Roberto Uberti: 7 poesie da “Dei bui”, L’arcolaio, Forlì 2011

roberto-uberti

Roberto Ubertà

Roberto Uberti
7 poesie
(da Dei bui)

dei buiDei giorni non dispari

Allora non siamo arrivati. Il percorso
è tribolato più del previsto e più
del necessario se siamo ancora
qui, a interrogarci se il sole
è diverso ogni mattina oppure se è sempre
il medesimo che va giù di sera oltre le piccole
colline dell’inganno ingrato e risale poi
dalla parte opposta, latomare. Spigoloso.

Temibile è questo scosceso vallone nel quale
siamo finiti con tutti i nostri armenti,
buoni per andare in città e non certo
per lottare dentro questa
vallaccia inutile. Da qui il mare
è una beccaccia lontana, di ali spiegate
e immense. Da qui i suoni
sono tutti lontani, e lontani gli dei.

Occorre agire? Insediarsi nella notte
è la risposta, quando, a sole spento, arrivano
le fragorose cime verniciate di buio a illuminare
i passi che si disaddomesticano. Tutto
è per davvero finto nel prossimo paese,
dove le altane indugiano intorno al cielo
e le persiane incerte si ritraggono
dentro una piccola carezza mattutina.

°

L’infinito in braccio

Mi basta allungare le braccia ed ecco
reggo chilometri di cielo sopra di me.
Se ritiro le braccia viene giù
con un boato asciutto e silenzioso.
È così facile tenere in braccio l’infinito!
Ugualmente facile è lasciarlo cadere:
come un giocattolo
non si ribella non si lamenta
tutto sopporta tutto spera.

L’infinito è leggerissimo e sa di luce
attraversato ogni tanto da dei bui.

°

Paesaggio dispari

Che cosa commemorano
i colori bagnati del cielo che sta rallentando
proprio sopra di me in alta uniforme? Io credo
stiano andando di guardia ai confini lontani
dell’universo, dove gli amanti perduti
cercano una casa di fuoco in cui spegnersi
dove i paragi si fanno distanti
dove le basse maree lasciano graffi e conchiglie.
Ecco: sbotta la luce. Pare una curva improvvisa
dentro un discorso fatto in silenzio. Un filare di olmi
è la prima fila di un pubblico tutto schierato
nell’immenso teatro qui convocato per sempre.
Ora mi osservano senza parlare. Si alzerà il vento.
Sarà il loro ondeggiare, il loro vibrare di foglie
a essermi applauso o fischio di riprovazione. Chissà.
Il cielo intanto ha ripreso il suo viaggio
verso le terre del tempo assopito. Resto
a guardare le ali di piombo del sole.

°

Abito a Medicina. Sono infelice.
Vivo in una casa con molte verità
appese alle pareti come piccoli
quadri ornamentali che nessuno guarda veramente,
che nessuno ha mai guardato veramente.
La mia porta è una bocca di fornace
dove ogni parola si accartoccia
divorata dal fuoco. Vorrei baciarti
ma mi respingi. Sempre mi hai respinto.
Di notte il mio viso è quello d’uno spettro:
la luce lattea del mio laptop lo cosparge
di vernici inesistenti, di cose tutte fuori di qui.
Ti ho scritto tante mail. Tanti messaggi.
Ho appreso ad ascoltare il lungo freddo
delle desolazione, delle disperante
aggrappate tra lo stomaco e la schiena
come neoplasie tumorali rapide e silenti.
Qualcosa non funziona nelle ricorrenze
quotidiane, soprattutto quando hanno
cadenza di secondo e sono implacabili
(e sono implacabili). Le rincorro
senza riuscire a fermarle. Loro fermano me.
Saliranno altre nubi sopra questo tetto
malandato: diverse tegole sono già cadute
frantumandosi nel cortile, come piastrelle
scivolate lungo una discesa irrevocabile.
Sotto le nubi resta soltanto una domanda,
quella che da sempre abita nel letto
dove consumo notti deformate dalla cecità.
Chi, chi sono davvero se non un soffio,
se non uno sbadiglio che qualcuno
ha distrattamente pronunciato
nella stanchezza annoiata della fame?

°

La nebbia ha ossa di cristallo
e pelle di ladro.
Ha occhi senza orizzonte
e mani in tasca.
Sono io la nebbia
quando fingo di dormire
sul tuo cuore pieno
di palpiti che non vogliono saperne
ancora di fiorire.

°

Se passeggerai sulle mie dita
troverai presto le mani di un pensiero fragile
e dopo salirai su per un braccio
sincero come una montagna
pronta all’abbraccio di pinete vergini
e infine approderai sulla mia spalla
e come sulla coffa d’una navicella
sarai per me vedetta nelle notti
ove la nebbia ringhia silenziosamente.

°

Ti dedico ogni singola
goccia della pioggia che orgogliosamente
raspa il tetto dell’ombrello sotto il quale
ci cammina il marciapiede. Guarda come
le nostre parole rimbalzano dentro questa
cupolina di teleplastica azzurra
tornandosi e ritornandosi più volte
ripetendosi a se stesse, reiterandosi
nei nostri padiglioni auricolari-cerebrali.
Cosa utile, in verità, perché
in questo modo esse non vanno
disperse
disperse
disperse nel solito vento
dell’oblio inascoltato
come avviene quando non abbiamo modo
di conversare sotto un ombrello
che più che ripararci della pioggia
ripara le parole dall’andare disperse.