Dall’inizio – Ultima puntata sull’EstroVerso

Sull’EstroVerso l’ultima puntata della rubrica che ho curato per 2 anni e 8 mesi con Gabriel Del Sarto. È stato un viaggio lungo ma prezioso, così bello che non può finire qui. Ad maiora! Dall’inizio, sempre. Di seguito i nostri ringraziamenti e l’arrivederci ai lettori.

Il più grande abbraccio a Grazia Calanna perché non esiste ospitalità più ospitale della sua.


Attrazione, ancora

Ma dimmi, chi sono, questi girovaghi, questi anche un po’
più fuggitivi di noi…

Rilke

Giunti alla fine del viaggio, ci auguriamo che la riflessione aperta dalla rubrica “Dall’inizio” abbia stimolato e possa continuare a farlo, l’urgenza di riconciliazione tra parola della poesia e mondo. Se con “mondo” s’intende lo spazio liminare di cui il testo necessita per creare nuovi spiragli di senso, allora in gioco sarà la capacità ri-creativa sempre fondante della poesia. Per questo, speriamo che tra “apertura” e “chiusura”, inevitabili nello sforzo autointerpretativo degli autori coinvolti, sia trapelata l’urgenza di trasmissione della parola, la sua tradizione: la “consegna” originaria, cioè, della scelta, con tutto il carico di ambiguità che comporta fino al rischio estremo del tradimento del senso.
Mantenere alto il livello di attenzione e custodia, allora, perché questa consegna continui a essere sempre “dall’inizio” e perché, come ci suggerisce Carmen Gallo al termine del suo intervento, «occorre ridere o piangere, […] restare in movimento».
Ringraziamo tutti gli autori (Vito BonitoGiovanna FreneMaria Grazia CalandroneFederico ItalianoFilippo DavoliAndrea De AlbertiVincenzo FrungilloLaura PugnoLuciano NeriMarilena RendaItalo TestaFrancesca SerragnoliTiziana Cera RoscoMarco GiovenaleFrancesca MatteoniGilda PolicastroAndrea IngleseMassimo GezziAzzurra D’AgostinoTommaso Di DioDavide BrulloLaura LiberaleRenata MorresiMatteo PellitiMarco SimonelliLorenzo MariDavide Castiglione, Bernardo De LucaMaria Borio, Carmen Gallo) che hanno partecipato alla rassegna e nel dire arrivederci ai lettori li ripresentiamo in ordine di apparizione, come viatico per quei “nuovi inizi” da loro raccontati che invitano a un ritorno, a «non fermarsi […] (non per sempre)».

Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto

In cammino (Piccolo canzoniere stagionale), Derbauch Verlag, 2021

Oggi arriva questo dono prezioso realizzato grazie alla generosità di Vito Bonito e corredato da un suo disegno. Sono 15 testi in forma chiusissima (madrigali, sonetti, sestine, sirventesi, canzoni). Ne riporto due insieme all’esergo da Hölderlin.


Die neue Welt ist aus der Thale Grunde

F. Hölderlin

La luna e la belva

Inverno, pallido sfregio di cellule,
in quale giorno sfacelando smisi
stanco lo scanto accettando la crisi?

La luna, argentea danza di libellule,
fissa e mobile in stanze nere osserva
la fine assiderata della belva

le ultime movenze, il suo respiro
vapore astratto, rapido ritiro.

*

Perché né ombra calma…

Perché né ombra calma né dimora
per noi sarà quell’ora
lontana dal respiro verde e mite
dell’albero. La fine quando affiora
la vita già scolora
nelle sue foglie caduche e infinite.

Ma lui oscillando tra le cime indora
e pari diri: “accura”
assorbendo dall’aria luci amiche,
mentre smancia la terra e la parola
adesso sempre ancora
la cosa umana vilinusa. Mite

nelle radici soffre e si rinnova
un suono d’erba e spine abbarbicate
e le acque abbandonate
ristagnano in attesa che si muova

altra acqua sapurusa. Nte ‘nchianati
du troncu stelle aspre e luna nuova,
la terra in basso smuove
la luce tra le linfe tenebrate.

Diario – Autunno: 23) E la gran fatica

Georges de la Tour, Donna che si spulcia (1638 c.)
Concerto doppio in C Minor, HWV deest: III. Adagio · Dorothee Oberlinger · Georg Friedrich Händel · Ensemble 1700 · Makiko Kurabayashi

