Diario – Primavera: 7) Nubi stupende al tramonto

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Ian Fisher, Atmosphere No. 24 (2010)

Quarto scherzo delle ariose vaghezze: Si dolce è’l tormento, SV 332 · Dorothee Oberlinger · Dmitry Sinkovsky · Claudio Monteverdi · Ensemble 1700

Diario – Primavera: 7) Nubi stupende al tramonto¹

Ed «è qui che inizia il futuro: nell’oblio, in ciò che è perduto» (J. Burnside, Glister), nella trappola che cinge l’uomo-massa, i corpi in trasformazione sono l’apertura al mondo, nel senso di un legame sempre più stretto, e per questo rischioso, tra uomo e natura o “naturantropico”. «Il corpo dell’uomo è sempre la metà possibile d’un atlante universale» diceva Foucault nel 1966 (Le parole e le cose), ma solo i due corpi uniti sono l’interezza del mondo.
Non è più possibile pensare in termini di soggetto e oggetto, in una visuale “dimezzata” che sminuisce il “climax” del rapporto, la sua intensità. Tra uomo e mondo nessuna separazione, allora, ma un unico corpo immerso nello stesso clima da cui dipende la nuova configurazione della terra.
Stiamo dentro questa riconfigurazione che plasma l’uomonatura, anche se procede nutrendosi «di una scura linfa avvelenata, nera ma con una traccia di verde livido al suo interno, un verde aspro e primordiale, come l’assenzio e il fiele» (J. Burnside, cit.).
Amara vita eppure amabile, possiamo ancora abbracciare i tuoi prodotti? Tra l’amplesso “vegetosessuale” raccontato da Luciano nella sua Storia vera e gli incroci “meccanici” di Crash, si conforma la vertigine d’ebbrezza delle pulsioni. La fantasia libidica in cerca di nuovi contatti conferma la necessità d’ebbrezza, appunto (l’oblio dell’inizio), la scomparsa da sé che scollega il desiderio dal fine. Nient’altro che un’inondazione che cancella i confini e potrebbe consolidare la consapevolezza dell’appartenenza:

Nubi stupende al tramonto, di splendore inondatemi, oppure inondate uomini e donne ———————————————————————————[di generazioni future!

(W. Whitman, Foglie d’erba)


Nota:
¹ Il titolo è estratto da un verso di Walt Whitman.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (9): DETRATTORE E TERREMOTO

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Calco de “Gli Amanti” (Casa pompeiana del Criptoportico)

di Gianluca D’Andrea

A un detrattore

Abbaia pur di continuo contro me
e continua pur sempre a provocarmi
con i tuoi ringhi ostinati.
Ho deciso di negarti totalmente
la fama che da tempo vai cercando,
cioè di esser letto nei miei libri
e per l’intero mondo,
tu, così insignificante come sei.
Perché qualcuno dovrebbe mai sapere
che sei esistito?
Muori dunque ignoto, o sciagurato!
In Roma tuttavia non mancheranno
forse uno o due o tre o quattro
che la pelle d’un can morder vorranno:
le unghie io tratterrò da questa rogna.

V. Marziale
Epigrammi, Libro V, LX (trad. A. Carbonetto)

*

LX

Adlatres licet usque nos et usque
Et gannitibus improbis lacessas,
Certun est hanc tibi pernegare famam,
Olim quam petis, in meis libellis
Qualiscumque legaris ut per orbem.
Nam te cur aliquis sciat fuisse?
Ignotus pereas, miser, necesse est.
Non derunt tamen hac in urbe forsan
Unus vel duo tresve quattuorve,
Pellem rodere qui velint caninam:
Nos hac a scabie tenemus ungues.

***

«Provare nostalgia per certi periodi è una buona cosa a condizione che sia un modo per instaurare un rapporto positivo e consapevole con il presente; se invece la nostalgia serve a motivare un atteggiamento aggressivo e di incomprensione nei confronti del presente, allora bisogna rifiutarla».

