VOCI DALL’INIZIO (2) – GIUSEPPE NIBALI

Giuseppe Nibali

Il secondo capitolo della mia rubrica Voci dall’inizio per Nuova Ciminiera

da Scurau, in Ultima Vox:

*

Corpi cavi enormi, gonne e questi figli come squarcio.
Crolla la religione, Meroè, di chi conosce il tormento
di giocare fino al buco dell’abisso; lo sgravo che ricordi
gli spruzzi di merda sul lenzuolo e dentro l’amigdala
appena lavati macelli, vene scure, osiamo dire:

Cattedrale vuota l’ulivo schiacciato contro il greto
i rami le foglie lo schianto lo scantu della scorza
materna sul petto. Matriarcato dei giochi l’ikea
i segni, questi, del nuovo potere; parola della madre.

Sì, siamo la madre. La morte la morte. La morte.

*

Si muove da sopra il grosso nodo dei cavi si impietra nei grovigli.
Sporge come massa tutta fotolitica, il velo o in alto il pendio,
lo stesso bosco. Qualcosa si affaccia alla lente, spolpa tra i ceppi
l’erba buia della tela. È nascosta la camera, ma già sente il taglio
del montaggio e questi notturni emersi alla fine della luce. Li trova:
il primo nel passo, l’altro incollato nel mezzo, il terzo, come penoso,
immobile e curvo. Una donna, tra loro, di certo quella in fondo
più segreta fra i corpi incastrati tra mondo e nuovomondo,
qui tornati per correggere.

056F 07: appare sul sotto, scritto sulla terra sul fradicio di foglie.
Così l’ombra appena violata smuove cadaveri d’ibisco, cespi vicino
all’incastro dei fili e vergogna per questa sua tenebra, per il lampo
lanciato dalla macchina, che tiene dentro tempo e nuovo tempo
l’orrore anche della carne.

 

Inedito:

Fanno spavento le cose del mondo e si dovrebbero lasciare:
un figlio chiede al padre di un’auto crollata nel vallone.
Si dovrebbero lasciare, mentre insieme guardano la televisione
dal divano. Lei lunga distesa, il suo collo e ciò che precipita
insieme a noi e alla Terra e si fa freddo mistero.

In futuro poi il lampadario di carni e scheletro, faranno
come fossero statue di rettile nel diorama. Diranno si amavano,
guarda, lei ancora tiene la testa poggiata sulla spalla.
Non hanno sentito nulla dal globo durante il lungo crollo
(mesi, anni), è stato come spegnere tutto, un velo, un tuono.
Entrarci ancora vivi, dentro il nero.

 

di Gianluca D’Andrea

Una voce forte emerge dai testi di Giuseppe Nibali e fortemente connaturata a un sostrato primigenio. La scaturigine materica traluce e si traduce a tratti in un espressivismo lancinante (“i rami le foglie lo schianto lo scantu della scorza / materna sul petto“), altre volte in un vero e proprio “espressionismo” linguistico (“gli spruzzi di merda sul lenzuolo e dentro l’amigdala / appena lavati macelli”). Tutto evidenzia una necessità etica: il linguaggio aggredisce la pagina, il mondo, il tempo – com’è esplicito nel secondo testo ed evidenziato nel martellamento epanalettico con variazione (“tra mondo e nuovomondo”; “dentro tempo e nuovo tempo”) – in uno slancio agonistico che non si arrende alla fine.

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VOCI DALL’INIZIO (1) – STEFANO MODEO

Stefano Modeo

Il primo capitolo della mia rubrica Voci dall’inizio per Nuova Ciminiera

da La Terra del Rimorso:

  
I. 

La piazza semivuota del tuo cuore.
Hai percorso la piazza.
Hai smesso di guardare il passo tuo nella piazza:
tra la gente cercavi la tua gente.
Scarpe e volti nella piazza mattutina.
Le parole sono tante le idee sono poche.
Sei tornato a casa e hai scritto una poesia:
la leggeremo in piazza, risuonerà alta:
nella piazza semivuota del tuo cuore.

III.

[Caro mio,]
tua moglie ha dei figli dello Stato.
Tra di noi non ce lo diciamochiniamo la testa – non ci guardiamo
della paura di morire che abbiamo
che quasi è una vergogna.
Niente è giusto (qui)
tua madre lo sa
i tuoi figli lo sanno
le bestie lo sanno.
Eppure dopo giorni si pacifica tutto
rimane la luna nel mare dipinta e
[Caro mio,]
dimentica di te [di me, di lei, di noi]
neppure il vento freddo delle parole testimoni
i volti fotografati nei cortei disorganizzati.
Salutami tutti, abbraccia quei cari.

 

Inedito:

 Tempo solenne

 
Tu conosci il tempo solenne
delle dediche al bene degli altri.
Sai che sottrarsi è fare un torto
alla tristezza della morte, il suo
avvicinarsi lenta dal cielo fumoso.
Nessuno può capire il tuo capire,
al contrario: appari asciutta e fredda
smunta dalla cima dolomitica
Vedi? La nuova casa. –
dove i tuoi avi e le tue pene ricordano
i dolori delle mani arrampicate.
Per questo anche accogli il silenzio,
il vuoto di chi guarda l’abisso.
Ora guarda questo crollo della fede
i balconi come vengono giù sulla terra
guarda gli uomini e le donne trafitti
dalla loro incertezza. Non sanno che fare.
Ma noi non possiamo toccare questo dolore
non ne abbiamo il diritto e neppure la voce.
Possiamo soltanto essere accanto,
dirci presenti fino alla conclusione
del buio locale, della maledizione sortita.
Tu conosci questo tempo solenne
non averne fastidio, è resistenza
a un potere indecifrabile. Forse presto
nascerà l’antidoto, un segnale definitivo di fuga
allo scricchiolio perenne del nostro presente

 

 

di Gianluca D’Andrea

Nei testi di Stefano Modeo è in evidenza un ampliamento dello spazio. Sin dal primo componimento, una certa “platealità” in funzione della nominazione emerge proprio dalla ripetizione del sostantivo “piazza”. Un desiderio di fuoriuscita e di riappropriazione del linguaggio per una nuova agnizione – “tra la gente cercavi la tua gente” – che sembra lanciare una sfida all’autoreferenzialità, al circolo vizioso della parola chiusa su se stessa (vedi, a tal proposito, incipit ed explicit del componimento, margini di un cammino da ri-verificare, ma che crea un collegamento stretto tra le due piazze: la reale ed esterna e quella intima e metaforica del “cuore”).

Il secondo testo si apre riaffermando una volontà comunicativa: la forma epistolare è segnale evidente di un’urgenza, che, però, sembra disillusa. Alcuni segnali – lo “Stato” al secondo verso e l’anticlimax dei versi 7-10 – ci indirizzano a questa ipotesi, per cui la plausibilità di una “giustizia” collettiva (ancora una volontà “desiderante” sembra muovere la penna di Modeo), è risucchiata in una disorganizzazione basilare e nell’indifferenza statale (in tal senso, essere “figli dello Stato” è sintomo di una subordinazione o, meglio, sottomissione a qualcosa di più grande, che si sposta dalla dimensione civile verso qualcosa di più ampio, metafisico).

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