Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto XI) – di Andrea Ponso

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Giovanni Di Paolo, Canto XI, miniatura da: Robana Picture Library, Londra (Foto: RPL-059302 © BL/Robana)

di Andrea Ponso

CANTO XI

Tommaso d’Aquino, il grande dottore della Chiesa, il costruttore della più imponente e sistematica cattedrale del sapere medievale; Tommaso, simbolo della potenza del pensiero e della sua infinita ricchezza, capace di indagare e costruire, di fondare e rispondere … il trionfo dell’indagine dell’uomo su tutto lo scibile. È lui che tesse le lodi della povertà e di Francesco. E, in questo lodare, come in ogni lode, la gioia e la riconoscenza non possono non agire e incidere a fondo anche chi loda, trasformandosi anche in spoliazione e povertà; in queste parole che Dante fa dire a Tommaso è come se l’intero lavoro dell’Aquinate si rigenerasse grazie alla povertà di Francesco, alla sua “ignoranza” e al suo farsi piccolo tra i piccoli e ultimo tra gli ultimi; la sua umiltà diventa letteralmente humus per lo stesso Tommaso e, soprattutto, per l’ordine domenicano; in questo humus, in questa umiltà che è donna, che è la sposa da tanti dimenticata e non più abbracciata, in questo grembo, anche la sapienza e l’intelletto si ripuliscono di ogni idolatria e di ogni pericolosa tendenza “sistematica”. Non c’è quindi solo il matrimonio tra Francesco e Povertà, in queste parole, ma anche quello tra Sapienza e Umiltà: e il cerchio dinamico e relazionale della trinità si chiude aprendosi alla creaturalità e alla sua semplicità misteriosa e laudata.
La stessa critica che, sempre nelle parole di Tommaso, riguarda l’attualità del suo stesso ordine, quello domenicano, ci riporta al vuoto e alla povertà ma, questa volta, in senso negativo, per eccesso di “dispersione”: una dispersione che è frutto di un accumulo vano, di beni materiali e anche di studi profani: “Ma ‘l suo pecuglio di nova vivanda / è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote / che per diversi salti non si spanda; / e quanto le sue pecore remote / e vagabunde più da esso vanno, / più tornano all’ovil di latte vòte”. È una fame e un accumulo che svuota, mentre la povertà abbracciata da Francesco riempie e porta alla grazia.
E un’altra spia ci indica la povertà esemplificata da Francesco di contro a quei domenicani che si disperdono nell’accumulare beni vani: non c’è praticamente nessun segno, nessun rimando all’attività del Francesco “scrittore” o “poeta”; le stesse parole, fattesi “letteratura”, pure nella loro grandezza e nella loro funzione di preghiera, sono implicitamente relativizzate e rese meno importanti dei gesti e delle azioni, della vita stessa dello sposo della Povertà. Anche questa lode sotterranea, quindi, fatta da un domenicano, non è mera esaltazione ma, piuttosto, una lode che critica proprio gli eccessi di chi, parlando in questo canto, rappresenta l’intero ordine. Tutto questo ci riporta a meglio comprendere i versi d’apertura: “O insensata cura de’ mortali, / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!”. “Voglio che siate senza cura”, come direbbe Paolo.

IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – Esegesi

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Henry Rosseau il Doganiere. Paesaggio con bovini e filatrice. Dett. 1893. Filadelfia Museum of Art

