Dall’inizio – Ultima puntata sull’EstroVerso

Sull’EstroVerso l’ultima puntata della rubrica che ho curato per 2 anni e 8 mesi con Gabriel Del Sarto. È stato un viaggio lungo ma prezioso, così bello che non può finire qui. Ad maiora! Dall’inizio, sempre. Di seguito i nostri ringraziamenti e l’arrivederci ai lettori.

Il più grande abbraccio a Grazia Calanna perché non esiste ospitalità più ospitale della sua.


Attrazione, ancora

Ma dimmi, chi sono, questi girovaghi, questi anche un po’
più fuggitivi di noi…

Rilke

Giunti alla fine del viaggio, ci auguriamo che la riflessione aperta dalla rubrica “Dall’inizio” abbia stimolato e possa continuare a farlo, l’urgenza di riconciliazione tra parola della poesia e mondo. Se con “mondo” s’intende lo spazio liminare di cui il testo necessita per creare nuovi spiragli di senso, allora in gioco sarà la capacità ri-creativa sempre fondante della poesia. Per questo, speriamo che tra “apertura” e “chiusura”, inevitabili nello sforzo autointerpretativo degli autori coinvolti, sia trapelata l’urgenza di trasmissione della parola, la sua tradizione: la “consegna” originaria, cioè, della scelta, con tutto il carico di ambiguità che comporta fino al rischio estremo del tradimento del senso.
Mantenere alto il livello di attenzione e custodia, allora, perché questa consegna continui a essere sempre “dall’inizio” e perché, come ci suggerisce Carmen Gallo al termine del suo intervento, «occorre ridere o piangere, […] restare in movimento».
Ringraziamo tutti gli autori (Vito BonitoGiovanna FreneMaria Grazia CalandroneFederico ItalianoFilippo DavoliAndrea De AlbertiVincenzo FrungilloLaura PugnoLuciano NeriMarilena RendaItalo TestaFrancesca SerragnoliTiziana Cera RoscoMarco GiovenaleFrancesca MatteoniGilda PolicastroAndrea IngleseMassimo GezziAzzurra D’AgostinoTommaso Di DioDavide BrulloLaura LiberaleRenata MorresiMatteo PellitiMarco SimonelliLorenzo MariDavide Castiglione, Bernardo De LucaMaria Borio, Carmen Gallo) che hanno partecipato alla rassegna e nel dire arrivederci ai lettori li ripresentiamo in ordine di apparizione, come viatico per quei “nuovi inizi” da loro raccontati che invitano a un ritorno, a «non fermarsi […] (non per sempre)».

Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto

Visite allo zoo/8: Gianluca D’Andrea

Oggi su LE PAROLE E LE COSE² Massimo Gezzi mi fa alcune domande su insegnamento e poesia, insegnamento della poesia con tutte le difficoltà (e la bellezza) che comporta.


a cura di Massimo Gezzi

[Ottava apparizione per “Visite allo zoo”, la rubrica a cura di Massimo Gezzi costituita da una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione. Dopo Fabio Pusterla, Francesco TarghettaMarco Balzano, Marilena RendaGian Mario Villalta, Paolo Febbraro e Tommaso Di Dio, oggi risponde Gianluca D’Andrea].

1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?

Ho un contratto a tempo indeterminato dal 2014, dopo l’iter, per la mia generazione tristemente convenzionale, del precariato, durato 10 anni in giro per la penisola (nello specifico Sicilia e Lombardia, con una tappa intermedia a Firenze). Ho sempre lavorato alle scuole medie alternando Lettere e Sostegno. Adesso insegno stabilmente Lettere in una scuola media a Treviglio in provincia di Bergamo.

2) Ho intitolato un contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in un zoo?

