Scartafaccio XVIII – NOTE SU [ECOSISTEMI] (e non solo)

NOTE SU [ECOSISTEMI] (e non solo)

 

 

In occasione dell’uscita del libro, sento di dover riflettere sugli stimoli che hanno prodotto questo lavoro. Provando a far luce su alcune delle scelte compiute per definirne la strutturazione – quelle che ho saputo analizzare in anni d’elaborazione, mi auguro dalla giusta distanza – mi propongo di offrire un’indicazione, anche minima, sulla necessità del linguaggio poetico in tempi che sembrano volerne annunciare l’inutilità o la definitiva estinzione.

Partirei dall’inizio, da quella dedica ad Andrea Zanzotto che, a mio avviso, può rappresentare l’avvio di una riflessione sulla scissione che caratterizza da secoli la nostra letteratura: dicotomia sintetizzabile nei termini di un continuo spostamento dell’asse ricettivo del messaggio poetico, tra una tendenza che potremmo definire conservatrice o “classicista” e un’altra “sperimentale” o progressista. Il Novecento, continuando sulla scia del contrasto, ha esasperato quest’ambivalenza innescando la lotta tra realismo e avanguardismo, coinvolgendo, nelle relative e personali poetiche e scelte stilistiche, tutti gli attori del secolo appena trascorso.

La poetica di Zanzotto diventa rilevante se s’interpreta come superamento della scissione per ristabilire un contatto con l’aspetto testimoniale ed etico del linguaggio, lontano da qualunque ideologizzazione che sia di conservazione o progressista. Sì, perché, in questo autore, si realizza la responsabilizzazione del soggetto poetico in direzione dell’altro assoluto, di portata ecologica, in un movimento allegorizzante (d’ispirazione dantesca) che compartecipa la salvezza del perduto intervenendo nella sua stessa perdizione.

Input predominante, che agisce per tutto il tragitto di [Ecosistemi], la presenza di Zanzotto nel ruolo di nume tutelare vuole significare la dimensione ecologica della lingua del libro, nei termini esistenziali della relazione io-mondo.

Altra indicazione, nel senso appena esposto, è presente se analizziamo il titolo: scomponendolo semplicemente nei suoi elementi etimologici appaiono i riferimenti alla dimora e allo stare insieme (allo stare insieme nella stessa dimora, l’unica possibile); emerge, cioè, il tentativo di ridefinire un nuovo modo di essere, banalmente l’etica dello stare e il posto dello stesso, senza scelte di campo che non siano se non personali, individuali, non ideologizzate. Le parentesi quadre, graficamente, indirizzano questa chiusura personale, difensiva ma che si apre continuamente all’inevitabilità dell’esistente, così come ogni ecosistema, pur considerato nella sua specificità, è evidentemente interconnesso, irrevocabilmente.

Da queste rapide premesse si può intravedere la motivazione che ha condotto, dopo un’originaria propulsione compositiva, non ragionata, alle scelte specifiche sul piano compositivo e linguistico.

Occorre, però, partire da lontano, dalla temperie “vociana”, da quell’atteggiamento di rifiuto moraleggiante nei confronti del reale, antipositivista, e dalla frammentazione dello stesso reale. In [Ecosistemi], ogni testo è franto, apparentemente slegato dal contesto, parcellizzato; l’impressione, che la disposizione dei componimenti può suscitare, non vive all’insegna della coerenza e della compattezza, piuttosto dello slancio e dell’irruzione che, è risaputo, non coagulano ma sfilacciano o sfondano. Nella stessa direzione si muove il linguaggio, ecco un testo, per me, esemplificativo:

 

SUL LIBRO (COME ECOSISTEMA)

 

L’Autore:

 

“Non ha un centro tutto è il centro.

Il mio margine illumina il paese

che riposa sotto libere coltri”.

 

Ora il diritto è un peso.

 

Mi violento vecchie carte e luce

che vibri dallo schermo ti violento,

dissacro la tua superficie di pietra.

Per riaverti e amare quelle acque

e gli insetti per sempre perduti.

 

Parole incartate, nessun suono, un giornale,

graffiare la terra per portarla al suo tessuto.

Originare, fuori da te paese,

dentro te è la terra, un urlo,

la carezza dei residui sulle unghie.

 

Scavo per portare alla luce

nascite fuori luogo,

un canestro di foglie scadute,

raccolte per essere smostrate

come un taglio, uno sbudellamento.

