
Nino De Vita
Riflessioni sulla lingua, 2 inediti di Nino De Vita
… e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso…
G. Leopardi
In un recentissimo intervento sulla poesia italiana contemporanea, Franco Buffoni ha parlato della «caduta libera della poesia dialettale» (F. Buffoni, Dialogo con Franco Buffoni, in L’Ulisse, Rivista di poesia, arti e scritture, 17 – Mappe del nuovo. Percorsi nella poesia contemporanea, p. 58). Colpisce il dato che, pur partendo da un resoconto limitato alla compilazione dei Quaderni di poesia contemporanea, accende un’altra riflessione sulla lingua e i suoi presunti destini. Forse lo “spostamento” linguistico è un indizio del mutamento prospettico che, sul piano concettuale, è stato espresso più e più volte e che è sotto gli occhi di tutti, riassumibile in un termine utilizzato dal filosofo francese Jean-Luc Nancy: mondializzazione. La mondializzazione, intesa in termini di arte e linguaggio, «ha, dunque, l’incarico di attestare il mondo in quanto mondialità che toglie, allontana, o sottrae, tanto l’unità di un cosmo o di un mondo-oggetto (di una “natura”), quanto di un mondo-soggetto (una “storia”)» (J. L. Nancy, L’arte di fare un mondo, in Prendere la parola, Moretti&Vitali, Bergamo, 2013, p. 203). Per questo, a mio avviso, il dialetto, rischiando l’estinzione, è l’esempio macroscopico di una resistenza testimoniale, l’ultimo baluardo di un approccio “storico” del soggetto che si dispone frontalmente rispetto al mondo. La visuale (non la visione!) collaterale nel dialetto è impossibile proprio a causa della sua pregnanza testimoniale, nella tensione resiliente che si oppone a una scomparsa. Il dialetto guarda negli occhi un mondo che non si guarda ma si pertiene. Richiamando ancora Buffoni: come «Il soggetto: è il soggetto – quello che “mi detta dentro” – a far sì che si possa scrivere in modi tanto diversi. Personalmente non sono né un fautore della sparizione dell’io […], né un fautore della presenza dell’io» (F. Buffoni, Dialogo con Franco Buffoni, cit., p. 63), così il dialetto, è il dialetto con la sua specificità localizzata, in qualche modo separata, a far sì che si possa scrivere “per altri versi”. L’ibridazione, di cui si parla anche nell’intervista più volte citata, è un fenomeno che riguarda più le lingue nazionali che, a loro volta, sembrano prendere la strada del dialetto, laddove la “mescolanza”, dovuta anche agli spostamenti antropici oltre che alla possibilità di accesso “multilinguistico” per mezzo della rete, sostituisce ogni “purezza”, cioè il residuo archeologico della lingua. Andrei più a fondo: se qualunque lingua è, in “potenza”, residuo, allora non si tratta soltanto di lasciarsi andare all’ascolto del soggetto ma anche rapprendersi nella sua “forza” di valutazione: «Si tratta del valore che non dipende da alcuna proiezione, ma dalla forza della valutazione per la quale il “soggetto” è esso stesso dentro al suo “progetto”, ma non a titolo di “pro” della proiezione: a titolo di “gettar-si” dentro, o meglio di “essere-gettato” dentro» (J. L. Nancy, L’arte di fare un mondo, in Prendere la parola, cit., p. 200).
Viviamo il tempo dell’ibridazione, è vero, ma solo in termini di potenzialità che è possibilità di non utilizzo di un sistema (nel nostro caso, linguistico). Il non-utilizzo di una lingua nazionale, e la non-scelta di un linguaggio “retrocesso” come il dialetto, non è più azione ideologica ma è il modo di trascinare, come direbbe Jean-Cristophe Bailly, «il paese al di là di sé, rendendolo in qualche modo infinito», cioè non originario, eppure ugualmente “testimoniale”. La “caduta” del dialetto, allora, è la “caduta” della lingua nella sua, questa sì “eterna”, divisibilità. In tal caso, è impossibile definire una lingua se non per preconcetti nazionalistici o accademici – che vogliono dire “il russo, il cinese, il giapponese”, se non l’etichettatura delle potenzialità che la lingua offre? «La partizione (partage) delle lingue è la condizione del linguaggio: gli idiomi sono i limiti sui quali si apre il silenzio, sempre che non si tratti di glossolalia. Neanche la poesia può rientrare in un’assegnazione di stampo quasi nazionalista o identitario in generale (in base, per esempio, al nome dell’autore)» (J. L. Nancy, Il sistema, ieri e oggi, in Prendere la parola, cit., p. 151).