Inizio dalla fine: l’immagine dello zoo per me è “limitante”, fa pensare a gabbie, recinti, zone di clausura. Vero, esiste la questione dell’obbligo, della burocrazia, delle programmazioni, eppure ho sempre percepito la scuola come un passaggio, un attraversamento. Mantenendo una certa aderenza con la tua metafora, allora penserei a un safari, in cui ognuno di noi, senza troppe distinzioni tra alunni e docenti, può accumulare istantanee e provare a elaborare un percorso di crescita. Io, poi, parto da esperienze diverse rispetto alla maggior parte degli autori che hanno già risposto a queste domande (solo Marilena Renda, ha avuto esperienze simili durante gli anni di precariato). Insegnando alle medie, la poesia non ha un ruolo preponderante come nelle programmazioni liceali, anche se in prima con l’Epica e in seconda e terza con i primi approcci alla Letteratura, chiaramente affrontiamo la questione. La dominante con i ragazzini dai 10-11 ai 13-14 anni che si avvicinano alla poesia dopo le esperienze per lo più mnemoniche delle filastrocche elementari, è quella emozionale e questa, per quanto mi riguarda, è una fortuna. In prima media, siamo ancora abbastanza liberi dai pregiudizi sul genere, quindi è relativamente facile impostare il lavoro sulla poesia partendo dalle sensazioni prodotte dal testo nudo e crudo e solo dopo arrivare anche agli aspetti tecnici e alla storia dell’autore che l’ha composto. Quando parlo di emozione, parto da ciò che vedo, le reazioni dei ragazzi, che vivono l’esperienza come un movimento che li porta verso l’esterno, un’alterità inesplorata che la prosa non riesce a suscitare, perché, a detta loro, li “immedesima” nella storia, in qualcosa che riconoscono. In poche parole, la poesia li disorienta e li sorprende (solo due generi che affrontiamo in Antologia hanno questa capacità estraniante e “tensiva”: l’horror e la fantascienza). Chiaramente è una constatazione di massima, è ovvio, infatti, che non tutti possono avere la stessa attenzione o sensibilità, per motivi che esulano la didattica e spesso sono  dettati da disagio sociale, psicologico, ecc. La maggior parte del mio precariato l’ho vissuto in scuole di “frontiera”, in periferie urbane dissestate, al sud e al nord del paese senza distinzione, probabilmente ho imparato in questi ambienti la grande necessità di relazione e trasmissione che condiziona ogni linguaggio, poesia compresa.

Forse ho un po’ travisato il senso della tua domanda, credo però che la custodia cui ti riferisci non sia sufficiente, non salvaguardiamo semplicemente una tradizione ma la rimettiamo in circolo, provando a indirizzarne il flusso. Mi sembra necessario correre questo rischio.

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ROCKY O DEL MOLTEPLICE INDIVIDUALE – Full Version

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Statua di Rocky Balboa (particolare) – DavidFloresMedia

di Gianluca D’Andrea

ROCKY O DEL MOLTEPLICE INDIVIDUALE (UN RACCONTO) – Full Version

(1ª parte)

