Diario – Primavera: 3) Il mondo cresceva, il primo luogo si allargava

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Il’ja Efimovič Repin, La mendicante (ragazza pescatrice) (1874)

Canzoni overo sonate concertate per chiesa e camera, Op. 12, No. 20: Ciaconna · Dorothee Oberlinger · Dmitry Sinkovsky · Tarquinio Merula · Jeremy Joseph

Diario – Primavera: 3) Il mondo cresceva, il primo luogo si allargava¹

Una nuova vita, allora, ma dal profondo, dove s’inabissa la coscienza, niente luce, un labirinto di ombre:

Dall’inizio distante di ogni corpo…

Nell’incoscienza che l’opera provoca, la scoperta di un approdo non è consolatoria, si sprigiona una tenerezza imprevista per l’essere umano. L’ingenuità dell’opera, del viaggio senza fine, è l’ultima memoria di un essere bambino, inerme.

Quando i bambini ti parlano
dapprincipio non si capisce niente.
È un brusio di testicoli d’insetto e
ossicini in scosse cavità di terracotta

(A. Ceni, Mattoni per l’altare del fuoco)

L’incomprensione, l’incoscienza rimangono alla base dell’opera. È vero che è possibile si formuli un progetto, ma quella semplice traccia si trasforma nel cammino, ecc.
Non credo che l’opera d’arte abbia altra coscienza se non il suo cammino.
Amore, di pietra amore, «tu vedi» l’uomo (il dominus, il “donno”) «la tua vertù non cura in alcun tempo» (Dante, Rime per la donna Pietra), c’è bisogno di un’anima bambina, un’anima che si riconosca figlia:

Mia figlia salpa sulle sue parole
e svolgendosi dal nodo di refe che lega
la buia anella del mio immobile idioma viene
e mi parla, ma come a qualcuno
che non è già più lì.

(A. Ceni, op. cit.)


Nota:
¹ Il titolo è la traduzione di un verso di Seamus Heaney.

Poesie dall’inizio – 24) Heaney

Come in un racconto fuori tempo massimo, qualcosa si spezza, tutto appare in balia. Abbracciamo la terra “in extremis” anche se ciò che avviene è già “visione”.

Gianluca


Poesie dall’inizio – 24) Heaney

heaney

L’isola che scompare

Quando abbiamo presunto di fondarci per sempre
Fra le sue colline azzurre e quelle spiagge senza sabbia
Dove la nostra notte disperata passò in veglia e preghiera,

Quando avevamo radunato sfasciumi di mare, fatto un fuoco
E appeso il nostro calderone come un firmamento,
L’isola si è spezzata sotto di noi come un’ondata.

La terra che ci sosteneva sembrò restare ferma
Solo quando l’abbiamo abbracciata in extremis.
Tutto quello che allora avvenne credo fosse visione.

(Seamus Heaney, La lanterna di biancospino, Parma, 1999, a cura di Francesca Romana Paci)

*

The Disappearing Island

Once we presumed to found ourselves for good
Between the blue hills and those sandless shores
Where we spent our desperate night in prayer and vigil,

Once we had gathered driftwood, made a hearth
And hung our cauldron like a firmament,
The island broke beneath us like a wave.

The land sustaining us seemed to hold firm
Only when we embraced it in extremis.
All I believe that happened there was a vision.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (37): AL TEMPO CHE TIRA GLI SPETTRI

fiona

Fiona Hall, Inferno, Canto XIII: The forest of the suicides, from the series Illustrations to Dante’s Divine Comedy (1988). (Fonte: Art Gallery of New South Wales)

di Gianluca D’Andrea

… il Tempo tira
la sua palla di pietra
a un centimetro da me…

(Cristina Annino, Anatomie in fuga, 2016, p. 32)

La dimensione dell’incontro dopo la morte: riattivazione di un ricordo o parallelismo? Non è la specie, è la civiltà messa a repentaglio da una resa linguistica. Perciò ad accomunarci sono i soliti sentimenti, l’accensione o necessità di sentirci “in comune”, riconosciuti dentro un contatto famigliare.
Quale conforto, però, se i padri rifiutano la loro presenza? La scomparsa è il cruccio di questo primo scorcio di millennio, l’eredità di un secolo, il ventesimo, che ha disperso la generazione dei padri.
Non c’è una tradizione, o meglio si è tramutata in anti-tradizione, in autonomia presunta e consolidamento di una dipendenza che non può più essere riconosciuta:

… «Tua me, genitor, tua tristis imago
saepius occurrens haec limina tendere adegit;
stant sale Tyrrheno classes. Da iungere dextram,
da, genitor, teque amplexu ne subtrahe nostro».
Sic memorans largo fletu simul ora rigabat..
Ter conatus ibi collo dare bracchia circum,
ter frustra comprensa manus effugit imago,
par levibus ventis volucrique simillima somno.