M. Foucault

Provavo nostalgia per alcuni fatti della mia infanzia – e infanzia è un periodo ampio quando cade addosso la necessità di ricordare, e come avviene la selezione? – quando il mio presente, e dico pochi giorni fa, mi scaglia contro un’immagine non vista ma suscitata dal racconto di mia moglie.
Il terremoto, caro detrattore, trema in tanti modi in noi, ma poco ci tocca se non siamo immersi nell’evento. Allora l’immagine senza volto della bimba che salva la sorella proteggendola dalla caduta dei gravi, cade nella mia memoria, calcifica in uno strato già presente – Elsa, Anna, mia figlia e il lieto fine – ma senza lieto fine perché senza fine (se escludiamo queste ultime parole e la mia fine).
È la storia che trema e poi s’immobilizza. Penso ai calchi di Pompei, a strisce di testimonianza lugubre, a un individuo romantico che perde il suo eroismo nel filtro di un ricordo non avuto.
L’immagine di una bambina senza volto, morta sotto il peso di un gesto – e la sorella vive e sorride, cosa sarà del peso? – si riproduce sotto il peso strisciante di parole che faccio mie, ma non mi appartengono.
L’ha scritto qualcun altro? Sì? Allora ridirlo non guasta, anche perché l’occasione potrebbe non ripresentarsi, caro detrattore, ma non è vero.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (3): FIGLI E NIPOTI DEL BENESSERE?

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Mario Martinelli, La danza dell’ombra (particolare, 1996) ©. (Fonte: mariomartinelli.it)

di Gianluca D’Andrea

La mia generazione è figlia di quel benessere, quella parentesi della storia che va dal secondo dopoguerra alla fine del XX secolo. 1976: l’anno dell’eutanasia, anno del drago – MAO -, Cina coinvolta nell’occidentalizzazione del mondo. Non esiste “occaso”, andiamo fuori dai nomi, esiste un segnale di distruzione – “distruzione della distruzione”, ancora Heidegger – un complotto, una “complicità” negli stessi interessi tra le nazioni del complotto. Dall’autodifesa al modello, lo “stile” di vita – quale “stile” di vita? quale “nuova” illusione? Questo ci ha lasciato la “guerra fredda”.
La mia generazione è passata da quest’infanzia “fredda” – ma poi gli anni ’90, dopo il disgelo si ri-produce un conflitto “caldo” nel seno dell’Europa, anzi a causa del “dis-gelo”. La Jugoslavia doveva frantumarsi, un piccolo dinosauro comunista, spartiacque necessario, meglio se sbriciolato, perché facilmente indirizzabile all’occaso. L’ideologia della caduta, occidente è l’occasione perduta dall’uomo per dimenticare la dimensione dialettica del superamento dell’Altro; la speranza dissolta di un adattamento irraggiungibile al contesto, alla terra – allora, costante ri-creazione nel mondo.
La mia generazione non si è mai svegliata dal sogno estivo di una pace che dirottava ogni conflitto fuori dall’occaso. L’occasione dell’abbraccio globale sotto la bandiera dell’occaso ha aperto il desiderio di un sonno artificiale, perpetuamente pacifico, poco prima di un “nuovo inizio” che prende avvio dalla “distruzione” del “vecchio” uomo (ancora Nietzsche, Kierkegaard, Heidegger).
Non ci sarà l’abbraccio di un contatto auspicato da alcuni – la carezza di Nancy – ma l’affermazione di un “dispositivo” della dimenticanza (Foucault, Deleuze, Agamben), una metafisica esponenziale, cioè un oblio nella presenza.
«La vita è una cosa pubblica» (J. Conrad, Con gli occhi dell’occidente), se è così – ed è così – occorre esercitarsi a comporre una strategia del nascondimento. Forse siamo impegnati in uno sdoppiamento – e anche più. Più identità che difendono un’intimità sempre più a rischio. L’identità pubblica esaspera la sua esposizione e lascia in ombra la zona, il nucleo intimo che gode nel suo essere nascosto, l’angolo riservato eppure ricco di finestre da cui affacciarsi a piacimento. Ma sappiamo che il tipo di voyerismo che ci illude dell’autonomia nella scelta, ricade nel controllo di chi costruisce comandi, in un gioco molteplice di scatole cinesi. Si è già consolidata una gerarchia di potere – non un panopticon, ma un intreccio di occhi: la visione è così ampia eppure ristretta al controllo e alla manipolazione dei dati, o meglio degli accessi, degli “affacci”. Capito questo, occorre fingere e manipolare la propria finzione. Dimensione frustrante ma unica per mantenere autocontrollo in un contesto di controllo rivestito di angoscia, attivata nello spaccio della sicurezza. L’applicazione della sicurezza.