 

 

In prima istanza l’autore interviene di persona, sfondando il muro che separa la posa dalla presenza, nel rischio che si corre sul filo del narcisismo, proponendo il segnale possibile di una vera partecipazione: questo attore è allegoria del creatore di parole che presenzia il suo viaggio, lo manifesta, lo compie “realmente” dicendo che il libro non ha un centro. Eppure ogni margine, anche il suo, può illuminare un senso: paese e coltri, termini rispettivamente, banalmente geografico il primo, specificamente geologico il secondo, sono i corrispettivi di un velamento che può essere sovvertito solo dall’effettiva presenza del soggetto – lirico o meno, non sembra rappresentare un effettivo problema. Il chiasmo ai vv. 6-8, slegato apparentemente da quanto precede, introduce i referenti di quella violenza degli estremi: i modi di scrittura, passati e presenti. Perché, però, violentare la scrittura? Per riavere il contatto e la possibilità di relazione scomparsa nella sfiducia novecentesca (i Vociani, a loro modo, a me peraltro familiare, si capisce, rappresenterebbero il primo approccio alla crisi etica che contraddistingue tutto il Novecento, al rischio d’afasia di intere generazioni che si protrae e si estende a causa del secondo conflitto mondiale). I vv. 9-10 immaginano (sognano?) di ritrovare la forza e la gioia del canto, la finalità della trasmissione, di un racconto comune, di una fabula.

L’immagine dello scavo a mani nude, che emerge nelle ultime due strofe, è metafora del contatto rinnovato con la dimora (la terra – l’origine) e con la possibilità di rinnovamento stesso insita nell’origine.

La sensazione di slancio e d’irruzione, cui si faceva riferimento, non è scollegata dalla circolarità del ritorno: molti testi di [Ecosistemi] presentano questa struttura ciclica o richiami ad altri componimenti distanti, verrebbe da dire topograficamente, nel campo testuale. Eco, collegamenti nella diversità specifica di ogni ecosistema (moltissimi titoli del libro, infatti, contengono questo nome guida, senhal, più che sineddoche, che nasconde la Terra nell’insieme delle sue strutture).

Anche le sezioni del libro ruotano attorno al nucleo della dimora-mondo presente nel titolo. In-voluto, che apre il lavoro, e In-formare, che lo chiude, evidenziano un rinforzo sulla tensione circolare, sul piano dell’architettura e, con le loro ambiguità semantiche, rinsaldano lo sforzo che il singolo può compiere per dare forma e senso a un messaggio che sia trasmissibile.

A proposito della disposizione etica dell’opera, riporto una citazione che, nelle mie prime intenzioni, doveva inaugurare [Ecosistemi], eliminata perché troppo lunga e rischiosamente induttiva, la forma dell’autocommento, invece, ne permette il ripristino in funzione della comprensione:

«… nell’etica non c’è posto per il pentimento, per questo l’unica esperienza etica (che, come tale, non può essere compito né decisione soggettiva) è di essere la (propria) potenza, di esistere la (propria) possibilità, di esporre, cioè, in ogni forma la propria amorfia e in ogni atto la propria inattualità.

L’unico male consiste invece nel decidere di restare in debito di esistere, di appropriarsi della potenza di non essere come di una sostanza o di un fondamento al di fuori dell’esistenza; oppure (ed è il destino della morale) di guardare alla potenza stessa, che è il modo più proprio di esistenza dell’uomo, come a una colpa che occorre in ogni caso reprimere».

G. Agamben, La comunità che viene

Il tema ecologico, intrecciato allo slancio etico, implica la speranza che una “natura” ancora esista – come in una nota dell’ultimo Zanzotto emerge candidamente ironica: «Pan è dato per morto da tempi remotissimi (cfr. Plutarco). Ma…» (A. Zanzotto, Verso i Palù, in Sovrimpressioni, Milano, 2001, p. 12) – senza tralasciare il mutamento che avviene e che, per il fatto di avvenire, impone una scelta. Così è spiegabile una delle citazioni del libro, da Rimbaud, in un testo che parla della famiglia, nucleo di relazione e fondamento dell’umano:

 

 

ECOSISTEMA [A] LA FAMIGLIA

 

 

«Ta tête se détourne: le nouvel amour !

Ta tête se retourne, – le nouvel amour !»

A. Rimbaud

 

Cattolicissimi [ancora?]

àncora i tuoi testicoli,

stai, stai!

mi sbaciucchio un maschietto

sa di essere donna/ anche!

 

Stolti al potere e storti e distorti,

chi li distoglie da se stessi?

Pervèrtiti! dicono di una classica famiglia

hanno rancori, si spremono
alla prima tentazione.

 

In questa merda pura [ancora?]

ritorna ritornello, storna

questi potenti vezzosi,

al circolo dei loro testicoli;

gameti sprizzati,

chi mi ospita è vicino
me lo fanno lontano –

sotto gli occhi di uno schermo

che diventa schermo d’occhi.

 

È giù! Restaurano il giudizio.

