
Tiziana Cera Rosco
di Gianluca D’Andrea
Poeti italiani (1) – Spazio inediti: Tiziana Cera Rosco
Se tu mi incantassi i capelli
e come serpi si issassero a funi
e da essi salissero o scendessero scimmie
le forre che riservo a te dopo il candore
– lo credi bianco
ma è una margherita architettata a labirinto
è un corvo che becca le tue vocali –
Se tu non avessi gli abbracci logici degli amanti nominali
e nella bocca ti incendiasse il fiato
e me lo vampassi sottolingua
quando mi muovo come un’ardesia
mi inoltrassi al cielo,
oltre ai figli
i molluschi neri di questo ventre salato
vedresti la mia predilezione per le scale.
Se tu dimenticassi le cose che sai di me
e mi lasciassi fare prati
con quei peli mischiati dallo sperma
e mangiassi alla vulva zuppe di miracoli
e il lenzuolo non salpasse come un polmone aperto
con me annegata sotto
e invece di tuffarti tu stessi
sul dorso del mare
leggero come al sagrato di una chiesa
ed io fossi per te pane
sapresti che sono punita dal sole
che Proserpina cambia dolore sulla crosta
che premo e prego su tronchi di pioggia
quando scendono anime a colonne d’acqua
e la mia bocca ha sete
della linfa segreta dei viventi.
Questo cuore – vedi? – è un amuleto
inciso, un talismano
che ne trarrai senza religione?
se ti stringi alle mie cosce
e frughi a braccio intero
e rimescoli tetto a sottosuolo.
Mi stai dentro io impalata come pesce aperto.
Ma dentro – dentro – non c’è alcova.
È danaide.
Dai miei occhi saliva inguine a pozzi.
(da Il sangue trattenere, Edizioni Atelier, Borgomanero, 2003, pp. 31, 32)
Il primo testo che presentiamo, pubblicato nel 2003, inscena un’assenza proprio dentro il discorso amoroso. La pagina è palinsesto che si accumula per raschiamento, riduce il rapporto a monologo, per giungere al fondo scabro della mancanza, unico movimento che riapra al desiderio. Desiderio che, però, nelle prime battute, scompare a causa del movimento ipotetico della sintassi, per cui l’irrealtà del contatto è ruvidamente imposta a un “tu” incapace di capire, trivellato da un dettato che l’autrice carica di aggettivazioni insolite, fughe metaforiche che non accettano «gli abbracci logici degli amanti nominali» (v. 8), per un rapporto che si vuole esigente, quasi incontentabile, estremo: «Se tu dimenticassi le cose che sai di me/ e mi lasciassi fare prati/ con quei peli mischiati dallo sperma/ e mangiassi alla vulva zuppe di miracoli» (vv. 16-19). Questa tensione espressionistica è in funzione di uno svelamento che si vuole necessariamente cruento, perché solo nel sacrificio è possibile l’iniziazione del vero rapporto che testimonia l’alterità. Mistica del martirio, appunto, che ancora non aspira a circoscriversi, non può ancora sentire l’invadenza dell’io, perché è totalmente impiegata nello scardinamento dell’Altro avvertito come pericolo, falsificazione del Vero. Questa carica è in bilico, tra la voglia di rottura linguistica, che potrebbe portare alla Visione, e un ordine raccolto, arginamento umile delle spinte. Per questo, forse, il componimento si chiude sull’assenza, sull’impossibilità d’intimità erotica, fino alla chiusura, dell’ultimo verso isolato, che sintetizza in maniera eccedente le continue traslazioni cui il linguaggio, in fuga, è costretto per non adagiarsi sulla significazione comune, banalizzante: «Mi stai dentro io impalata come pesce aperto./ Ma dentro – dentro – non c’è alcova./ È danaide.// Dai miei occhi saliva inguine a pozzi» (vv. 38-41).
E mentre cercavamo di capirci
Ecco che incontri il mio Ultimo Giorno in me
Io sono l’osso di uno scheletro di un solo osso
Uno squilibrio di presente
Che rompe le parole inutili come una statuina
Da cui stillano piccoli ori.
L’abbandono del discorso
La debole anemia del ma io ma tu ma io
La frattura della sete nel regno di tutte le mancanze
Mi dico sono solo una reazione oculare verso la luce
Assorbimi luce
Andiamocene da qui
Succhia tutta l’acqua dalla testa
E abbassa questa cenere
Il mio amore che ha già bruciato
Tutto quello che viene dal domani.