Collage Invernale – La libertà si fa Mondo

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: Michel Foucault, Il sogno, Raffaello Cortina, 2003

Scartafaccio – Gli orfani

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Lu Xinjian, City DNA –  The Triumph of New York (2009)

In occasione delle festività natalizie, ripropongo alcune riflessioni, apparse in altri tempi e luoghi, su letteratura, società, ecc.. Un oroscopo, uno Scartafaccio. Buone feste e buone riflessioni.

Gianluca D’Andrea


Scartafaccio – GLI ORFANI

“La distinzione tra somiglianza e similitudine” disse, ma non trovò risposta se non labirinti di strade e reticolati, accostamenti che non sottesero nulla. Si fermò sul foglio bianco, non generò più, dopo aver stabilito che non esiste scelta quando bene e male diventano intercambiabili.

“Il male in natura – parto da Foucault, Questo non è una pipa – è un’evidenza imprescindibile e non rimanda ad alcuna rappresentazione”, l’altro si scosse intimamente, manifestando uno sconcerto inerte, i tratti del viso immobili.

“Guadagno tanto per mantenere gli standard e una famiglia disgregata, i miei viaggi sono frequentissimi, i miei ricordi meno”.

Il mistero si esprime in simboli, i patriarchi conoscevano le masse come le dittature patriarcali strumentalizzano simboli di comodo basati sulla spiritualità paternale.

“Ho perso mio padre da tempo, lo strumento di un dio nascosto”; un figlio scende dalla croce e cerca il padre, si fa padre nell’ultima tentazione, definitiva.

La somiglianza è la scelta di una presenza che si ottiene dalla consapevolezza fantasmatica del padre.

“La memoria è questo fantasma che si concretizza e attende di realizzarsi. Il compito è la scelta di questa realizzazione, un’altra somiglianza, un’altra rappresentazione simbolica dopo la scomparsa del padre”.

Chiusi dalla desolazione del loro mondo individuo, i personaggi riappaiono e dialogano di forme capovolte.

L’OMBRA DELLA DIMORA: “La nudità” di Stelvio Di Spigno, peQuod, Ancona 2010

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Spencer Tunick ©, Dead Sea 6, 2011 (Fonte: Spencer Tunick site)

Prima della pubblicazione della mia riflessione sull’ultimo libro di Stelvio Di Spigno, Fermata del tempo (Marcos y Marcos, 2015), ripropongo la recensione alla raccolta che precede, con l’obiettivo di rendere più esauriente l’analisi dell’opera del poeta napoletano.


L’OMBRA DELLA DIMORA: La nudità di Stelvio Di Spigno, peQuod, Ancona 2010

«Il sogno è il mondo all’aurora della sua piena esplosione, quando esso è ancora l’esistenza stessa e non è ancora l’universo dell’oggettività».