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – Esegesi

Nel vangelo di Giovanni troviamo un’espressione che, nell’originale greco, è davvero illuminante: “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio lo ha rivelato” (Gv 1, 18). Illuminante perché il termine tradotto con “rivelato” è exeghèsato, da cui deriva il nostro “esegesi”. Ma che senso assume questo termine per l’evangelista? In greco non significa solo “spiegare”, ma anche “incontrare”: è il segno di una relazione singolare e incarnata, che può coinvolgere totalmente; è anche qualcosa che “esce fuori”, che muove verso l’esterno per modificarlo. Inoltre, se è il Figlio che diventa l’esegesi del Padre, allora significa che essa è fatta non di significati ma di gesti, parole, di uno stile e di un insieme di significanti incarnati che non possono essere ridotti a concetti o a oggetti da osservare acriticamente, senza esserne letteralmente toccati, scossi, e almeno un poco rivoluzionati.
La regola dell’israelita giusto comprende 613 precetti: questa cifra è formata dall’insieme delle membra del corpo umano e dai giorni dell’anno. Questa simbologia sta ad indicare che il testo deve avere la forza di coinvolgere totalmente, anche se solo per alcuni picchi di tempo e di spazio, la vita del lettore: esso deve avere la possibilità di immergersi totalmente in esso, mutando con esso e in esso. Gregorio Magno direbbe Scriptura crescit cum legente – e viceversa, naturalmente.
Sicuramente si chiede “troppo” con questi esempi – sia che si tratti di Scritture sacre sia che ci si riferisca al testo letterario in genere – ma chi è innamorato dalla parola, non può non chiedere “tutto”, non può non essere “geloso” come il Dio biblico infiammato dall’amore, senza vergogna e senza accontentarsi della mediocrità che lascia indifferenti o, al massimo, ci tocca in maniera tangente, per poco, per lasciarci poi immutati, come se il testo fosse niente: un trastullo momentaneo, come prendere un gelato o godersi una canzonetta – con tanto di critica a chi non si lascia andare, a chi non riesce a concepire anche la poesia e la scrittura alla pari di altri divertimenti. Contro questa tendenza estemporanea – e a noi tristemente contemporanea – i Padri ci vengono in aiuto affinché l’assimilazione diventi davvero tale, spesso attraverso l’esempio della ruminatio e della digestione come assimilazione e convergere della vita e del testo. Nelle parole di Agostino, ad esempio, mi pare di poter leggere un’attualità sconcertante, se riferita in particolare alla tendenza da fast-food di tanti eventi poetici:

«Vedo la vostra avidità. Siete sempre lì ad ascoltare. […] Che dico? Ruminate quel che mangiate. Così sarete animali puri, capaci di partecipare alla mensa divina. E inoltre preoccupatevi del frutto che si deve vedere nelle vostre opere. Digerisce male chi ascolta bene e non opera bene […] Tutti sanno che dovremo rendere conto del pane che riceviamo e che distribuiamo» (Agostino, Enarrationes in psalmos, 103, I, 19).

Quel “tutto” allora, non è una pretesa impossibile: è invece il bisogno che il testo deve saper ascoltare, costruire e condividere, di un momento, o di una serie di momenti, in cui tutto è accolto nelle proprie viscere, assimilato, fatto a pezzi e diluito attraverso gli acidi gastrici e “critici”, e messo in discussione. Pier Cesare Bori parla, a questo riguardo, di “impulso sincronico”, di “simultanea ispirazione”, di “cospirazione del testo e del lettore” (P. C. Bori, L’interpretazione infinita, Il Mulino, Bologna 1987); mentre Jean Leclercq dice che “per gli antichi meditare è leggere un testo e imparalo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica” (J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni, Firenze 1965).
Questa è davvero “critica” – del testo, dell’autore e del critico stesso. In questo tutto sarebbe bello poter dire, con Girolamo, che “una volta tese le vele”, non sappiamo mai con sicurezza “verso quali lidi approderemo”.
In una società dominata dall’immagine, la produzione testuale e la fruizione dei testi medesimi rischia di cadere non nell’ascolto ma nel guardare: un’immagine ben fatta, una concatenazione narrativa e descrittiva riuscita, ecc. Ma, in questo, si dimentica propriamente l’ascolto radicale di ciò che nel testo accade, e la critica si riduce a sua volta alla stessa valutazione descrittiva e rappresentativa, senza mai toccare il cuore vivo da cui ogni iota del testo prende vita. La prima rivelazione, come sappiamo, è di tipo acustico e orale: ciò significa che essa non si ferma alla superficie dei significati e delle immagini, ma è generata dal continuo del ritmo e dei significanti. Qual è, allora, la voce che si ex-pone e che chiama dentro e oltre il testo? Riusciamo a raggiungerla e a percepirla “criticamente”? Quanti dei testi che ci capita di leggere e magari anche di commentare possiedono davvero la forza di questa voce, quanti hanno la capacità di farsi scatola di risonanza di questo ritmo?
Se la critica e l’esegesi di un testo sono anch’esse un atto poetico, allora, per essere fedeli al loro mandato, devono cercare in un testo quell’originario suono, oltre la rappresentazione ma dentro la loro forma e il loro stile come modalità dell’incarnazione di questa nascita. Stile e forma, come abbiamo visto all’inizio, non sono comunque riducibili a quello che di solito la critica letteraria ufficiale intende con questi termini: essi sono un continuo che lo scritto incarna ma non può contenere totalmente, poiché ne mostra anche l’origine extratestuale, orale, fisiologica, gestuale, sinestetica, esistenziale, contestuale, ecc. Proprio come accade nel rito.
L’incontro, credo, avviene a questa altezza e a questa profondità, dove c’è la possibilità di un co-nascere insieme al testo in una co-spirazione ampia e vibrante; altrimenti non è un vero incontro ma una sua simulazione rappresentativa. Scrive a tale proposito Cassiano:

«Il vivo ardore dell’anima del monaco lo rende simile a un cervo spirituale, che pascola sul monte dei profeti e degli apostoli, cioè si sazia dei loro più sublimi e misteriosi insegnamenti. Vivificato da questo nutrimento di cui continuamente si pasce, si compenetra a tal punto di tutti i sentimenti espressi nei salmi che ormai non li recita non come fosse stato il profeta a comporli, ma come se ne fosse egli stesso l’autore […] Le Scritture si svelano a noi più chiaramente e ci aprono il loro cuore e quasi il loro midollo, quando la nostra esperienza, non solo ci permette di conoscerle, ma fa si che preveniamo addirittura la conoscenza, e il senso delle parole non ci viene regalato da una qualche spiegazione, ma dalla viva esperienza che noi stessi ne abbiamo fatta. Non sono cose che apprendiamo per sentito dire, ma di cui palpiamo, per così dire, la realtà, per averne colto il senso profondo. Non abbiamo l’impressione di affidarle alla memoria, ma di partorirle dal profondo del cuore, come sentimenti naturali che fanno parte del nostro stesso essere. Non è la lettura che ce ne fa cogliere il senso, ma l’esperienza acquisita» (Cassiano, Conferenze, X, II).

E ci vuole pazienza e impazienza insieme per discernere questo originario della e nella voce testuale, per farsi “trafiggere il cuore” (At 2, 37). Molto spesso questo grembo originario che vive nel presente in atto dell’opera semplicemente non c’è. O, meglio, c’è ma non è percepito nemmeno dall’autore; oppure l’autore non ne è interessato o non è capace di condividerlo. La distrazione, il di-vertimento, non sono naturalmente censurabili e criticabili – ma sono altra cosa. Anche nei testi della tradizione “comica”, infatti, vive questa forza e questa spinta, forse più che in quelli che si pretendono “seri” e “impegnati”. Il fatto è, credo, che, come dice il monaco benedettino Semeraro, “riposare stanca”: rimanere in quella posizione sabbatica del riposo intenso dentro la creazione, in un atteggiamento di contemplazione che è anche azione (contempl-azione) costa grande fatica perché presuppone un’azione di lode e di ringraziamento, di benedizione … un atteggiamento che, quindi, lascia essere le cose senza il timbro autoriale che vorremmo sempre appiccicare loro addosso. Il “divertimento” che molti reclamano per la fruizione poetica e letteraria rischia spesso di diventare una sorta di devozionale e soggettiva ricreazione a cui imprimere la propria minuscola firma egotica; esso diventa la fuga dalla non proprietà dell’opera e della stessa creazione – un di-vergere e un allontanarsi da quella terribile e dolcissima consapevolezza che non siamo noi gli autori di niente; un fuggire dalle “trappole” fondamentali che ci porterebbero positivamente nell’intreccio testuale catturandoci, finalmente! Scrive Narsai di Nisibe, padre della tradizione siro-orientale: “con le parabole ci ha dato la caccia come fa il cacciatore con un uccello: ci ha fatto entrare all’interno delle parole del suo vangelo … Egli tese al nostro cuore, che ama errare, una trappola di parabole” (Narsai di Nisibe, Cinq homélies, p. 63). Quanto vorrei essere molte volte così catturato.

Spazio Inediti (6): Luciano Mazziotta – di Gianluca D’Andrea

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Luciano Mazziotta

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (6): Luciano Mazziotta

Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose introdotte dalle percezioni.

S. Agostino

Promemoria

“Tutto col tempo diventa memoria”
(Aristotele, De memoria et reminiscentia)

…e dei lapsus, che farne dei lapsus?
Se ogni volta che inciampi interrompi
un tuo ciclo vitale, è per perdere il filo,
per riprendere fiato e iniziare
da un indizio non valutato.

La linea si spezza: è naturale si spezzi.
Prendi ad esempio la Karl-Marx-Allee:
la memoria è geometrica; la storia è
compatta, compatto è l’asfalto:
non ci sono buche né vuoti.
Gli edifici non ammettono fughe
né pause, se pausa è un salto tra tempi,
da un ordine ordinario a un atto involontario:
come quando ti chiamo col nome
cui vagamente pensavo e diventi
proiezione casuale di una faccia
che niente ha a che fare con l’originale.

