Cammino nella metà della luce – 7 non-prose inedite su Nazione Indiana

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Hal Morey, Grand Central Terminal (1930)

Sette mie prosette su Nazione Indiana oggi. Suggerimenti e scelte di Renata Morresi che ringrazio. Per chi volesse leggerne.


Cammino nella metà della luce

di Gianluca D’Andrea

 

I. Risveglio

Dentro la storia dei bulbi noi andammo e volevamo alzarci e andare liberi tra gli stracci arborei e le tundre, tra le entità astratte e le belve, nel fulgore delle selve, negli anditi tra i bagolari e le curve dei sassi. Perché il mondo è un astro astratto dondolante e attraversare le sue linee cunicolari fu scelto nottetempo da un convoglio sintetico riunito su ceppi ramati. Eppure, tra gli strani mostri antichi, emersero parole tonitruanti

e cascate d’immagini e l’onnipotenza circolare delle forme. La notizia iniziò a circolare stentata per i sentieri di un mondo senza miti se non gioiosi e senza forza. Afriche e meridioni insormontabili in cronache oculari di sempre ulteriori coloni. Quindi partimmo sulle tracce minime lasciate dai luoghi, in ascesa sui crinali dei vecchi venti condizionati. Tremanti per la fame cominciammo, udimmo la voce lontana e gli odori acerbi del nostro incerto risveglio.

 

II. L’ente scimmia

I suoi arti scoordinati e fumosi, il pelo impolverato, fulvo e fragile. L’altro ente, quello da lui rinato, ha tutte le forme che gli ha dato, in tutti gli spazi in cui ha provato a nascondere il suo brutto muso, per sciogliere da sé, sé. Ora vaga senza legami in cerca di qualcosa che si ostina a scivolare come sabbia tra le pigre ondulazioni del cervello. No, non è mai stato bello e neppure intelligente da quando acchiappando il primo pasto non ha intuito la macchinazione dentro la manipolazione – almeno così dicono. Si sforma di continuo e si trasforma e scorda il dolore di non essere nient’altro che l’altro dentro sé, quella forma appena liscia di cui ha sfiorato il senso. Quasi acqua tra le mani sono io, sono oblio e il mio manto e il mio grugno.

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Istantpoetry #5

«Per vedere davvero qualcosa bisognerebbe che potessimo retrocedere nello spazio».

Stanislaw Lem

Istantpoetry 5

Asimmetrie e spazio (Fotografia ed elaborazione di Gianluca D’Andrea)

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Una riflessione su Franco Buffoni, “Il racconto dello sguardo acceso”, Marcos y Marcos, Milano, 2016

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Emilio Sanchez, Untitled, Faces, particolare

Una riflessione su Franco Buffoni, Il racconto dello sguardo acceso
(Marcos y Marcos, Milano, 2016)

«Ogni concezione della storia è sempre data insieme con una certa esperienza del tempo che è implicita in essa, che la condiziona e che si tratta, appunto, di portare alla luce».