Michel Foucault

nuditàL’assenza di un luogo conosciuto, l’angoscia che nasce quando un viaggio non può concludersi nel ritorno, sono le metafore “reali” che colpiscono chi fa esperienza di creazione linguistica da sempre.
Il paesaggio desolato di una coscienza senza patria, le difficoltà di un “precariato” psicologico in cerca di una nuova sistemazione nel mondo frammentato della postmodernità sono i nuclei tematici della raccolta La nudità del poeta napoletano Stelvio Di Spigno. Il linguaggio si spoglia di ogni retorica e si fa narrazione del cammino senza approdo di un “io” mascherato del mondo, che si sforza di sentirsi integrato nonostante il contatto con esso lo risospinga centripetamente in sé, nel suo desiderio sotterraneo di una dimora “umanamente” accogliente. Per spiegarmi faccio subito riferimento ad alcuni versi: «Per ascoltare le parole che si dicono nel sonno / dovremo puntare la nostra vecchia barca / dove la casa si fonde con l’Antartico e minaccia / che non vuole accettare questo freddo, / il puro freddo di restare disumani / dopo che ci si è spento tra le mani/ un sogno enorme e vago di noi stessi, senza esplodere» (Fiore di notte, p. 15, vv. 1-7).
Il tentativo anti-nostalgico, anti-elegiaco potremmo dire, è espresso nella necessità ineluttabile dell’agnizione, ecco perché la metafora del sogno non esploso rappresenta l’unica realtà in un mondo disumanizzato. L’innocenza del finale («Ma se ci sveglieremo, in un giorno frainteso, / avremo di nuovo i nostri anni / e come giovani stanchi o vecchi imbambolati / vivremo per sempre innocenti», ibid., vv. 12-15) appare come un barlume flebilissimo del risveglio anestetizzato di chi ha, nel frattempo, vissuto nella protezione del benessere.
Si spiega la scelta del verso lungo nella parentela strettissima di questa posizione antilirica con una prosa discorsiva, desiderante il dialogo nonostante la sfiducia nell’interlocutore.
La tematica della “casa” diventa quasi martellante nella poesia Le due di mattina (p. 31, non per caso il testo che apre la sezione Familiari) in cui il crollo della dimensione dell’abitare si preannuncia in funzione, ancora una volta, di una mutazione antropologica che ci costringe all’accettazione del nostro essere banale, qualunque e, per ciò stesso, comune: «Schiarisciti la mente perché se guardi la mia casa / ci trovi solo uccelli che schivano l’aria dall’interno / e senza più ragnatele e radio d’anteguerra / sembra proprio una casa qualunque e indolore» (ibid., vv. 1-4). L’ammonimento rivolto al lettore pone l’accento sulla sfiducia sostanziale che guida la riflessione in scrittura di Di Spigno, un male esistenziale – di origine novecentesca – che non lascia tregua: «non si sogna e non si dorme per un frastuono / di finestre sbattute che martellano il solaio» (ibid., vv. 6-7), e si esplica in un finale che non apre speranze neanche “ai pochi rimasti” che hanno soltanto la coscienza illusoria «…di non pensare / che crollata una casa anche le altre/ non tarderanno troppo a imitarla» (ibid., vv. 17-19).
Il senso della fine avvenuta, che attraversa l’intera raccolta, rifrange continuamente la spinta a una soluzione che sia rinascita e la blocca nell’indecisione e nell’ambivalenza, rifluendo nel malessere a cui si è accennato.
