a. IV, settembre – dicembre 2004, pp. 75 – 108). Per giungere alla pienezza dell’esistere, è necessario affrontare il dolore, la concrezione momentanea degli elementi fino al rilascio della gioia:

La gioia avvenire

Potrebbe essere un fiume grandissimo
Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore
Una rabbia strappata uno stelo sbranato
Un urlo altissimo.

Ma anche una minuscola erba per i ritorni
Il crollo d’una pigna nella fiamma
Una mano che sfiora al passaggio
O l’indecisione fissando senza vedere.

Qualcosa comunque che non possiamo perdere
Anche se ogni altra cosa è perduta
E che perpetuamente celebreremo
Perché ogni cosa nasce da quella soltanto.

Ma prima di giungervi
Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte.
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione
La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità.

(F. Fortini, in Foglio di via e altri versi, Einaudi, Torino 1946).

Anche dalla scomparsa, dalla negatività, la verità, dunque, è questo il messaggio che le nuove generazioni accolgono e che Tribunale della mente rilancia, tendendo a una parola che si elevi alla seconda potenza, che superi in modo maturo l’illusione d’innocenza del nominare, portando sempre su di sé il fardello della falsificazione, sempre pressante, del dato (cfr. ancora il titolo della terza sezione, Figure appunto):

Nessuna verità è interamente verità
se ogni colpa custodisce il segreto di un giudizio
e non c’è redenzione fuori dall’attesa,
rinuncia alla regola della certezza
una parete bianca riconoscerà i nostri volti,

intanto

voce contro voce, la materia della parola
è la sola forza che abbiamo,
nel sonno che sorveglia,
il bene di non essere innocenti.

(p. 79).

Proprio in quel «bene di non essere innocenti», abbiamo visto, abita tutta la potenzialità dell’esistere, con i suoi timori e tremori, poiché continuando a sostare nella vecchia «Legge, esclusi da ogni benedizione, […] avvolti nella maledizione» (G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, Mondadori, Milano 2009, p. 958), affermando passivamente l’alleanza col mondo, non giungeremo mai al legame ulteriore offertoci dalla capacità del mondo stesso di ritrarsi davanti alle nostre parole, alla crepa, allo «scisma» che può, in ogni momento, frantumare la fede, la comunità.

Leggi nella cenere,
nessun filo qui garantisce il ritorno
e dal freddo innocenti chiamano a salvarli –

Lingue affilate assolvono lo scempio, scavano nel buio
mentre il buio ingrossa dentro le parole –

Non giurare sul silenzio, non giurare, nulla ti è estraneo,

quello che cede ti appartiene, è tuo
nelle vene, giudicati da uno scisma.

(p. 80).

Tribunale della mente si richiude sulla separazione, dopo essersi interrogato sulla plausibilità del silenzio. Eppure le parole («la materia della parola») mantengono fede al patto della relazione e se, «voce contro voce», resistono alla tentazione del silenzio, tentano a loro volta di innalzarsi, se non per cantare il mondo, almeno per ri-nominarlo: «Maledetto chi non mantiene in vigore le parole di questa legge, per metterla in pratica!» (Deuteronomio, XXVII, 26).

Gianluca D’Andrea
(Luglio 2014)

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