Lo spazio aperto di cui si rifletteva nell’ultima LETTURA è il residuo di un’assenza. Assenza che storicamente le generazioni nate nel secondo dopoguerra hanno ricevuto in eredità e che ha portato a un disorientamento identitario che segna ancora le nostre vite in questo primo scorcio di XXI secolo.
«Nei pressi di… trovata la Lambretta», così inizia Il disperso di Maurizio Cucchi (1945): anno 1976 e nessun luogo, il nowhere dell’indistinzione in un libro il cui stilema ricorrente è l’aposiopesi, cioè l’interruzione costante del discorso, la sospensione di un senso percepibile solo attraverso la reticenza, attraverso la costatazione del vuoto e la relativa attesa. Trasloco, che non avviene, da una casa ormai ridotta in macerie a un’altra inesistente e che non indica approdi o appartenenze, «se mi guardi bene sto già pensando / al giorno non lontano in cui dovrò sgomberare la mia roba di qui / per portare tutto nell’altra casa» e poi «lo spettro / della solitudine ormai doppia (non mia)…» (Il disperso, 1976). Ma gli esempi di questo vuoto impotente potrebbero moltiplicarsi, tante le situazioni di ripercorrenza per accumulo di un passato che si vuole mantenere vivo, perché a rischio di estinzione («Tutto, tutto, / tutto potrà servire chi lo sa», ivi., in cui l’epizeusi ha funzione sì di rinforzo, ma conclude anche un contesto in cui l’accumulo per asindeto dei più svariati oggetti ha quasi funzione apotropaica rispetto al vuoto incombente – e infatti poco prima «niente – niente va mai sciupato»).
Vuoto e accumulo sono i due termini che chiudono il decennio degli anni Settanta e preavvisano il “reaganismo” degli Ottanta. In Italia, colonia statunitense di prim’ordine, il “reaganismo” d’accatto traduce il vuoto in una rincorsa selvaggia ai consumi dopo l’austerity. La conclusione (?) della “strategia della tensione” (la strage di Bologna, ahimè, inaugura il decennio) che aveva prodotto un maggiore isolamento in coscienze ancora ferite e basculanti tra il ricordo di una separazione conflittuale (ereditato dal secondo conflitto mondiale) e il consolidamento di una democrazia ancora impraticabile per la mancanza di una bipartizione effettiva dei poteri. Il ricordo della separazione (fascismo vs comunismo e inserzione capitalistica di matrice statunitense) s’intensifica nelle strategie del terrore che gli anni di piombo riportano alla ribalta, esacerbando ma anche “fossilizzando” le questioni politiche, cosicché il cittadino comune poteva proiettarsi nel desiderio di consumo che spegneva le coscienze in un individualismo edonista e a-critico. L’intensificazione degli attriti, poi, nella prima metà degli anni Ottanta tra Stati Uniti e Urss contribuisce alla pietrificazione delle coscienze in un solipsismo scoraggiato, per cui l’individuo diventa “centrale” per opporsi in modo paradigmatico a un “collettivismo” presentato come il male supremo, con tutti i suoi automatismi. L’individuo allora è sì centrale, ma per essere schiacciato in una morsa di controllo e imposizioni da matrici ideologiche diverse solo nella fabbricazione e nell’impiego di nuovi prodotti.
La fase estrema di un imperialismo su base industriale in Italia produce senso di attesa, come già era evidente ne Il disperso di Cucchi. Gli anni Ottanta, in poesia, sono inaugurati da Ora serrata retinae (1980) di Valerio Magrelli (1957), dove emerge una visuale congelata e focalizzata sui dati della coscienza (auto-coscienza tentata attraverso una poesia referto, un’auscultazione), che produce ancora attesa, emersione di un “nuovo” non ancora identificabile: «Ora bisogna liberare il suolo, curarlo, coltivarlo ed attendere / con affettuosa cautela nuove piante. / Ora si dovrà preparare un nuovo incendio» (Ora serrata retinae, 1980). Forse quello d’esordio di Magrelli è un libro sorprendente proprio per questa volontà di ricostruzione che prende avvio dal “vuoto dei padri” (un po’ come in Cucchi), ma che non sembra avere sviluppo – non si esce dall’individuo nella sua dispersione, non si esce dal “dopo la lirica”, e per questo nella rincorsa all’identità, Magrelli ricorre alla figura del fantasma (quello del padre, ad esempio in Geologia di un padre del 2013): «il fantasma di cui sono il lenzuolo» (Geologia di un padre, 2013). Le operazioni successive di Magrelli, confermano uno stile fondato sulla paura che ogni movimento del soggetto nel reale possa provocare uno spostamento irrimediabile, una “distopia” negativa, forse giustificata dal ricordo di un passato tremendo che potrebbe essere ri-attivato in ogni istante (banalità del male), per cui a prodursi è un pessimismo che si proietta sul futuro e da cui non è possibile intravedere una strategia di fuoriuscita (pessimismo poi corroborato dalla stagnazione dell’attesa). Sarà preferibile, allora, una vita “vicaria”? una vita vissuta da un sostituto (che nasconde l’identità o in cui è proiettata una necessità di contatto?). Una vice-vita senza storia, in attesa, appunto: «che la forma di ogni produzione / implichi effrazione, scissione, un addio / e la storia sia l’atto del combùrere / e la Terra una tenera catasta di legname / messa a asciugare al sole» (Esercizi di tiptologia, 1992).