G. Agamben

il-racconto-copIl lavoro di scavo di Buffoni nei fatti continua attraverso “inserti” narrativi che, nel complesso di un’opera pluridecennale, tradiscono un’urgenza sempre più chiarificatrice. L’indagine, compiuta tra esperienza personale e vicende del mondo, parte da un approccio poco evenemenziale, riattivandosi proprio nei nodi e negli intrecci di un flusso che prova costantemente a ri-orientare il soggetto, perché parte integrante dello stesso intreccio.
Curiosità fattuale, dunque, e si spiega così la tensione esplicativa di cui all’inizio, o volontà di cura nel tentativo di scovare, tra le situazioni e gli incontri casuali, la capacità della parola di comunicare un senso. Sforzo estenuante ma eseguito con assoluta dedizione. Ad emergere, allora, anche ne Il racconto dello sguardo acceso (che si pone negli “immediati dintorni” del precedente La casa di via Palestro, anche se, quasi specularmente, adesso lo sguardo si allarga sul mondo come nell’altra operazione si focalizzava sulle origini – due ante dello stesso οἶκος visto da prospettive diverse, in cui il ricordo ha più valenza cairologica che cronologica, e quindi riflette sulle opportunità offerte dall’esistenza più che sulla nostalgia del tempo perduto) è la capacità testimoniale della parola.
Tra wit e denuncia, arguzia e sempre rinnovata consapevolezza, Buffoni riesce a vivificare, in un tragitto in 14 stazioni (i 14 racconti del testo diviso in 2 parti, dittico nel dittico che si forma se aggiungiamo le 3 parti di 13 racconti ciascuno de La casa di via Palestro) la necessità di un’identità per troppo tempo nascosta dal senso di colpa, un’identità – personale e collettiva – che può riconoscersi solo in funzione dell’altro, com’è evidente ne Il racconto di date e guerra: «sono […] un ponte tra quattro secoli: un ponte a una arcata tra Ventesimo e Ventunesimo, e grazie alla forza della parola e del ricordo, un ponte a più arcate tra il Diciannovesimo e il Ventiduesimo» (p. 179). Ma l’agnizione avviene attraverso il continuo disconoscimento di un’identità fissa e organizzata attraverso parametri socialmente imposti. Così ne Il racconto di Pasolini possiamo leggere un’inversione di opinione nella ricezione di un messaggio tra i più controversi del secolo appena trascorso, un’inversione che rimette in questione le stesse capacità interpretative del soggetto e permette al lettore di comprendere la necessità di mantenere il proprio “sguardo acceso” sui fatti. La trasformazione che “consustanzia” il punto di vista del soggetto, aderisce al messaggio di cambiamento intravisto da Pasolini, inizialmente frainteso: una realtà nascosta tra le pieghe dell’allegoria che il reale stesso comprende nell’affabulazione della parola, il corpo dell’essere denunciato nella sua mercificazione.
Eppure è proprio in questa reificazione del corpo che si scorge il cunicolo di trasporto al presente, la constatazione del mutamento che si riversa nella parola, la necessità dirompente della testimonianza che denuncia lo stesso presente con tutto il suo peso: «Solo parole al vento, potreste replicare… Niente affatto. Perché le parole – messe tutte assieme – diventano macigni, e i macigni pesano e possono anche rotolare» (p. 216). Lucidità nell’utilizzo di ricordi sempre vivi (ecco la valenza cairologica della memoria che elimina l’impasse da “fine della storia”). L’eziologia si scioglie in racconto, la casualità degli incontri personali si spoglia di ogni mitologia e trasforma la riflessione intima in critica sociale. L’opera si presenta nella veste di un pamphlet senza invettiva, la sua caratteristica principale è un’ironia arguta e illuminata senza pathos o esuberi.
Il percorso di conoscenza – la ricerca di «una verità fattuale dentro la verità emotiva dei ricordi», (La casa di via Palestro, p. 152) – si accende sulle metamorfosi dei costumi (la centralità dell’eros, l’approccio alle lingue “altre”), intraviste come sintomi di nuove possibilità. Così ne Il racconto di segni e segnali possiamo leggere delle mutate modalità di approccio alla lettura («”Ecco, vorrei chiederti… se mi puoi mandare il pdf, così posso anche leggerlo», Così posso anche leggerlo, p. 120, oppure «Consegno il libro con la dedica per Mishima e la mia firma: “Mishima allora conosce bene l’italiano…” “No, assolutamente. Ma è un bravissimo fotografo…”», Libri come gadget, p. 122), così come degli indispensabili richiami a una tradizione che va preservata e riattivata nel presente: «Nella convinzione che sì, le ultime lettere potranno anche diventare le ultime e-mail di Jacopo Ortis, ma – dentro – qualcosa che mi piace definire anima dovrà pur continuare a pulsare» (Cuore ed e-mail, p. 124).
L’elastico tra passato e futuro – il ponte – è l’individuo, lo sguardo attento e libero che, solo nella volontà di cura per l’alterità, può slacciarsi dai vincoli del “sempre uguale” e riaffacciarsi di continuo sul presente accendendone la grazia. Gli inserti di poesia dentro la trama narrativa hanno proprio questa funzione baluginante ed è così che mi piace terminare la riflessione su Il racconto dello sguardo acceso, con un componimento che sembra riassumere il sentimento di pietas che pervade le ultime opere di Buffoni – e che infatti è già presente in forma diversa nel libro Roma, del 2009 – la sua devozione verso il mondo, la sua cura, la sua pulizia:

Gay Pride a Roma

“E il caffè dove lo prendiamo?”
chiede quella più debole, più anziana,
stanca di camminare. “Alla casa del cinema,
là dietro piazza di Siena…”
Non si erano accorte della mia presenza
nel giardinetto del museo Canonica:
si erano scambiate un’effusione,
un abbraccio stretto, un bacio sulle labbra.
Parlavano in francese, una da italiana:
“Mon amour” le diceva, che felicità
di nuovo insieme qui.
Come mi videro si ricomposero,
distanziando sulla panchina i corpi.
Le scarpe da ginnastica,
le caviglie gonfie dell’anziana…

«Quella sera, come smollò il caldo, passeggiai fino a Campo de’ Fiori: pizzeria all’angolo, due al tavolo seduti di fronte, giovani puliti timidi e raggianti. Dritti sulle sedie, col menù, sfogliavano e si scambiavano opinioni, discretamente.
Lessi una dignità in quel gesto educato al cameriere: una felicità di esserci, intensa, stabilita.
Decisi che li avrei pensati sempre così, dritti sulle sedie col menù».

Gianluca D’Andrea
(Marzo 2016)

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Marco Belpoliti, “Primo Levi di fronte e di profilo”, Guanda, 2015

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Marco Belpoliti

di Daniele Greco

Leggendo Primo Levi di fronte e di profilo
(Marco Belpoliti, Guanda, 2015)