Diario – Autunno: 23) E la gran fatica

La nostra casa si regge su mura sempre più fredde. E sotto il suo tetto di polvere dormono esseri investiti dai venti della mezzanotte. La nostra casa pare spegnersi sotto nubi di contagio e la proibizione e la giacenza di un misero autunno. E la gran fatica in questi giorni che obliano la terra, la gran fatica delle parole. Autunno. La stanchezza del rosso e del giallo che bruciano aceri, faggi, castagni e larici tra vette spaventose e viali morti e mille volti e boschi inceneriti e tarsi piumati che annunciano la caccia fatale, rapace. In questo «ammassamento cremoso» (S. D’Arrigo, Horcynus Orca) di carcasse marcescenti e accatastate o sfrattagliate nell’umidore buio, mentre i corpi dormono avvolti nell’aria vaporosa della mezzanotte, ecco grandi ombre squagliarsi sulla superficie delle strade, risalire le pareti di palazzi e cascine, divorare la città-carogna. Ombra-aquila che si abbatte sui boschi neri, sulle tangenziali filiformi notte dopo notte, dalle vette fredde giù nelle paludi, nei focolai d’infezione e odori tristi. Catabasi tra gas e pestilenza, la taiga urbana che emana «fragranza di Persefone» (W. Stevens, Cose d’agosto) e che chiude una volta per tutte l’estate, tappezzando l’asfalto. La luce si fa blu e verde e mastica il senso dell’emisfero, dell’occasione, della fine. E albeggia. Mentre i corpi fluttuano, sono forme luminose rallentate, screen saver del mondo e l’attesa è una fatalità che si muove in cerchio, attivando un percorso capovolto fino allo zenit dell’illusione originaria. Le foglie sverdiscono, la luce si fa blu fino a confondersi con la fine del cielo, è in arrivo una maniera diversa, un approccio imprescrittibile che odora di scomparsa e tristezza, di un mondo che pareva insostituibile, ecc.
È in arrivo il bianco incolore, il neutrale, il rosso:

fumo nel fumo
buio d’animale
porta di sangue
grido siderale

(V. Bonito, La bambina bianca)

Dall’inizio (Vito M. Bonito)

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Vito Bonito (Foto di Dino Ignani)

Oggi su L’Estroverso il primo poeta a cimentarsi con l’autocommento per la rubrica Dall’inizio è Vito Bonito. Di seguito un estratto.


Si scrive già morti.
Si scrive ai morti, ai non-nati. Solo questo ho cercato e cerco di fare.
Chi scrive si dà a morire nella lingua e ascolta la lingua mentre muore.
Libro dopo libro, dentro questo trauma nel fuoco della scena originaria, la mia ovviamente, che è nascere alla morte. Così ci si approssima al niente della voce alla fragile infallibilità di essere niente.
Negli ultimi due libri (Soffiati via e fabula rasa) questo percorso è approdato quasi naturalmente a una revisione paradisiaca non conclusa della parola quanto più si fa teso il lato comico e patafisico, la melopea, la liturgia sacrificale, la cantatina storpia e soffocata. Così proprio quando l’estinzione si rovescia in nascita anche la consapevolezza della condizione di non-nato o già morto si fa più acuta.
«La fine è nel principio, tuttavia si continua», ci direbbe Hamm, nel beckettiano Finale di partita. Con lui, tutte le voci di Beckett ci insegnano che la parola di quei personaggi viene da chi non si capacita di non essere vivo, né morto. Quei personaggi, quelle voci – ha scritto Emil Cioran – «sono saltati dalla nascita all’agonia, senza transizioni, senza esistenza: rifiuti umani che non hanno più nulla da apprendere o da affrontare, che rimuginano – ilari o stupefatti – delle futilità e che, di tanto in tanto, lanciano per disprezzo qualche lampo, qualche oracolo. Li si capisce soltanto se si ammette che qualcosa si è irrimediabilmente spezzato, concluso, che essi appartengono non alla fine della storia ma a ciò che viene dopo, a quell’avvenire forse imminente, forse lontano, in cui il rimpicciolimento dell’uomo raggiungerà la perfezione di un’utopia capovolta».

E pertanto anche autocommentarsi diventa un’operazione strabica, una distorsione assai disturbante: obbliga a ricercare dentro di sé le intenzioni di un testo, più che il risultato di un testo. Si conosce o si crede di conoscere tutto di una poesia che si è scritta. Eppure non si conosce granché se non la cenere di ciò che è accaduto veramente, di ciò che è stato deposto sulla pagina. Meglio così.
Ma illudersi di avere ‘una’ vita e ‘una’ poetica è davvero infantile, come il frigno di colui che si ostina a far funzionare il giocattolo (senza riuscirvi) secondo la propria legge e non secondo le istruzioni del giocattolo medesimo.

Il testo con cui vorrei iniziare è quello conclusivo di Soffiati via (Il Ponte del Sale, 2015): quattro versi d’addio a nessuno, dentro una condanna a cui si è prossimi, ma già in atto mentre il testo si dipana:

non ho mai dato un bacio

ho nove anni

domani mi bruciano

viva

Una bambina dice del suo essere bruciata viva. È un sacrificio? Una condanna per una colpa? Un’esecuzione senza motivo? Un atto di pura crudeltà che non ha orizzonte di comprensione? Come tutti i testi del libro anche questo non ha alcun senso. Né primo né ultimo. Non rimanda a un inizio né a una fine. È un improvviso fiato di vento che spegne una candela (“soffiato via” resta uno dei possibili e meno infedeli intendimenti della parola nirvāna. Ogni estinzione accade come accade ogni nascita. Si consegna al mondo o al niente. Si accende e si spegne): a chiudere un giro di esili vite o non vite, di infanzie già torturate, violentate, scuoiate. Un coro di non-nati, non-vivi, né morti.
Così è, ma così non è; o non è soltanto. Il libro si apre laddove le voci dichiarano che niente muore né rimane vivo. Tutto sta o dovrebbe stare dentro questa luce opaca.

