LENTI AL BRULICHIO: “Fosse chiti” di Nino De Vita, Mesogea, Messina 2007

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Nino De Vita

LENTI AL BRULICHIO: Fosse chiti di Nino De Vita, Mesogea, Messina 2007

NZOOgni poesia, che possa definirsi tale, deve possedere la facoltà di accendere una riflessione che, dalle scelte linguistiche dell’autore, conduca il lettore alla significazione di un mondo ed alla scoperta o salvaguardia di una tradizione.
Alla luce di questi fatti colgo la possibilità, offertami dalla casa editrice messinese Mesogea, di concentrarmi sulla lettura della ri-edizione di Fosse chiti, opera prima del poeta marsalese Nino De Vita.
Non mi dilungo sulle vicende biografiche di un autore ormai noto, anche se non ancora degnamente considerato, nel panorama letterario italiano, ma preferisco indirizzarmi sulla lettura di alcuni testi che, seppur composti in lingua nazionale (De Vita è conosciuto soprattutto per l’ammirevole produzione dialettale), rappresentano, oltre che un avvio, una tappa fondamentale nell’originale percorso del poeta siciliano.
Fosse chiti titolo che allude ad una località ben precisa, nel trapanese, e significa “fosse cretose”, “fosse di creta, nel quale è già ammesso e descritto un luogo concreto.
Indizio di partenza e testimone di uno stile che tenta una ricognizione: quella di un mondo vissuto nelle sue contraddizioni oltre che in un chiaro isolamento. Questo non significa che De Vita prediliga i contrasti, le metafore brucianti, le illuminazioni spasmodiche.
De Vita è poeta dell’umile vita osservata in maniera quasi ossessiva nei minimi dettagli e come al microscopio.
Le poesie della prima sezione sono tutte giocate nella concentrazione visiva e si sviluppano come un reportage, forse a volte monotono, della vita naturale:

Guarda il cielo,
le nubi e qualche uccello,
le stelle

—————come arrossa
il sole quando scende
a mare.

(Ha piovuto, p. 37-38, vv 24-29)

Certo questa densità dello sguardo è il sintomo di una visceralità che lega l’autore al suo territorio, ma non è fine a se stessa. In altri luoghi della raccolta campeggia uno scatto, l’intermittenza che disturba la contemplazione e fa esplodere un dubbio: l’osservazione naturale in tutte le sue forme abbraccia anche gli aspetti brutali, letali senza contraddizioni moraliste, bensì cogliendo i barlumi di vitalità negli stessi contrasti, come se ogni processo si nutrisse delle stesse dicotomie:

Ha la forma di un vaso
il mandorlo fiorito
——————–biancorosa
aggrappato alla terra
calcarea

—————-un po’ abbattuto
per il vento marino
sul lato delle case…

(p. 69)

La fioritura della pianta che si lega alla vita abbarbicandosi ad un terreno impervio, duro, pietroso, immagine che conduce ad una riflessione sulla precarietà sostanziale dell’esistere e alla volontà effettiva di una resistenza che va ben oltre le difficoltà (forse leopardianamente?).
L’esposizione ai fenomeni, la concretizzazione degli stessi sotto lo sguardo assorto del poeta, rende necessaria per ciò stesso la testimonianza:

Qui non c’è più nessuno
che lasci orme
———————–schiacci
quest’erbaccia che cresce nel sentiero.

Il casolare è chiuso

e gli alberi di ulivo
hanno frutti che cadono maturi.

(Il fumo del camino, ciancianelle,
le lucciole la sera
nelle mani…)

(p. 78)

Alla desolazione del paesaggio fa da pendant la devastazione di un mondo con le sue tradizioni, i valori di legame e attaccamento ad una terra non semplicemente rappresentata dalle contrade in cui l’autore vive ma, come per sineddoche, dal mondo tutto con le sue confusioni massmediatiche e informative, conglobanti, e le sue devastazioni etiche, per cui tutto può sembrare permesso, digeribile.
Segnali stilistici in tale senso sono i versi spezzati, quasi singultanti, utilizzati in tutta la raccolta, non propriamente versi liberi, piuttosto frantumazioni di endecasillabi e settenari, classica tradizione che sopravvive in questi frammenti. Intensità maggiore rivestono allora le poche parole usate per comporre un solo verso, isole nel vuoto di un’imminente sparizione:

Batte la porta
———————-sbatte
la persiana sul muro
nel cortile.

Ponente ha un fischio lungo
sul tetto.

————-I fili d’erba

le cime alte

—————–i fiori

s’inchinano alla terra.

(p. 91)

Lo spazio vuoto non è forza centrifuga, non lascia spiragli alla metafora immaginativa.
L’essenziale è concentrato nei termini, illuminati da quella stessa evidenza microscopica di cui si parlava all’inizio.
La poesia di Fosse chiti allora appare come tentativo di un recupero o salvaguardia di un mondo attraverso un processo di nominazione. Una ri-apertura, il monito di un osservatore che, dall’apparente distanza di una contrada quasi ignota, ci insegna l’umiltà di ogni origine.

Gianluca D’Andrea
(Gennaio 2008)

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