Sì, ma dei lapsus, quanti lapsus
per fare una storia? In un’eternità
avremo tutt’al più formato un’anamnesi,
una vaga sensazione di ricordo –
come quel rumore intermittente
della freccia avvertito in dormiveglia
dopo un lungo tratto di autostrada.

Risvegliarsi è avere scelta: uscire
dai percorsi obbligati,
incontrare tombini e sostare.
Non sono eventi ma dati,
interferenze che tessono
un tappeto di dettagli marginali
al di sotto della microstoria:
sbadigli distrazioni impulsi
o scarti
necessari:
come le parole
dette giornalmente in modo compulsivo:

tu inciampi su reperti pentole cucchiai
conservati in pessimo stato e da qui
io ti scrivo.


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Berlin – Karl-Marx-Allee, Marcus Künzel © (2009)

Poesia di pensiero che si confronta con la memoria, una memoria da ricostruire come la «Karl-Marx-Allee» al verso 7 suggerisce; costruzione viaria fatta di successive stratificazioni, citazioni architettoniche che, all’interno del nostro testo, alludono a un’originalità perduta (o mai esistita?), o meglio, aspirano a una rappresentabilità coerente, «compatta», senza «buche né vuoti» (v. 10), tensione ideale o movimento discendente di un’idea, a discapito della citazione iniziale da Aristotele, centrata sul movimento del tempo. La meditazione si fa dubbio linguistico, la possibilità del nominare si confronta con l’origine perduta proprio nel movimento e constata una sconfitta: «come quando ti chiamo col nome/ cui vagamente pensavo e diventi/ proiezione casuale di una faccia/ che niente ha a che fare con l’originale» (vv. 14-17). L’aspetto mnesico del dire, col suo carico di ricognizione imperfetta (vedi l’«anamnesi» al v. 20), pur non potendo costruire forme compatte, narrazioni coerenti, concentrandosi sulle “falle” del racconto (i “lapsus” ricorrenti in punti strategici della composizione, inizio e centro, quasi a confermare la necessità di questi scivolamenti in crepe originarie, dove il senso è incontrollabile, capovolto) sembra riscoprire la sua possibilità liberatoria: «Risvegliarsi è avere scelta: uscire/ dai percorsi obbligati,/ incontrare tombini e sostare» (vv. 25-27). Raggiunto questo traguardo, però, il dire si complica, ragiona sull’accaduto, sembra volersi riaddormentare nei «dati» che ricoprono l’evento: la memoria si oscura per accumulo, la linearità si perde nelle «interferenze che tessono/ un tappeto di dettagli marginali» (vv. 29-30). La fine del componimento si chiude in un ritorno ciclico, in cui il soggetto si ritrova nella condizione di dover affrontare nuovamente il problema: «tu inciampi su reperti pentole cucchiai/ conservati in pessimo stato e da qui/ io ti scrivo» (vv. 37-39). L’unico spostamento avvertibile riguarda la trasformazione del “lapsus” in una nominazione (gli oggetti presentati) che, per quanto diroccata, in pessimo stato, ricorda l’attraversamento appena compiuto, per cui il soggetto può continuare a scrivere da questi inizi ripetuti e mutevoli. Il movimento e la sua idea sembrano essere assorbiti in un solo gesto di fiducia nei confronti del logos, scavare tra le sue radici contorte, tra le volute infinite dei significati, è compito arduo ma che permette di individuare la necessità della trasmissione.

(Marzo 2014)


Luciano Mazziotta è nato a Palermo nel 1984. Specializzato in Scienze dell’antichità, ha vissuto parte degli anni della Laurea triennale tra Palermo e Amburgo. Tra Marzo e Settembre 2011 è stato borsista in qualità di Post-Graduate Student presso la Humboldt-Universität zu Berlin. Nel 2009 è uscita la sua prima silloge di poesie Città biografiche (editrice Zona). Sue poesie e prose sono state pubblicate sui blog “Nazione Indiana”, “La dimora del tempo sospeso” e “Poetarum silva” di cui è anche redattore. Altri testi sono presenti sulle riviste cartacee Poeti e poesia (nr. 21), nel Registro di poesia #5 a cura di Cecilia Bello Minciacchi (edizioni D’if) e, da ultimo, su Argo (XVIII).