COME FLUIRE DELLA VITA: “Plastico” di Jacopo Ricciardi, Il Melangolo, Genova 2006

jacopo-ricciardi

Jacopo Ricciardi

di Gianluca D’Andrea

Plastico di Jacopo Ricciardi, Il Melangolo, Genova 2006

plasticoDopo la prova di Poesie della non morte, poco riuscita, a mio avviso, nel tentativo di abbracciare la quantità materica del mondo in una forma espansa, il libro-poema ultimo di Ricciardi si segnala per una netta evoluzione.
Basti dare una prima scorsa agli incipit dei primi componimenti di Plastico per constatare la maggiore stabilità ritmica ed una più riuscita presa stilistica dovuta all’accorciamento del verso (che si stabilizza in misure più canoniche), accorgimento che ripulisce ed essenzializza la parola, liberandola dal surplus di aggettivazione e ridondanza (ho parlato di obesità stilistica in altra sede) che caratterizzava il lavoro di poco precedente.
Si analizzeranno alcuni scorci di testi in modo da approfondire i precedenti accenni.
Occorre partire dalle propaggini finali dell’opera per cogliere pienamente l’importanza del pensiero sotteso all’operazione poetica di Plastico: “la frantumazione / del tutto in infiniti non / decifrabili mai trattenuti…”, si coglie l’urgenza di ospitalità (citando un saggio di Derrida) che investe incessantemente la volontà di scrittura, la parola non può non potenziarsi a partire da essa e il verso pare non poter reggere la dirompenza effettiva di un universo in continuo fermento, in cui le distinzioni tra il tutto e il frammento cadono come gli enjambement sproporzionati del testo paiono sottolineare. Ripeto che la diminuzione della misura metrica risulta punto di forza fondamentale e azzeccata scelta formale per un’operazione che tende all’accoglimento del tutto ed alla conseguente espansione della parola: “un oceano come / qualsiasi cosa, così denso, quanto / comincia, e sta cominciando”, altro esempio che evidenzia quanto detto sopra. Nessun volo metaforico, più semplicemente il cammino alto del pensiero che intende legarsi al tutto (“un oceano come / qualsiasi cosa”) e che percorre la densità spessa della materia.
Il progetto pare perdere aderenza rispetto alle intenzioni quando la poesia si sofferma sul proprio farsi, resta scioccata davanti allo specchio della scrittura, ma se il “testo […] spinge dentro / la vita” e “la scrittura è densa / nel corpo delle cose” allora è chiaro che il poeta include e “salva” il proprio fare nel circuito della realtà: nessuna metafisica.
Un richiamo all’Eluard di Poesia ininterrotta appare d’obbligo per un testo articolato in sovrapposizioni verbali e sospinto da una volontà d’accoglimento (inclusivo), ma è il clima surreale del precedente ad essere assolutamente ininfluente nell’operazione di Ricciardi; siamo in un clima cogitativo che si attiva nel reale e in qualche modo auspica una riformulazione dello stesso in funzione di un mutato atteggiamento del soggetto, ormai consapevole della sua “caduta” e cosa tra le altre cose ma non per questo immune dalle proprie responsabilità, né vuoto contenitore organico, bensì, per le sue peculiarità, interamente assorbito nello spessore del tutto materico.
La scrittura abbraccia gli elementi nel desiderio di essere dentro di essi e la scrittura è l’uomo, tutti gli uomini per i quali il poeta arditamente scrive, comunicando un nuovo pensiero nel fremito della sua stessa scrittura. Ma la scrittura non si limita allo scambio osmotico con le cose. Cosa essa stessa ha il potere di inventare, di proiettare una nuova luce (“… come la creazione di / un ricordo, di come quel / passaggio che io vidi una / volta credo sicuramente solo ora / conquisti il suo paese, che è / paese della tensione che lo / percorre con questa scrittura, che / nasce ove nasce questo paese”).
La nuova (e vecchia) luce che la scrittura proietta sul mondo dall’interno di esso è la stessa volontà d’accoglienza del soggetto rinnovato: la tematica d’amore occupa la parte centrale del poemetto, la zona in cui la metamorfosi col tutto è portata a compimento e il mondo è pronto ad essere ri-detto: “l’universo è amore, amore / nero come perla, hai / mai guardato da vicino una / perla, è il frutto stratificato / del mondo, la spirale bianca / del mondo, che sta tra/ due dita, la fissi, è / come una pupilla cieca, è / quello l’effetto del suo / colore, ma essa vive dentro / di sé fino a che / punto, idealmente essa si srotola, / nel fianco sottile dell’universo, / in questa parte, che non / finisce, dentro il corpo di / questo pianeta, dove il vestito / è corpo, questa volta, come / una delicata cascata di frammenti, / questo è un frammento, che / a suo modo cattura l’ / universo…”.
Alcuni passaggi ricordano Il silenzio dell’universo di Viviani, ma la volontà meditativa e contemplativa presente in quest’ultimo è complicata in Plastico dalla volontà ricreativa del soggetto che è scrittura. Laddove persisteva l’accettazione adesso è l’abbraccio, fusione che presuppone un mutamento, così del soggetto come della realtà che non è semplicemente contemplata ma piuttosto “attivata”: “componi un poema del cuore, / muovi gli astri una prima / volta”.
L’ardire del nuovo soggetto, estinto il concetto di tracotanza nell’ospitalità del reale, si spinge a costituirsi come mondo in sé nell’essere del mondo: “allontanarsi, perdersi, sovranamente in sé, / diffondere il pensiero, mentre penso, / fino a che avrò l’ / intensità paragonabile a quella di / un mondo, spiegata”.
La mescolanza degli elementi costituisce una nuova sacralità del mondo che perde i suoi connotati netti e vive la sua stessa mescidanza. Il tono s’innalza ma l’andatura apocalittica è smorzata dal pensiero che ama la modificazione del tutto: niente resta ma nulla scompare “siamo nel fuoco / del mare, nel fuoco gelato / del mare, nel fuoco fermo / del mare/ fisso dove niente / esiste, ancora, ma tutto esisterà, / per sua forza, il mare / sarà la terra di tutte / le cose / […] il cielo perderà se / stesso, piano piano nel mare, / il mare perderà questa scintillante / solidità”. Le ripetizioni, le anafore creano l’atmosfera di sacralità a cui si accennava.
La conclusione non scioglie la continuità, la circolarità mutevole dell’esistenza è conservata nel ritorno dell’immagine della barca, di un viaggio placido che si ripercorre per continuamente rimanere “là dove il cielo rimane”.

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