(2ª parte)

La storia, l’altro versante relazionale del racconto. I grandi cicli hollywoodiani sviluppati tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento evidenziano fino alla trasfigurazione proprio il rapporto tra individuo e storia, concentrandosi su figure eroiche (neo-epiche, da qui la produzione in serie, la saga) che rispondano alla necessità di uscire dall’impasse di sfiducia e immobilismo politico negli Stati Uniti dell’epoca. Dopo la sconfitta in Vietnam e la relativa depressione e recessione economica, anche Hollywood è invischiata nella crisi – anche a causa della concorrenza della televisione – e cerca di riattivarsi lasciando spazio all’autonomia di nuove figure – registi, sceneggiatori, attori – che porterà da una parte al cinema d’intrattenimento (azione, fantascienza) in cui eroi positivi ristabiliscono l’ordine seguendo il modello della favola (lieto fine edificante), la cui morale risiede nelle capacità risolutive, appunto, di un protagonista “predisposto” al bene (ma quale bene? Rocky e Star Wars seguono questo cliché); dall’altra, al cinema di denuncia (negli anni Ottanta fioriscono le pellicole ispirate al conflitto vietnamita), in cui a emergere è la figura di un antieroe, per lo più un reduce, caratterizzato infatti da sfiducia nella storia, vissuta in prima persona con tutta la sua violenza (Apocalypse Now, Platoon, Nato il quattro luglio, ecc., fino al decisivo Full Metal Jacket, tutti in contrasto con l’ottimismo del soldato permanente Rambo, la macchina da guerra).
Ma è la figura di Rocky che, a mio avviso, merita particolare attenzione, perché più universale e facilmente svincolabile dalle contingenze storiche dell’epoca (nel 2015, infatti, è stato presentato uno spin-off, Creed – Nato per combattere che tende a rinnovare la mitologia del pugile di origini italiane per le nuove generazioni, soprattutto il nuovo sottoproletariato afro-americano).
Il primo film della serie esce nel 1976 con un budget ristretto e grazie all’intraprendenza di un Sylvester Stallone ancora lontanissimo dal diventare il simbolo politico di una nuova America (forse il divo che più verrà invitato da Reagan alla Casa Bianca). In Rocky si narra, è noto a tutti, dell’ascesa di un pugile sconosciuto ai vertici della boxe mondiale, dovuta al caso (o alla capacità, prerogativa statunitense, di dare opportunità a tutti gli outsider?). In primo luogo quindi si gioca sul modello patriottico-fondativo dell’individuo comune che, se posto nelle condizioni adatte (per lo più la libertà d’azione), può diventare decisivo. Il fatto che dal primo episodio si sviluppi una saga è sicuramente dovuto alle necessità d’immedesimazione del cittadino medio a una sorte che ne riscatta l’esistenza. Sorte – o malasorte costituente? – che lo vede sempre al margine per colpa di un mondo inospitale o, che è peggio, di una società che non ne apprezza le doti. Considerate retrospettivamente le allora incipienti derive edonistiche, in cui la necessità di protagonismo di un individuo relegato ai margini dalla storia si trasforma nell’imposizione personale a tutti i costi, allora la vicenda di Rocky diviene ancora più rappresentativa del cambiamento in atto, e non solo negli Stati Uniti.
Come Churchill aveva previsto all’alba della Guerra Fredda, occorreva lasciare che il mondo sovietico avesse accesso, da spettatore, al sistema di vita occidentale. Solo questo, secondo lo statista britannico, sarebbe bastato a incrinarne la struttura, senza correre il rischio di un conflitto frontale (la storia, sappiamo, darà ragione a questa visione, nonostante i focolai periodici che rappresentarono il rischio di un conflitto globale). Modello di vita occidentale studiato e ottimamente interpretato da Reagan e dal suo entourage. Reagan, ricordiamolo, guardava film quotidianamente (esiste una lista delle sue visioni cinematografiche all’epoca della presidenza) ed era particolarmente aggiornato sulle nuove “tendenze” hollywoodiane, il che comportava una certa scioltezza nel mettere in risalto le sue predilezioni a scopo propagandistico.
Il modello “agonistico” e personalizzante/spersonalizzante ben rappresentato da Rocky, avrà buon gioco a imporsi su coscienze preparate a questo innesto grazie alla diffusione di nuovi format televisivi, uno su tutti il videoclip. Questa, che potremmo definire con un mostro linguistico “televisionizzazione” del cinema, non solo vivificherà l’industria cinematografica statunitense, ma diventerà la vera arma per sconfiggere “l’impero del male” sovietico e farlo implodere su se stesso, rendendo manifesta la possibilità di un nuovo racconto edificante in cui l’individuo libero (mai solo, bensì supportato da una comunità di cui è portavoce) decide il proprio cammino, il tutto nella riprova demistificante di un collettivismo livellante (ricordiamo, en passant, che nel quarto capitolo della saga di Rocky il mondo sovietico è “messo in scena” in maniera fumettistica, come “automatizzato”).