(Eneide, VI, vv. 695-702)

Certo, la vita non è apparenza ma trasformazione, ma come tracciare gli indizi del mutamento se è scomparsa la presenza, se l’unica realtà concreta è la nostra immagine?
Il fantasma del padre è il peso: eppure in Virgilio è guida, per quanto fantasmatica, così come in Dante la guida si fa “concetto” d’Amore. Ecco, forse l’astrazione d’amore rompe la relazione e il tempo – o ritmo oscillante – del rapporto di trasmissione. Senza questa trasmissione siamo sull’orlo dell’abisso e veramente il tempo rischia di schiacciarci.
L’orlo è lo spezzarsi della resistenza dell’essere, quando non è possibile riconoscere un “senso” fuori dall’essere stesso. Come dire che la fine dell’anima è anche l’estinzione dell’animus, del coraggio di un’agnizione che si ricompone solo fuori da se stessi. Non più padre, anche perché i padri oggi non trovano nella paternità la loro trasmissione: il padre si nasconde nel figlio, o dal figlio?
La spezzatura di sé significa interruzione del tragitto «che da neun sentiero era segnato» (Inferno, Canto XIII, v. 3), non è forse la perdita dell’Altro a dissolvere l’io? La selva del rispecchiamento è abitata da spettri superbi e noi non abbiamo un dio o un io a guidarci, ma solo l’ombra di un ricordo e con queste immagini riaffioranti in un presente sempre prossimo alla sua fine, proviamo a costruire un altro tempo:

It was the age of ghosts

Era l’epoca degli spettri. Delle torce in mano.
Luci si muovono in distanza divinate per un chi
e per un perché: la veglia di chi e in che casa sulla strada…

(Seamus Heaney, Catena umana, p. 103, vv. 1-3)

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Gianluca D’Andrea, Transito all’ombra – una lettura di Marco Corsi

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Seo Young Deok, Dystopia

di Marco Corsi

Gianluca D’Andrea, Transito all’ombra

Transito-allombra_web-300x480«Transito» e «ombra» sono due parole che si richiamano immediatamente alla poesia. Transito con catene, la Spaziani, per inciso citeremo Human Chain di Heaney; per l’ombra forse possiamo riservarci qualche titubanza in più, essendo l’ombra un termine di cui si è appropriato certo coté ermetizzante. In Gianluca D’Andrea questi vocaboli non hanno niente di assoluto eppure la sua poesia non riesce ad abbandonarsi al quieto vivere; sa torturarsi senza fare dell’immagine un ricatto simbolizzante, perché è il contesto stesso ad essere immerso in una contemporaneità viva e visibile (giovani, ipad, partite di calcio, vecchi ritornelli…). Perché questo libro parla di generazioni, di una generazione nello specifico – quella dei nati nei secondi anni Settanta –, e della difficoltà di fare i conti con la storia e con talune (scomode, difficili, ma soprattutto incomprensibili) eredità. È la dimensione “stradale”, la geolocalizzazione emotiva e di pensiero in un momento preciso, l’indicazione costante di un qualche motivo a sopraffare l’esito lirico, a spiazzare, senza mai depistare. Per questo Heaney, e per questo la dimensione di una catena, per di più umana. Nelle poesie di Gianluca D’Andrea possiamo leggere un andamento naturale, nonostante la costanza del respiro e la necessità di un ritmo, perché quando parla D’Andrea ha davanti a sé un ben preciso destinatario, che è fuoco amico o nome di contrasto. Forse è la stessa vita, con il progresso dell’età, a trovare qualcosa di naturale, uno sguardo connaturato al vivere di ogni singola parola. Forse è perché si legge la virtù di un’esperienza, che talvolta siamo portati a dire che una poesia è poesia. Specie quando i suoi interlocutori la necessitano. Siano essi banalissime cose o gli affetti più esigenti. C’è, fra le tante di questa raccolta, una poesia dedicata alla figlia, nella quale forse la stessa appare piuttosto come un pretesto, ma nella quale il gesto emotivo del dare rifugge lo scarto semantico della profferta; per rifugiarsi a sua volta, consegna. Perché forse è tutto ciò che di umano vediamo a essere ombra di se stesso: ombra nella quale transitiamo, rischiando altamente, ma senza diventare nulla. Poesia in dialogo col nulla, dunque? Ultimamente spesso ricorre in tante note e noterelle, post e messaggi, la parola “sismografo” (specie in coppia con la sua stampella “emotiva”), forse dimenticando l’uso effettivo di una macchina: ecco forse si potrebbe usarla qui perché la poesia di Gianluca monitora il crollo e non lo fa avvenire, lo determina senza avverarlo. Ecco qui la difficoltà di ogni previsione. Forse la scrittura di questo libro è sicura in virtù dei suoi maestri e anche quando la tragedia irrompe non è epoca: la tragedia è nella quotidianità perché il suo presupposto, ancora, è l’ombra. Ombra da cui si distacca, magari, anche per diventare un solo verso compiuto. Perché la vita non è passaggio, ma attraversamento che conduce da un luogo all’altro, da un senso all’altro dell’esperienza e tutte le esperienze hanno un nome e un luogo preciso. C’è una certa consonanza in questo con quanto si legge di altri poeti più o meno coetanei, di aria lombarda, ma decentrata, non milanese. Si avverte l’esigenza di luoghi dove il confronto non è fulmineo e immediato, ma dove l’ora si coagula in un rovello, in uno stadio assolato e bruciante della parola più trita. Dove nel passaggio da geografie minute si ravvisa il movimento della ragione pian piano richiamata a se stessa. E in Gianluca D’Andrea c’è una misura in più, non sappiamo se banalmente qualitativa, ma una misura che affonda le radici al sud, nella terra del barocco di cui, si sa, l’ombra e il suo tocco sono elementi necessari. E orrifici. Però bisogna considerare anche certi maestri, soprattutto quelli meno riconoscibili all’orecchio italiano, se non con l’evidenza di un messaggio, e per questo posti in esergo a singoli testi o intere sezioni, da Mandel’štam a Wallace Stevens.