(Inedito)
L’inedito, che immaginiamo composto di recente, ci offre la possibilità di seguire lo sviluppo della poetica dell’autrice. Si avverte una fragilità più esposta all’alterità, al dialogo con la stessa. La congiunzione d’apertura è diversa, passiamo dal “se” ipotetico, in funzione di distanziamento desiderante, alla semplice “e” copulativa positiva che consente al monologo di trasformarsi in dialogo, per quanto non pacificato. Infatti, nei versi successivi, sembra ripartire il dissenso del soggetto rispetto alla «debole anemia del ma io ma tu ma io» (v. 8), al ripetersi del contrasto che non consente una definizione univoca. L’ambiguità del linguaggio in un’epoca deficitaria di senso, fa dell’io «[…] l’osso di uno scheletro di un solo osso/ Uno squilibrio di presente/ Che rompe le parole inutili […]» (vv. 3-5), nel desiderio di unità e Verità che contraddistingueva anche il testo precedente. Il segno di una continuità che si è lasciata alle spalle i parossismi più deformanti delle origini, accogliendo nella lingua le proprie ossessioni, anzi incanalandole verso la scelta plausibile dell’assimilazione, la Visione cui accennavamo nella prima nota: «Assorbimi luce/ Andiamocene da qui/ Succhia tutta l’acqua dalla testa/ E abbassa questa cenere» (vv. 11-14). Contrariamente a quanto avviene altrove, la poesia di Tiziana Cera Rosco non si arrende alla frammentazione dell’esistente, anzi, continua a lasciarsi tentare dalla fascinazione del senso, semmai i toni sono cambiati, la visione si è fatta più scabra, riesce a coagularsi senza farsi bruciante. I residui dell’incendio toccano il reale con la grazia di parole che non si arrendono al dato, alla nominazione banalizzante, ma che, dopo essersi esposte alla distruzione, possono ancora aspirare a cantare l’unicità dell’essere che sempre avviene, in assoluto, senza cedimenti di fronte alle scansioni periodizzanti imposte dall’uomo: «Il mio amore che ha già bruciato/ Tutto quello che viene dal domani» (vv. 15-16).
(Marzo 2014)
Tiziana Cera Rosco è nata a Milano nel 1973 ma cresciuta nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
Autrice dei libri: Dio Il Macedone (ed. Lietocolle 2009); Il Compito (ed. La Vita Felice, curato da Milo De Angelis 2008); Lluvia (ed. Lietocolle 2004); Il Sangue Trattenere (ed. Atelier 2003); Calco Dei Tuoi Arti (ed. Lietocolle curato da Giuseppe Conte e Giampiero Neri, 2003).
Del videopoema: Non salvarti (Reggio FilmFestival, Reggio Emilia) con musiche di Teho Teardo.
Delle scritture per voce sola: Così poco destino nei vostri sguardi (Teatro di Monfalcone, Monfalcone 2010); Da chi vuoi ritornare? (Festival di Edimburgo, Edimburgo 2009); Segnata E Gli Idioti (Teatro Out Off in Contrasti Poetici, Milano 2009); Demonio o del perdono ( Teatro Olimpico, Vicenza 2007).
E’ in pubblicazione per Raffaelli editore la “traduzione” al Libro Dei Numeri della Bibbia (a cui seguirà un’installazione).
Autrice delle raccolte fotografiche: Cercatemi e Fuoriuscite (Tempio di Adriano, Roma 2011); The Deep (Nigredo, Roma 2010); Il Doppio (Luci Della Città, Caserta 2010) Lambs o dell’Icona Familiare (Sull’Icona, Zagabria 2009); The bed.
Sue fotografie sono apparse su diverse riviste del settore ed è l’autrice della foto di copertina del disco di Paolo Saporiti.
Ha illustrato il libro Asèt di Flavio Santi per la Barca di Babele ed.
E’ autrice della canzone Il Garofano Nero uscita nell’ultimo disco di Mauro Ermanno Giovanardi e di svariati brani del progetto Songs For Ulan.
Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo: BiancoRh.e a due soggetti per film.
E sotto il titolo di Terapia Della Lettura tiene corsi di Umanesimo Spinto dal 2006.
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