(3ª parte)

A essere in gioco nel contrasto tra il modello occidentale e quello sovietico è il futuro della capacità relazionale tra io e mondo.
In quella propaggine statunitense che è l’Italia del secondo dopoguerra, alcune voci poetiche avvertono la necessità di riattivare un contatto con la storia attraverso il ricordo che, per quanto personale, non si limiti a ovviare alla scomparsa “identitaria” – che, abbiamo visto, aveva radici nel secondo conflitto. Attraverso la refertazione psichica di una presenza “soggettiva” in deficit, il contatto non dovrà essere circoscritto al primo termine della relazione, l’io, ma avrà necessità di transitare al secondo elemento: il mondo, l’altro che “ditta” dentro, in modo che la stessa identità potesse essere frutto di un’alterazione fondante, riconosciuta con una diversa umiltà.
Non si trattava di rassegnarsi semplicemente alla “scomparsa” del “vecchio” individuo, ma di rispondere alla “perdita” di una comunità reale e al mondo etico di riferimento: «Qualcosa di solido e mondo soltanto / La pagina dura che appare svoltando / Dietro una casa di pietre. / Solo in quella, e concedersi / Per sottrazione, senza lasciarsi / Cadere al profilo» (F. Buffoni, Il profilo del Rosa, 2000). In questi versi di Franco Buffoni (1948) è possibile intravedere il principio di un nuovo racconto che non ha per protagonista un io inteso come epifenomeno della dispersione (o del disorientamento) e, di conseguenza, ossessiva mancanza, quanto un io consapevole di questa “assenza” necessaria a riformulare un’appartenenza (un rapporto col mondo, per quanto agonistico e non pacificato) attraverso un ritorno “memoriale” ai luoghi primevi dell’identità, alla “sua” storia. Allora, la storia stessa non è più soltanto una gabbia conchiusa in scissioni ideologiche, anche perché nell’operazione di Buffoni non emerge un io “forte”, né, d’altro canto, l’abbandono al collettivo (al grande “Altro” di lacaniana memoria) e che, nel periodo precedente la caduta del regime sovietico, coincideva con una cultura di massa repressa o inglobata in un gioco di specchi illusori (i vari schermi, dal televisivo al cinematografico, ecc.).
Il riferimento al Buffoni de Il profilo del Rosa, sembra d’obbligo perché il messaggio contenuto nel libro fa da spartiacque tra la “scomparsa” dell’uomo secondo-novecentesco e una sua plausibile riappropriazione del passato e, abbiamo visto della storia, attraverso la memoria.
Il giro perpetuo della fine, coinvolge altri poeti preoccupati dal senso della scomparsa identitaria che aleggia da circa mezzo secolo sul mondo occidentale (e che nell’attualità di chi scrive ha raggiunto fattezze spettrali che non permettono di stabilire il margine tra presenza e assenza). Uno di questi poeti è Fabio Pusterla (1957), la cui opera vive nel costante agonismo con un mondo sbilanciato tra vitalità naturalistica e «realtà bruta» (Le cose senza storia, 1994): «L’uomo che cammina da qualche parte / lungo strade forse di luce / sa bene di essere un’ombra della notte più livida, / un riflesso appena visibile sul grigio / delle case degli altri» (ibid., 1994). Tra passato e presente è in ballo il destino delle “cose” (e dell’uomo, “cosa tra le cose”?) nella storia; nel residuo, nella scoria la possibilità di nascita di «particelle / ancora senza nome» (ibid., 1994), la prospettiva, cioè, di un disagio, di un disorientamento etico e spaziale che, però, attende una fuoriuscita: «Il centro è qui ed è ovunque» (ibid., 1994).