 

 

Il gioco all’iterazione, ossessivo, in queste due frasi che versi non sono, annuncia e scandisce, per amplificatio, la possibilità di una libertà illimitata per l’amore, oltre qualunque distinzione, tra cui il sesso. Il richiamo ossessivo è ribadito nel componimento stesso ed esprime una denuncia all’informazione e ai suoi macroscopici strumenti, implicato in un circuito vizioso d’ignoranza e utilità del momento: «sotto gli occhi di uno schermo/ che diventa schermo d’occhi».

[Ecosistemi] è un libro trascendentale, virtuale, espressionistico, fondato su dati concreti, questo perché – secondo il magistero di Stevens e Sbarbaro – “ciò che è” non si riduca a dogma semplicistico di un naturalismo che presume oggettività, in risposta alla saturazione e poi alla scomparsa dell’io. Il Novecento, infatti, dimidiando la posizione dell’autore, fingendo la sua marginalità, ha condotto a quel “pensiero debole” che definiamo ancora col termine di postmoderno e che, in Italia, ha origine nella consapevolizzazione del senso di colpa per la perdita di ruolo del poeta nella società (ricordiamo che l’ultimo vate, D’Annunzio, fu partecipe delle grandi distruzioni) – consapevolezza che, nella nostra nazione di “poeti e navigatori”, arrivò tardi rispetto agli altri paesi europei e che condusse al distacco e alla stagnazione la nostra letteratura.

Adesso è però giunto il momento affinché la nostra poesia riscopra la sua sacralità proprio nelle potenzialità del suo gesto sfuggente, partendo dalla messa al bando novecentesca (secondo l’accezione etimologica di bando, collegata alla banalizzazione di ogni esperienza, lucidamente analizzata da J. L. Nancy in un saggio di quasi quindici anni fa, La ville au loin, per cui proprio l’ecosistema città funge da nuovo passaggio/paesaggio ricco di interconnessioni, senza escludere quelle via cavo, immerse nell’oscillazione perpetua tra contatto e distanza, tra soglie), dall’effettivo rischio d’estinzione del poeta e della poesia. In tempi in cui la nostra stessa dimora è in pericolo esiziale, allora, la voce di chi compone versi ha il dovere di urlare dissenso, trovando il coraggio proprio nella sua manifesta, e per questo rischiosissima, inutilità. In un movimento metonimico, la lingua della poesia deve diventare l’esistenza davanti alla voragine della sua estinzione (caduta) o del suo rinnovamento (ascesa). Per questo la lingua di [Ecosistemi] si dibatte, non vuole soccombere e tende a una forma: l’ultima sezione, In-formare, ha la duplice funzione di informare creando una forma, manifesta il presagio di un’occorrenza comune, la necessità di senso, attenuando, in quella stessa forma, il disagio degli altri ecosistemi.

Negli anni di composizione del libro, riflettendo sull’opera di Zanzotto, non ho potuto fare a meno di risalire ad alcune idee di Leopardi, in particolare alla nostalgia solitaria, ma anche alla sua sfiducia anti-utopica. Il dialetto in Zanzotto e le lingue morte e il classicismo in Leopardi non sono solo sintomi reattivi, pur esibendo irrigidimento; questa chiusura etica al nuovo apre alla pietas per il tutto universale, al tentativo (religioso perché riguarda il credere nonostante…) di coltivare in seno alle tradizioni linguistiche l’infima matrice di un rinnovamento comunitario. Forse per questo, l’ultimo testo di [Ecosistemi], Non più padre, tra i vari richiami, possiede due riferimenti impliciti a La vita solitaria, (oltre a quello, evidente, anzi evidenziato, all’ultimo canto del Purgatorio) che agiscono da legame a una tradizione e al conseguente, dovuto, distacco dalla stessa. Nel particolare mi riferisco ai vv. 5-6 («Non mi assido toccata la neutrale/ naturale, la forma assiderata») e al v. 9 («Ma alterato è il dovere dentro l’erbe») del mio componimento e al verso 23 («Talor m’assido in solitaria parte») e al penultimo («O seder sovra l’erbe») de La vita solitaria; a mio avviso, in questi richiami, è rappresentato il movimento, lo spostamento temporale che separa sempre due contesti e la loro vicinanza assoluta, sul piano generazionale è la maturazione di un’appartenenza e della futura proiezione, non penso tanto alle spalle dei giganti quanto all’accoglienza di un testimone che si trasforma in mani nuove, si rinnova (la natura è ora anche il paesaggio urbano descritto da Nancy con tutti i collegamenti cui si faceva riferimento).

Cosa resta dopo la denuncia e lo scavo di [Ecosistemi]? Probabilmente occorrerà colmare il fosso, coltivare la nuova filiazione, prendersi cura dei cloni (i germogli) e pazientemente educare la loro crescita (come sempre è stato, un ritorno senza possibilità di ritorno), trasformazione e visione perché cresca ancora il movimento, infinito.

Gianluca D’Andrea

(Dicembre 2013)

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...