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«Primo Levi si è sempre opposto a chi leggeva le sue opere testimoniali, in particolare Se questo è un uomo, come opere letterarie: non è un romanzo, ripeteva. Ma al tempo stesso voleva essere uno scrittore, sapeva di esserlo» (p. 355).
Al centro esatto di quest’ultimo lavoro di Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015), si trova una considerazione decisiva per provare a guardare in modo corretto all’opera di uno degli scrittori che più di altri ha fatto comprendere il Novecento dei conflitti e di quell’abominevole esperimento che sono stato i lager nazisti.
Nelle oltre 700 pagine di cui si compone il libro, Belpoliti traccia uno degli studi più ricchi e completi sulla vicenda intellettuale e biografica di Levi analizzando una mole imponente di documenti: romanzi, racconti, poesie, fotografie, recensioni, bibliografie, interviste, letture, traduzioni, saggi, spogli lessicali delle singole opere.
Il ritratto che ne esce è quello del “poliedro-Levi” (p. 16), cui Belpoliti si dedica da decenni, rielaborando e riscrivendo molti dei suoi testi per consegnare, più che un saggio tradizionale, “un dizionario, un’enciclopedia (…), un’«opera aperta»” (p. 16) che il lettore può leggere liberamente.
Colui che nel 1948 pubblica con De Silva Se questo è un uomo, dopo l’iniziale rifiuto di Einaudi – l’editore che in quegli anni inseguiva la forma del romanzo – è un uomo della borghesia torinese, di ottime letture, che si è laureato in chimica nel 1941 e nel 1944 è stato deportato ad Auschwitz.
Il suo esordio – afferma Belpoliti – è scritto “in una lingua straniera” (p. 119), che eccede il mero valore testimoniale e sentimentale, di molti altri testi coevi sulla shoah, e rigetta i temi dell’innocenza o della colpa delle vittime, del sacrificio o della loro sacralità (p. 121). Lo sguardo di Levi è fin da quel momento quello dell’ “etologo”, dell’entomologo (p. 123), dello scienziato che scruta come l’animale-uomo abbia potuto concepire e realizzare la deportazione di milioni di suoi simili nei campi di concentramento.
Non è un caso, pertanto, se dopo la conclusione del dittico della guerra, avvenuto nel 1963 con La tregua, alcuni critici e lettori si sono sorpresi della scelta di Levi di pubblicare dei brevi racconti di argomento scientifico e fantascientifico. Storie naturali (firmato con lo pseudonimo di Damiano Malabaila), Vizio di forma, Il sistema periodico segnano un passaggio decisivo nella produzione di Levi, il quale vuole fare emergere le sue doti di scrittore e pensatore onnivoro, di chimico prestato alla letteratura o di scrittore prestato alla chimica.
L’elaborazione del proprio sistema intellettuale, la cui griglia interpretativa lo avrebbe portato a concepire uno dei libri più importanti per capire a fondo il XX secolo, I sommersi e i salvati (Einaudi, 1986), passa attraverso queste prose.
La ricerca di una “congiungente, un meticciato fra le mie due attività (di chimico e di scrittore)” (p. 253) è finalizzata a pubblicare, ne Il sistema periodico, dei racconti che hanno come titolo il nome degli elementi della tavola di Mendeleev e il cui pretesto della chimica, che è il linguaggio della materia, serve a indagare, attraverso la letteratura, qual è il linguaggio della vita.
Ecco come una rilettura de I sommersi e i salvati alla luce dell’intera produzione di Levi e del libro di Belpoliti consentono di cogliere come Levi soppesi, misuri, analizzi al microscopio la natura umana, tra l’aspetto emerso – razionale, sociale e umano – e il fondo sommerso – cieco, irrazionale e animalesco – che sono sempre inestricabili. Colui che si è sempre percepito autore ibrido, un centauro della letteratura, che ha cercato di riunire nei suoi lavori queste due sfere d’interesse, ha lasciato in eredità un modo nuovo di guardare alla realtà che è il cuore del libro di Belpoliti.
Quale migliore lascito dell’opera leviana, segnaliamo nel libro la sezione intitolata “Lemmi” in cui, alla fine di ciascun capitolo, si analizzano le parole-chiave dell’alfabeto leviano (Lager, Tedeschi, Treno, Fantascienza, Ibrido, Animali, Antisemitismo, Chiaro/oscuro, Zona grigia, Memoria, Suicidio…).
I “lemmi” sono la tavola periodica di Levi, ricostruita da Belpoliti, la mappa sulla quale inseguire la multiforme attività di un protagonista del Novecento al quale restituire la centralità che merita, quella di essere stato uno scrittore completo e di prima grandezza e troppo a lungo considerato solo un “testimone”.

Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Saul Bellow, “Il dono di Humboldt”, Rizzoli, 1976

di Daniele Greco

Saul Bellow, Il dono di Humboldt, Rizzoli, 1976

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Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Alice Munro, “Maschi e femmine”, da “Danza delle ombre felici”, Einaudi, 2013

di Daniele Greco

Alice Munro, “Maschi e femmine”, da Danza delle ombre felici, Einaudi, 2013

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Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Giovanni Arpino, “Azzurro tenebra”, Einaudi, 1977

di Daniele Greco

Giovanni Arpino, Azzurro tenebra, Einaudi, 1977

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Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Dario Bellezza, “Morte di Pasolini”, Milano, Mondadori, 1981

di Daniele Greco

Dario Bellezza, Morte di Pasolini, Milano, Mondadori, 1981

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Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Alain-Fournier, “Il grande Meaulnes”, Garzanti, 1981

di Daniele Greco

Alain-Fournier, Il grande Meaulnes, Garzanti, 1981

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Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Antonio Moresco, “Gli increati”, Mondadori, 2015

di Daniele Greco

Antonio Moresco, Gli increati, Mondadori, 2015

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