(4ª parte)

Tornando alle implicazioni cinematografiche del disagio, la nascita dei blockbusters, dicevamo, contribuisce a consolidare un clima di fiducia (noi che abbiamo vissuto il primo decennio del XXI sec., sappiamo quanto effimero) il cui controcanto è rappresentato da una filmografia di denuncia che, però, riesce a circolare ed essere distribuita su scala mondiale grazie alla “rinascenza” hollywoodiana.
Il 1976 non è solo l’anno di Rocky, ma anche quello di Taxi Driver (i due film saranno antagonisti agli Oscar del 1977), cioè del film forse più perturbante di quel filone che avrà ampia fortuna nel decennio successivo, quello del reduce di cui si era discusso in precedenza con riferimento al conflitto vietnamita. Nonostante un messaggio per nulla scontato, considerando l’ambiguità sottesa a tutta l’operazione messa in scena da Martin Scorsese, e che sfocia nell’indecidibilità etica esemplificata dall’azione compiuta dal Travis interpretato da Robert De Niro, opposta a quella progettata (e che farà del protagonista un eroe da reietto qual era), il significato globale non fa che confermare lo schema per cui un individuo ostinato (individualismo), spinto ad agire da un rifiuto psicotico scatenato dalla solitudine di chi è ritornato senza “dimora” o patria, ottiene un seppur temporaneo – stando all’enigmaticità del finale – riconoscimento.
Comunque si voglia leggere il finale aperto di Taxi Driver, le coscienze che si vanno formando negli anni conclusivi dei Settanta e tutto il decennio degli Ottanta vivranno immerse (alla “comunità” fisica viene sostituendosi gradualmente una “comunità” mediatica) nell’ambivalenza tra autoaffermazione personale e scomparsa del riconoscimento sociale, ambivalenza che l’azione “edificante” e catartica dell’immagine cinematografica non riuscirà a stabilizzare.
In questa solitudine schiacciante, allora, sembra germinare quella che chiamerei “aggressività monadica del terrore”, definizione che, a mio avviso, abbraccia i successivi anni Novanta e che avrà ripercussioni drammatiche, come sappiamo, in questo primo scorcio di secolo.
Anche la poesia italiana è ferma a questo snodo e, infatti, le generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta si dibattono su questioni riguardanti la presenza o meno del soggetto lirico, anche se poi, almeno le voci più avvedute ripropongono tale presenza più o meno dimidiata. La tendenza a un neo-lirismo – per quanto velato si voglia l’io da una cautela al ribasso manifestata dalla predilezione per la prosa, o per una sperimentazione oggettivante, la cui risultanza sarebbe la trasformazione della poesia, in quanto genere, in una scrittura ibrida e personalizzabile – è evidente anche in autori apparentemente poco sospettabili: «Da solo entrerò nel bosco di Cattabiano / per vedere la prima pianta del mondo / che passa da un figlio a un figlio a un altro figlio / da un primo, poco prima della nostra fortuna» (A. Riccardi, Gli impianti del dovere e della guerra, 2004). Nel brano estratto dall’opera di Antonio Riccardi (1962), la solitudine è più esposta proprio quando si cerca un contatto con la storia e personale e collettiva (se Cattabiano è metonimia per il mondo e se l’elencazione per epanalessi funge da ripetizione costante, quasi eternizzante, della stessa “fortuna”. E, infatti, subito dopo: «Ogni fortuna è una forma / e dopo una memoria che non finisce», ivi, 2004).