La poesia dedicata al padre rappresenta il sintomo del movimento appena descritto: l’avvicinamento alla figura familiare, pur non perdendo il suo connotato di trasmissione generazionale, è dislocato in un ricordo che si articola nei tre momenti – le tre strofe – che, dalla mitologia dell’imperfetto verbale dell’incipit, che appartiene alla comprensione del soggetto (il figlio-poeta), si sposta al presente di un dialogo che, non realizzandosi, si presume nella separazione delle trasformazioni di entrambi; l’ultima strofa, infine, presenta la fantasmizzazione della figura genitoriale, il misconoscimento che la allontana nel passato fino a farla sfumare nella possibilità che la relazione non sia mai stata, ribadendo una lontananza insanabile: «così lontano da casa da non sapere dove / ci siamo mai visti, conosciuti o rinfacciati, / se fossimo mai nati e se è vero che eravamo» (Dissolvimento, p. 34, vv. 9-11).
L’impossibilità di un avvicinamento relazionale impregna tutti i componimenti a seguire. In Informale (p. 35) leggiamo: «Perché di voi resti il ricordo e tra tutte le mancanze / si mantenga un amore invischiato eppure grande / che ancora esiste e non morirà di voi» (ibid., vv. 16-18), che i referenti siano i familiari o i lettori in generale non fa differenza, rimane l’atteggiamento di Di Spigno a lavorare sulla scarnificazione del proprio essere nel mondo (La nudità è il titolo della raccolta, teniamolo sempre a mente) e sull’irraggiungibilità del medesimo.
Probabilmente la constatazione di questa irraggiungibilità è l’unica possibilità di ri-scoperta della propria necessità, il percorso di crescita che lascia il soggetto poetico solo con la sua scelta che tenta di farsi definitiva. Così nelle tre poesie che concludono la sezione possiamo individuare, in una consecutività che non lascia scampo, questa tematica espressa nei versi: «Concluderò che stare al mondo è lasciarsi acconsentire/ confiscarti in un luogo che sarà per sempre quello» (Aspettative, p. 36, vv. 20-21); «e cosa significhi il mondo, mentre noi che ci abitiamo, / non possiamo capirlo e neanche ignorarlo» (Escursione, 1978, p. 38, vv. 14-16); «protetto dal mondo e dalla mondovisione/ senza scale da salire né niente da promettere, / solo una tavola apparecchiata con povertà e grandezza / di chi vive senza sapere come né perché / contento di aver visto la luce un altro giorno / e che un altro giorno la luce si sia accesa di sera» (Pibe de oro, p. 39, vv. 5-10).
Il mondo appare in filigrana, sotto la luce di una rassegnazione che combatte costantemente con desideri di rivalsa rispetto ad una definitiva accettazione. La sezione Lo specchio di Dite si annuncia sotto il segno di una speranza di conoscenza più perfetta; la citazione da S. Paolo in apertura ci comunica questa aspirazione e, in tal modo, ribadisce quanto sopra esposto. L’ampia confessione, che tutto il libro sembra rappresentare, in questa sezione ottiene i risultati più lampanti. Sempre sotto il segno dell’ambivalenza, allora, sento l’occorrenza di riportare per intero il componimento più indicativo e riuscito della raccolta:

Animazione

La stanchezza di pensare è come il morbido
di questo cuscino, che è anche un cedimento di lenzuola,
un tradimento di se stessi, perché si è troppo calmi
e io questo di certo non lo voglio: la mia giornata
è clonarmi in tutto, sentirmi in chiunque, parlare lingue strane
per fare due più due con chi entra in un bar
e se due più due per me fa sempre cinque, io divento
la madre nel parco, l’uomo che va in barca,
la sera quando scende a scadenza del tempo:
chissà cosa prova la sera quando scende, ma poi
non è vero che scende: cambia colore, toglie la luce,
ma non è altro che noi che la guardiamo.

Non ho nessuna pelle e assomiglio a tutto,
eppure cerco qualcosa che sia io: una pietra o un’idea,
un essere indifeso per essere sicuro che così
lo si ama. Le parole, quelle sane, lasciamole al sudore
di chi un’identità l’ha già trovata, magari tra i bagagli
in un aereo che dia diritto a una vita sola.

Bella la parola identità, ma chi ne ha colto il frutto,
povero figlio di te stesso, se lo tiene per sé:
stanne certo come il sangue dei lupi.

(p. 44)

Quando il dubbio identitario corrisponde a una fuga più che a un percorso ininterrotto, ecco giungere una meta che si spera definitiva: «ma questa casa è così immaginaria/ da non poter dire con che mente svuotata / esco dall’auto senza più un desiderio / e mi consegno soltanto a me stesso, / a una solitudine ignota ma molto più grande» (Meta, p. 47, vv. 10-14).
La fine della fuga fa i conti con la quotidianità e il rimpianto che anticipa il domani ribadisce l’ambivalenza:

Continuità

Ripassando per una strada un tempo amata e conosciuta
con amici come glia altri che in quella stessa strada
davano al mondo una figura ordinata,
un viso concluso sotto un tunnel di ricordi,

vedendo un uomo che ti filtra con lo sguardo
quasi del colore della ringhiera di casa,
puoi non chiederti se il tempo è passato davvero
e il povero cielo vede qualcosa di nuovo,

ma di te puoi pensare che un altro giorno è compiuto
che davvero c’è una gru gialla che sposta materiali
che se la notte è oscura è perché nessuno la guarda
che c’è l’asfalto dove l’auto inciampa sempre.

Ma di certo non sai cosa rimpiangerà domani
questo vivere ancora e per sempre,
e come sei diventato il guardiano di un oceano
in uno spazio perduto e lontano
dove pochi verranno a disturbarti
e chi ti cerca non sarà un amico.

(p.55)

Nella penultima sezione, La vita in lontananza, la dimensione della dimora, la sua ricerca, si distanzia e prende la figura di un soggetto cui, nel pieno isolamento, non resta che osservare il mondo nella consapevolezza di non poterne partecipare le manifestazioni più comuni. In questo allontanamento sembra trapelare un’incomprensione del proprio tempo che sfocia in un rifugio nel tempo assoluto del ricordo.
L’altezza monocorde, inoltre – ribadita dalla scelta di una forma per lo più uguale a se stessa, tre, quattro strofe composte da versi lunghi che raccontano sempre il medesimo tema –, si riconosce separata «tra gente che non parla la mia lingua […]» (Invarianza, p. 67, v. 13).
In conclusione è sottolineato definitivamente il distacco: Milano diventa metonimia della società capitalistico-occidentale, i “colleghi” scrittori, i poeti, sono ridotti al niente di cui ognuno è presupposto. Questa “nientificazione” di stampo moralistico, però, non possiede alcuna verve che riconduca ad una fuoriuscita, ad una risposta che tenti di sciogliere i nodi del fare nel nostro mondo annichilito. Se muore la relazione, resta il nichilismo indifferente ad ogni dolore, e la desolazione, riempita di sé, rischia uno sterile solipsismo.
Una poesia del 1830 ci ricorda la nostra precarietà e lo slancio per ciò, che pur essendo caduco, è la nostra unica possibilità:

Mal’aria

Amo questo divino sdegno, questo celato,
questo segreto Male, presente in ogni cosa:
nei fiori, nella fonte diafana come vetro,
negli iridati raggi, fin nel cielo di Roma.
Lo stesso firmamento sgombro di nubi, eccelso,
e parimenti il petto leggero e dolce spira,
lo stesso vento caldo che dondola le cime,
lo stesso odor di rose: e tutto questo è Morte!…

E chi potrebbe mai dirlo, nella natura
forse v’hanno profumi, colori, suoni e voci
che sono annunciatori per noi dell’ora estrema
e fanno men crudele la nostra ultima pena.
Con essi del Destino l’inviato fatale,
i figli della Terra dalla vita evocando,
come di lieve trama si ricopre la faccia
ed a loro nasconde l’orrenda sua venuta!

(Fëdor Tjutčev, Poesie, Adelphi, Milano 2011, trad. di T. Landolfi, p. 33).

Spero vivamente che il sobrio narrare in versi di Di Spigno, ricco di sapienza e umile moderazione, riesca a ritrovare la strada che sente il contatto col mondo, per continuare ad ascoltare una delle voci più vibranti della poesia italiana contemporanea.

Gianluca D’Andrea
(Febbraio – Marzo 2012)