Mi piace concludere questa piccola riflessione, prima di passare ai testi “dialettali”, gentilmente concessi dal poeta siciliano Nino De Vita, con un breve estratto dallo Zibaldone che ci parla di quella “varietà” indispensabile, perché effettiva, che il linguaggio possiede, il senso dell’alterità che attiva il divenire, l’esistente, nello scambio tra soggetto e mondo:
«La gran libertà, varietà, ricchezza della lingua greca, ed italiana, (siccome oggi della tedesca) qualità proprie del loro carattere, oltre le altre cagioni assegnatene altrove, riconosce come una delle principali cause la circostanza contraria a quella che produsse le qualità contrarie nella lingua latina e francese; cioè la mancanza di capitale, di società nazionale, di unità politica, e di un centro di costumi, opinioni, [2127] spirito, letteratura e lingua nazionale. Omero e Dante (massime Dante) fecero espressa professione di non volere restringere la lingua a veruna o città o provincia d’Italia, e per lingua cortigiana l’Alighieri, dichiarandosi di adottarla, intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e governi d’Italia in que’ tempi. Simile fu il caso d’Omero e della Grecia a’ suoi tempi e poi. Simile è quello dell’Italia anche oggi, e simile è stato da Dante in qua. Simile pertanto dev’essere assolutamente la massima fondamentale d’ogni vero filosofo linguista italiano, come lo è fra’ tedeschi. (19. Nov. 1821.)», aggiungo solo che l’ibridazione tanto discussa, non ha altro valore se non l’accoglienza del diverso, fuori dal concetto di confine nazionale, perché ognuno di noi è già confine.
Gianluca D’Andrea
2 inediti di Nino De Vita
ADDINI
(Galline)
’U STRALLÀSCITU
Sti cusuzzi chi ggìranu, ri notti,
nichi p’attornu ô lumi,
trùzzanu, cci nni sunnu
nna tàvula sminnati,
abbruciati pi ddintra
ô tubbu.
’A ciamma stava
ferma. Si l’ammicciavu
cchiù nchiccu m’addunavu
ammeci chi trimava.
Vinni una straquatina
ru puddaru. Vuciaru, svulazzaru
l’addini – carcariau
quarcuna – e si zzitteru.
Stesi, allarmatu, ’a testa
aisata ri nno libbru,
a sèntiri.
E arreni ddu strallàscitu,
’i vuci ri l’addini.
Mi cafuddai annunca
pi ffora.
’A porta ru puddaru era attangata.
’Un vitti vurpi e mmancu
bbaddòttula fuìri.
P’addabbanna
ra rriti, l’addini ( aisi
un peri – accura – e ’u posi; e ddoppu, tisa,
l’àvutru) araciu chi
muvìanu.
Currì a pigghiari ’u lumi,
nna cucina e turnai.
Tirai ’u firriggiaru.
Dda stramera chi cc’era
ri pinni stravuliati.
Avia un’addina ’a testa
ascippata. Sbizziati
ri cca, ri dda, ri sangu
’n terra….
Onnumani me’ matri
spinnau l’addina morta e ’a fici a bbroru.
Eu, pi ddavanti ô piattu
chi purtau, mi mussiavu.
“ ’Un cci pinzari” rissi
me’ patri. “ ’Un cci pinzari.
Mancia, ch’è bbonu, mancia, ’un cci pinzari ”.
E ddoppu, seriu: “E pènzacci”
mi rissi.
LO SCHIAMAZZO. Queste cosette che girano, di notte,/ piccole attorno al lume,/ sbattono contro il vetro, ce ne sono/ sul tavolo ferite,/ bruciate dentro/ il tubo.// La fiamma stava/ ferma. Se la guardavo/ più fisso mi accorgevo/ invece che tremava.// Giunse uno starnazzare/ dal pollaio. Vociarono, svolazzarono/ le galline – qualcuna/ chiocciò – e si zittirono./ Rimasi, allarmato, la testa/ sollevata dal libro,/ ad ascoltare.// E di nuovo quello schiamazzo,/ la voce delle galline./ Mi precipitai allora/ fuori.// La porta del pollaio era serrata./ Non vidi volpe né/ donnola fuggire./ Dall’altro lato/ della rete, le galline (alzi/ un piede – attenta – e lo poggi; e dopo, tesa,/ l’altro) lente che si/ muovevano./ Corsi a prendere il lume/ nella cucina e tornai./ Spostai il chiavistello.// La massa che c’era/ di penne sparpagliate./ Aveva una gallina la testa/ staccata. Gocce/ di qua, di là, di sangue/ per terra….// L’indomani mia madre/ spennò la gallina morta e la fece in brodo./ Io, davanti al piatto/ che portò, tentennavo./ “Non ci pensare” disse/ mio padre. “Non ci pensare./ Mangia, che è buono, mangia, non ci pensare”./ E dopo, serio: “E pensaci”/ mi disse.