Continua a leggere…

Carteggio XXXVI e LETTURE di Gianluca D’Andrea (21): LA NON-CASA – una risposta a Vito Bonito e alla sua lettura di “Transito all’ombra”

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S-House / Yuusuke Karasawa (particolare)

Carteggio XXXVI e LETTURA (21): LA NON-CASA – una risposta a Vito Bonito e alla sua lettura di Transito all’ombra

Il 3 gennaio 2017 Vito Bonito mi ha inviato tre foto in cui sono “registrate” le sue parole scritte “a penna” su Transito all’ombra. Quale miglior auspicio per “ricomporre” un carteggio – l’ultimo risale a luglio 2016 [qui] e parla ancora di ritorni, case, dimore e può collegarsi a quello che Cecilia Bello Minciacchi dice a proposito del “dimorare” che interessa tanto a Vito e che emerge nella sua ultima raccolta, Soffiati via, Il Ponte del Sale, Rovigo, 2015: “«nessuna dimora nessuna» (p. 66), verso ancora più asfittico, chiuso com’è nella negazione reiterata che toglie ogni speranza di rinvio o di proroga: questo significa, «con Derrida, la parola enigmatica dimora, che riconduce al latino demorari (de e morari) e a quel senso di attesa e di ritardo che si porta dentro»” (C. Bello Minciacchi, Campioni # 11. Vito M. Bonito, in Doppiozero, 07 settembre 2015).
A me non resta, allora, che continuare a riflettere sulla “NON-CASA”, riflessione che forse lega i miei pensieri a quelli di Vito, come mi è già capitato di fare in Carteggio XIX: Heimat – Stimmung (10 settembre 2014): Un “transito” che è anche un “soffio”, insomma, che può condurci alla fine di una presenza e, chissà, a un nuovo riconoscimento.
Una LETTURA, la mia, che parla di una ripetizione, ma prima ecco le foto-parole di Vito Bonito:

bonito 1

bonito 2

bonito 3

LETTURA (21): LA NON-CASA di Gianluca D’Andrea

«colui che ‘immagina’ ora diventa propriamente colui che ‘registra’, poiché, per rimanere all’altezza di se stesso, cerca di tenere il passo di ciò che ha fatto e dell’incalcolabile potere che egli ha acquisito attraverso il suo fare, potere che però lo sovrasta».

(Günther Anders)

Il potere di essere liberi di fare ci rende schiavi di questo stesso potere. Il pensiero di Anders è ripreso nel 2014 da Byung-Chul Han per il quale il potere, il poter fare, non ha limiti e paradossalmente ci costringe a fare, trasformandoci in “figuranti”, soggetti sottomessi alle dinamiche di un “potere” più strutturale di altri poteri, perché intimo, scelto (vedi Byung-Chul Han, Psicopolitica, 2016).
«Passano le figure, inseguono gli eventi» (Acquario, in Transito all’ombra, p. 47) e non trovano requie, non trovano una dimora; nel “vuoto”, eppure, risiede qualcosa, un’angoscia. Un po’ come in Heidegger, più che “fuori-da-casa”, però, l’essere è immerso in una “non-casa” che individua la nostra distanza dal contesto proprio nella nostra presenza in continuo transito, qualcosa che ci soffoca proprio quando più ampie ci sembrano le prospettive. La libertà che ci costringe a re-inventare lo spazio svuotato da responsabilità, se non le nostre: questo è un terror panico provocato, però, dalla libertà manipolatoria dell’homo technologicus che sente il peso del potere (dovere di tracciare un percorso senza fondamenti, senza una mappatura già acquisita che possa indirizzarlo. Ecco, il nostro essere senza indirizzo ci limita a una continua trasformazione («di trasporto, di trasposizione o di trasmutazione», dice Nancy in L’equivalenza delle catastrofi (dopo Fukushima), Mimesis, 2016, p. 45) con cui dobbiamo fare i conti senza possibilità di ristabilire una tregua col mondo, perché immersi, anzi compartecipi e sempre più spesso protagonisti, della sua metamorfosi.
Forse uno degli sforzi più plausibili, in questi tempi trapassati (come sempre d’altronde, è caduto anche il confine tra finito e infinito) è quello del ricordo, perché possa riverificarsi una nuova narrazione, ma anche la memoria è a rischio perché è implicita una volontà, una scelta, nel selezionare i ricordi. Forse è il momento di correre questo rischio:

«senza memoria d’immagine,
noi lontani da sempre
pronti ad abbandonare la non-casa
la certezza di affacciarsi
in altre distanze, non nostalgia
di un luogo che è lo stesso,
sempre un altro».

(Transito all’ombra, p. 29)