Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto XII) – di Andrea Ponso

canto-xii-e1446884035749

Giovanni Di Paolo, Canto XII, miniatura (The British Library)

di Andrea Ponso

CANTO XII

La seconda corona di beati che apre, con la sua presenza, questo canto, è segnata, anche dal punto di vista stilistico e grammaticale, da un movimento vertiginoso, concentrico, fatto d’archi che si rispondono creandosi l’un l’altro quasi incessantemente. Non sembra più esserci differenza tra apparizione e sparizione, tra moto e immobilità, tra dentro e fuori, tra nube e chiarore, tempesta e calma. Il principio di non contraddizione, se così possiamo chiamarlo, salta, per eccesso; e due immagini, apparentemente contraddittorie, lo attestano in un modo formidabile. La prima che Dante usa è quella profana della ninfa Eco che si strugge, disperdendosi, per amore di Narciso: “a guisa del parlar di quella vaga / ch’amor consunse come sol vapori”. Mentre la seconda si richiama alla tradizione biblica del nuovo patto stabilito da Dio con Noè e gli uomini dopo il diluvio attraverso l’arcobaleno. Un segno di relazione e di unione consistente, che unisce terra e cielo, nasce quasi dal suo opposto, cioè dall’evaporare e dallo scomparire lento e doloroso della parola di Eco: l’eco che si ripete disperdendosi fino al limite del silenzio qui si fa costruzione e relazione, disegnando e mostrando l’unione tra Dio, l’uomo e tutta la creazione. E da questa dispersione della voce e della parola, della relazione e della consistenza, nasce una parola nuova – “canto che tanto vince nostre muse” – e l’umile sicurezza della prima voce che si rivolge a Dante, quella di Bonaventura da Bagnoregio.
E le prime parole di Bonaventura sono in perfetta armonia con i movimenti e le immagini appena descritte, nel senso di una relazione e di una unione nella differenza volta alla medesima gloria: “Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca: / sì che, com’elli ad una militaro, / così la gloria loro insieme luca”. E da questa apparente debolezza e dissolvenza Bonaventura tesse lungamente l’elogio di Domenico e dei domenicani – ordine per certi aspetti duro e inflessibile, fin troppo concreto e violento, potremmo dire noi oggi, nella lotta contro gli eretici: questa potenza e questa quasi presagita violenza per difesa della fede, Dante la fa nascere da un eco che si dissolve e da un nuovo patto biblico segnato dalla bellezza e dalla dolcezza dell’arcobaleno, come abbiamo visto all’inizio, forse per ricordarci che ogni forza e ogni suo eccesso deve comunque fare i conti con il suo opposto – che opposto non è ma complementarietà.
E, infatti, è proprio l’altra parte di quell’orbita unica che, secondo Bonaventura, è stata in gran parte dimenticata, vale a dire l’esempio di Francesco e della sua povertà e pacificazione non violenta; e dimenticata in primis dai suoi: “Ma l’orbita che fé la parte somma / di sua circunferenza, è derelitta, / sì ch’è la muffa dov’era la gromma”. La lotta che Bonaventura descrive è quella tra Spirituali e Conventuali, che si contendono l’interpretazione della regola di Francesco (“ch’uno la fugge e altro la coarta”). Ma né l’una né l’altra di queste due vie sembrano essere quelle giuste.
E torniamo quindi, alla fine, allo stesso movimento iniziale che ha retto l’intero canto, quello in cui tutto è simbolicamente tenuto insieme in vista non tanto dell’imporsi di una parte sull’altra ma, piuttosto, della loro armonia profonda, pure nella dissonanza – una dissonanza che, in queste ultime parole di Bonaventura, è quella intestina all’ordine francescano; ma che risuona nella sua voce diventando eco armonico nel coro degli altri grandi spiriti che lo circondano, da Ugo di San Vittore a Giovanni Crisostomo, da Anselmo a Rabano Mauro … fino a quel Gioacchino da Fiore che, pure contraddittoriamente, mostra forse la trascendenza e la speranza insita anche nella situazione di lotta e di difficoltà, quasi come un augurio e una presa di coscienza, da parte dello stesso Dante, della speranza.

SalvaSalva

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto X) – di Andrea Ponso

dante_pd10_bl_yates_thompson_36_f147-e1444486043705

Giovanni Di Paolo, Canto X, miniatura del codice alla British Library, Londra (Fonte: Wikipedia)