°
’A PERPÈTUA
Ma chi putiti viatri
capiri, mancu vi
passa p’a ciricòppula,
socch’éni chi l’addina,
nnall’ariuni, facia.
Jittava ncapu un ciancu,
addizzava e abbuccava
nnall’àvutru, caria
e si susia; nnavanti
jia, pu nnarrè, firriava
pi ntunnu, sdivacava
aggabballaria, pi
morta.
Ma ’unn’era morta.
Abbiava e truppicava
nna nnenti, tummuliava,
s’abbaffava. Rapia
’u bbeccu, addumannava
acqua, chi sacciu, l’aria pi campari…
Ciccinu, c’u bbiccheri
ri perpètua nne manu
“Aggàrrala” mi rissi
“chi cci nni ramu ancora
tanticchia. Vegna, aggàrrala,
ràpicci ’a vucca, aiùtami”.
“E no” cci rissi “làssala.
Mi sentu tramazzatu, ’a testa cci haiu
nnacquariata… ’Unn’u viri
comu si mazzulìa.
Prima chicchiriddiava,
ora è làccana, è foddi,
nfuscata, pari chi
cci fìciru una cosa
tinta, chi fa, chi vvoli,
è senza sicuranzia,
scamina, cci havi ’u trèmulu,
scancedda. Signuruzzu
portala tu a dunn’havi
a gghiri…”
Ciccinu m’ammicciau,
schifiànnumi pi tuttu
ddu ranni mutuperiu
ri palori ch’avia
rittu.
“ Cu mmia ’un mmeni cchiù
a gghiucari” mi rissi
“picciriddu ngangà”.
IL VINO VECCHIO. Ma che potete voi/ capire, nemmeno vi/ passa per la testa,/ quello che la gallina,/ nel cortile, faceva./ Sbandava su di un lato,/ si drizzava e abbatteva/ sull’altro, cadeva/ e si rialzava; avanti/ andava, indietro, girava/ attorno a sé, crollava/ con le zampe in aria, come/ morta./ Ma non era morta./ Si avviava e incespicava/ su niente, stramazzava,/ si accovacciava. Apriva/ il becco, domandava/ acqua, che so, l’aria per campare…// Ciccino, con il bicchiere/ di vino vecchio in mano/ “Afferrala” mi disse/ “che ce ne diamo ancora/ un poco. Avanti, afferrala,/ aprigli la bocca, aiutami”./ “E no” gli dissi “lasciala./ Sono confuso, la testa ho/ smarrita… Non lo vedi/ come si dibatte./ Prima chiocciava,/ ora è floscia, è pazza,/ senza la ragione, pare che/ le abbiano fatto un/ maleficio, che fa, che vuole,/ non ha più certezza,/ vaga, è presa dal tremito,/ il cammino sconosce. Signuruzzu/ portala tu sulla sua/ via…// Ciccino mi fissò,/ disprezzandomi, per tutta/ quella quantità/ di parole che avevo/ detto./ “Con me non vieni più/ a giocare” mi disse/ “bambino appena nato”.
Nino De Vita è nato a Marsala nel 1950, dove vive e lavora. È autore di “Fosse Chiti” (Milano, 1984) e della trilogia pubblicata da Mesogea composta da “Cutusìu” (2001), “Cùntura” (2003) e “Nnòmura” (2005). Nel 2011, sempre con Mesogea, è uscito “Òmini”, il suo quarto libro in dialetto (Premio della Giuria Viareggio-Rèpaci 2012). È autore anche di diverse raccolte di versi pubblicate in edizioni a tiratura limitata. Riconosciuto come una delle voci più interessanti e rigorose della poesia contemporanea, nel 1996 ha ottenuto il Premio Alberto Moravia per la letteratura italiana, nel 2002, il Premio Mondello “Ignazio Buttitta”, nel 2004, il Premio Napoli e, nel 2009, il Premio Tarquinia Cardarelli per la poesia. Nel catalogo dell’Editore Orecchio Acerbo di Roma tre suoi racconti per ragazzi: “La casa sull’altura” illustrato da Simone Massi (2011), “Il racconto del lombrico” illustrato da Francesca Ghermandi (2007) e “Il cacciatore” illustrato da Michele Ferri (2006).