(5ª parte)

Il ricordo, come tentativo di riappropriazione del mondo e come baluardo all’aggressività monadica del terrore, è una delle tematiche più frequentate dalle generazioni di poeti nati nel secondo dopoguerra (fino a un ultimo strascico, lo stiamo constatando, nei nati negli anni Settanta). Tematica connessa, con ogni probabilità, alla necessità di uscire dall’impasse identitaria: «Ma altri vi potranno assicurare / (e oggi io sono tra quelli) che tutto questo spossamento, in certi giorni, / non procede dall’aria né dal corpo / ma è soltanto dolore / di anime costrette, solitudine di molti, / vuoto vissuto male, / mancanza o assenza di uno scopo» (S. Dal Bianco, Prove di libertà, 2012). Proprio riconoscendo la solitudine sostanziale dell’individuo – sembra dirci il testo di Stefano Dal Bianco (1961) – può aprirsi l’opportunità di una nuova condivisione (e forse la scelta di un linguaggio piano e accessibile prova ad agire in questa direzione). S’intravede la dimensione di uno scopo, «come una cosa funziona non può andare disgiunto dal suo scopo» (ibid., 2012), di un senso percepibile almeno come interrogazione.
E se il senso può diventare riappropriabile è perché la domanda rimane sospesa e l’assenza si tramuta in percezione della realtà, storia che si fa presente e presenza: «i fiori che si sforzano / di rimanere in vita nel vaso che li ostenta. // Gli esseri non chiedono altro; esistono per sé / con cinismo e innocenza nel tempo che posseggono» (G. Mazzoni, I mondi, 2010), pura resistenza di monadi che, però, rischiano l’aggressività del terrore – almeno questo sembra essere il limite e la forza de I mondi di Guido Mazzoni (1967). Pur simulando benissimo la “neutralizzazione” del soggetto, proprio lo stesso soggetto, «quando […] impara a vivere il presente / senza pensare di appartenergli» (ibid., 2010), deve scegliere «il proprio posto nel campo delle forze» (ivi, 2010), cioè deve forzare la sua presenza, deve fare attrito, pur sapendo che «è ingenuo cercare di trascendere / le forze cui diamo il nostro nome» (ibid., p. 2010), e proprio per questo il soggetto non può comunque rassegnarsi a «diventare solo solitudine» (ibid., 2010).

(6ª parte)