Questa non è una critica e questi non sono appunti di lettura. Questo è forse un auspicio, quello che si intravede, si vede, e si ravvede, in un libro flessuoso che prende alle caviglie senza immobilizzare, senza impantanare in sabbie mobili: prende alle caviglie come la tentazione, mai dissimulata, della poesia.

Acquario

Passano le figure, inseguono gli eventi.
Ombre, i bambini trascorrono
in gesti, in un piede piegato o i passi.
Gli uomini impiegano il tempo
in frazioni strutturate,
il movimento ha passioni e dolori
e quadri che si aprono a brusii,
flussi trapassati, sorprese
negli scorci, membrane che respirano
le azioni compiute;
la giustizia si sposta nello stesso
luogo, si sgrana in tempi impercettibili.

Seamus Heaney: una poesia da “District e Circle” (Mondadori, Milano 2009) – Postille ai testi

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Seamus Heaney

di Gianluca D’Andrea

Seamus Heaney: una poesia da District e Circle (2009)

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On the Spot

A cold clutch, a whole nestful, all but hidden
In last year’s autumn leaf-mould, and I knew
By the mattness and the stillness of them, rotten,
Making death sweat of a morning dew
That didn’t so much shine the shells as damp them.
I was down on my hands and knees there in the wet
Grass under the hedge, adoring it,
Early riser busy reaching in
And used to finding warm eggs. But instead
This sudden polar stud
And stigma and dawn stone-circle chill
In my mortified right hand, proof positive
Of what conspired on the spot to addle
Matter in its planetary stand-off.

*

In quel momento

Un intero nido d’uova fredde, semi nascosto
nel concime di foglie dell’autunno scorso, compresi
dalla sua immobile opacità, marcito,
mutava in sudore di morte la rugiada del mattino
che non ne rischiarava i gusci ma li infradiciava.
Ero a carponi là nell’umida
erba sotto la siepe, in adorazione,
mattiniero, intento a tendere la mano
e avvezzo a trovare uova tiepide. E invece
questa improvvisa borchia polare
e marchio e freddo d’alba cerchiato di pietre
nella mia mortificata mano destra, prova evidente
di ciò che tramava in quel momento per guastare
la materia nel proprio impasse planetario.

(Trad. di Luca Guerneri)


Postilla:

Tempo gelido dell’eterno, nell’ultimo tentativo di riscatto che il ‘900 poteva offrire: l’aspettativa, anche se qui il miglioramento, che il rito vitalistico sembrava presupporre, è disatteso. «This sudden polar stud», immagine pietrificante del disincanto, quel nido raggelato mortifica l’apprensione e lascia tra le mani la ripetizione, come un assillo, della caduta. «Stand-off» planetario, perché la terra (il mondo) è questo “stop” che annulla la speranza. La fine è sorpresa della fine, ma questo è ieri. L’oggi è neutralità soggiogata da un’altra “impasse”, quella del soggetto spettralmente assuefatto al proprio essere, mortalmente definito dal proprio tempo. «My mortified right hand» è pura retorica, metonimicamente tende a indicare la mortificazione della materia (e sua caduta gravitazionale: la caduta del nido è, infatti, la caduta di una dimora che si pensava ancora salvabile), il guasto immedicabile della speranza – e dello spirito – che si credeva abitasse la materia stessa, la quale diviene «mattness» e, infine, «stillness», ovvero «death sweat» del mondo, senza che «la rugiada del mattino» possa riacquistare quel senso di rinascita una volta pertinente. Una volta, cioè in altri tempi.