di Andrea Ponso

Canto X

La simultaneità e l’immediatezza delle percezioni sono sottolineate fin da subito in questo canto: “… ma del salire / non m’accors’io, se non com’uom s’accorge, anzi ‘l primo pensier, del suo venire”. Ciò che così letteralmente accade è fuori dalla linearizzazione spazio-temporale e può essere ricostruito solo dopo – non potendo essere anticipato dalla mente: infatti è nel corpo e nei sensi che avviene questa anticipazione, questo sentire che solo a posteriori può trasformarsi in coscienza e pensiero, in scrittura e narrazione. Ancora una volta, quindi, quell’immediato che ci porterebbe a vedere il viaggio dantesco come il massimo dello “spirituale”, ci conduce invece all’immediatezza senza tempo del corpo e delle sue percezioni, dove si viene anticipati senza motivo e senza sapere, senza previsione e senza ricordo che non sia ricostruzione e mediazione: ed è così che, precisamente, agisce la grazia; ed è in questo modo che si è nella “materia” paradisiaca, “quella materia ond’io son fatto scriba”. Tanto addentro in questa materia che Dante non percepisce i “colori” ma solamente l’intensità dell’azione delle “anime” che sono nel cielo del Sole: “Quant’esser convenia da sé lucente / quel ch’era dentro al sol dov’io entra’mi, non per color, ma per lume parvente!”. Siamo sempre nella stessa dinamica ergo-emotiva che scavalca nella sua immediatezza la ricostruzione razionale e narrativa che verrà solo dopo – una mediazione, questa, che, tuttavia, è vera solo in quanto ci riporta all’immediato e ce lo fa esperire attraverso strategie testuali che, coerentemente, si muovono al di sopra e al di sotto della semplice visione razionale, come abbiamo mostrato nel canto precedente.
La “famiglia” dei beati di questo cielo, cioè dei sapienti, partecipa anch’essa di un’azione e di un movimento, più che di un insieme di concetti o di visioni intellettuali: essa, infatti, è coinvolta nella dinamica trinitaria, in quel motore di tutto che già all’inizio di questo canto ci veniva proposto (Guardando nel suo Figlio con l’Amore / che l’uno e l’altro etternalmente spira …”): “Tal era quivi la quarta famiglia / de l’alto Padre, che sempre la sazia, / mostrando come spira e come figlia”. Questo “mostrare”, ormai lo sappiamo bene, è sinestetico e partecipativo: i beati sono dentro a questa dinamica e ne godono, ne vedono lo “spirare”, il soffio e il respiro, il ritmo e il suo nascere e far nascere continuo: in poche parole, si scoprono creati e in relazione con esso, come lo è ogni creatura, anche se non ha la forza o l’umiltà di sentirlo. E sono dei “sapienti”, nel senso profondo del termine: sono finalmente capaci di gustare il sapore di questa azione creazionale che da sempre crea e tiene insieme ogni cosa. E Dante stesso vi si immerge misticamente, tanto da dimenticare la stessa Beatrice, la stessa guida teologica: “e sì tutto ‘l mio amore in lui si mise, / che Beatrice eclissò ne l’oblio”. Ma se Beatrice è anche immagine della teologia, questo “oblio” e questo “eclissarsi” di lei è in realtà la sua pienezza, il suo compimento – poiché la vera teologia è viva e piena proprio nel momento in cui sa dimenticare se stessa e le sue pretese per farsi esperienza viva e totale; e, infatti, “Non le dispiacque, ma sì se ne rise, / che lo splendor de li occhi suoi ridenti / mia mente unita in più cose divise”. E la “mente”, unita pericolosamente solo a Dio, felicemente e positivamente si “divide”, cioè torna a contemplare la vera totalità dell’azione divina, non fermandosi all’oggettivazione immobile di Dio: è un altro segno del movimento trinitario, che è tale solo in quanto mai si chiude in se stesso, ma rimane eternamente aperto alla relazione e alla creazione. Stare in Dio e dimenticare completamente la sua azione e creazione è una contraddizione in termini che non può avere luogo.
Il resto del canto, come spesso accade, altro non è che la didascalia di questa pratica d’ascolto e d’immedesimazione. I grandi spiriti che vengono visti da Dante con l’aiuto di Tommaso d’Aquino, altro non sono che punti ritmici dentro a questo movimento, partecipanti a questa danza e a questo canto. Ciò che il grande Tommaso richiama per nome, da Ugo di S. Vittore a Gregorio Magno, altro non è che musica e azione: note “non da ballo sciolte”. La Scolastica e tutta la riflessione logica del tempo è finalmente incarnata dentro al suo oggetto di ricerca e tutte le speculazioni teologiche si sciolgono in questa pratica in atto. Tommaso ne partecipa con gli altri, e così lo stesso Dante – ma il modello sembra ancora una volta essere quello mistagogico dove le parole esplicative vengono solo dopo il vissuto concreto di ciò che designano, come mediazioni che rimandano all’immediatezza di una teologia che è vita, preghiera e pratica. Quando Dante scrive, descrivendo l’impossibilità del dire ciò che vede e sta vivendo, “dal muto aspetti quindi le novelle”, ci sta forse indicando non l’ineffabile in assoluto, ma solo relativamente al linguaggio: il Mistero, infatti, è fare silenzio nel linguaggio, per uscire dal linguaggio, tramite il linguaggio, ed entrare nella pratica dell’azione e dei sensi, per iniziare finalmente ad essere quella “danza”.