Il soggetto della solitudine – orientato nella percezione della stessa solitudine e nell’acquisizione dell’assenza – è il corrispettivo della presenza imposta: il soggetto-maschera che preferisce mimetizzarsi nella materia del suo operato, senza affacciarsi mai dal testo, perdendosi nella sua tessitura.
Il soggetto in questo caso è nello smarrimento, nella selva del linguaggio, evitando il senso nell’iperproduzione di forme.
Nel caso di Marco Giovenale (1969), la programmatica ottenebrazione del soggetto si trasforma in dispositivo che, nella finzione grammaticale della scomparsa, recupera il contatto comunitario in una pietas laica della marginalizzazione di tutti i soggetti: «posso così entrare in questo / gradiente di pianeta che lui / ama, lei ama, l’aria è mite» (M. Giovenale, Shelter, 2010).
L’affermazione di una fuoriuscita dall’impasse identitaria, un tentativo di risposta al monadismo e alla frustrazione della solitudine (quel solipsismo che comporta la scomparsa e che, lo abbiamo visto, è il risultato di un percorso più che quarantennale), è forse l’ossessione più consistente per le generazioni nate negli anni Settanta. L’unica risposta all’alienazione delle coscienze prodotta nella seconda metà del Novecento e che ha condotto a un allontanamento graduale ma costante dell’individuo dalla vita comunitaria, risiede proprio nella presa di coscienza di questa stessa alienazione.
Riconsiderare il mondo, riformulando un contatto, per quanto agonistico, che confermi la presenza dei due versanti relazionali, per cui il soggetto sia parte in causa, né predominante ma neppure marginale, del rapporto, sembra il compito ereditato dai poeti nati nell’ultima fase del XX secolo. Questo “compito” si sviluppa in diversi atteggiamenti, con diverse prospettive, ma in maniera diffusa proprio nella generazione dei “Settanta”, che la critica di almeno un decennio fa vedeva apaticamente schiacciata sulle acquisizioni dei padri (in particolare nella conferma del disorientamento e della “dispersione” dei nati negli anni Quaranta e Cinquanta, cui si è fatto qualche cenno), quando invece si pagavano le conseguenze di una maturazione “ritardata” dalla culla del benessere illusorio, abbiamo visto col riferimento a Rocky, d’epoca “reaganiana” (e che ha strascichi così duraturi da riflettersi anche nelle scelte di poeti nati negli anni Ottanta e, addirittura, Novanta, ma non è questo il luogo per approfondire anche in questa direzione).
La consapevolezza raggiunta del proprio “compito”, dicevamo, sta portando questi poeti a una produzione sempre più decisiva per la “fuoriuscita” e il transito a un mondo che, nonostante le sue ombre, può continuare a fare “comunità”. Nella parcellizzazione e nella frammentazione risiede la potenzialità del “mondo a venire”, nella non azione e nella presenza marginale è l’infimo inizio di nuove prospettive.
In pratica è nel cammino, nello spostamento, che si attua la “rivoluzione” della relazione con l’esistere e la sua ombra sempre incombente.
In Italo Testa (1972) possiamo leggere ad esempio: «o l’ombra che di spalle divora / il fianco, il vano della luce / che ti assale e a morsi ritaglia / nell’agone della stanza, ritta / e in attesa, le braccia lungo il corpo, / i piedi a contatto del suolo» (I. Testa, La divisione della gioia, 2010), brano in cui è presente tutto l’apparato della lotta in corso dell’adesso per una fuoriuscita dall’impasse relazionale (“la stanza”) nel raggiungimento di un contatto, nonostante la presenza (allegorica?) di un’ombra “divorante”, antagonista.
Cammino, dicevamo, che conduce a incontri imprevisti (fuoriuscita dalla stanza – «camminano / rasenti ai muri / sugli autobus / si siedono tra i primi / non parlano…», I. Testa, I camminatori, 2013 – e constatazione di presenza dell’altro, appercezione, non solo auto-percezione), a “qualcosa” che “accade”. «Il centro è qui ed è ovunque», diceva Pusterla nel 1994 (F. Pusterla, Le cose senza storia, cit.) e l’ultimo titolo di Testa è, quasi risposta, Tutto accade ovunque (2016), con la differenza, cui facevamo riferimento, tra percezione e appercezione, e il risultato di una consapevolezza alla seconda potenza emergente da una totale disillusione: «anche oggi ho visto qualcosa / tra la crepa e l’azzurro / anche oggi ho visto qualcosa / qualcosa» (I. Testa, cit., 2016).

(7ª parte)

Un contatto, dunque, che si fa strada da biografie minime ma che, gradualmente, può diventare storia. Storia che non potrà più essere elusa e diventerà necessità nel tentativo di ri-orientamento: «Il resto, le guerre, è lontano da qui / e viviamo in un mondo ovvio, / che non si cura di noi, / e lo chiamiamo / casa» (G. Del Sarto, Sul vuoto, 2011).
Gabriel Del Sarto (1972) è uno degli autori nati negli anni Settanta in cui la necessità di fuoriuscita si esprime nell’approccio minimo alle vicende personali, per cui il lirismo si fonde con la necessità del racconto e l’io che scrive tenta di essere assorbito nel contesto, in un movimento mimetico che resta il più possibile ancorato al reale. Anche se, ai margini del racconto, s’intravede l’ombra del canto, una sacralità laica che trova il coraggio di dire la vita senza imporre alcuna presenza ma, assai più semplicemente, manifestandola (l’esergo a Sul vuoto, da Emerson, recita: «Non esiste, propriamente la storia. / Esiste soltanto la biografia»).
Ma la storia resta un cruccio per la generazione in questione, proprio perché fare i conti con essa potrebbe consentire quel transito «dall’interno sempre più verso l’esterno» (F. Santi, nota in Mappe del genere umano, 2012) che consentirebbe alla poesia di focalizzare l’identità all’interno di un contesto sfuggente (la possibilità di vedere ed essere visti sempre più aleatoria, da cui l’ossessione voyeuristica alla base delle dinamiche “social”, ad esempio).
La necessità d’orientamento è prerogativa dell’operazione poetica di Flavio Santi (1973), in primis la biografia, per Santi trasfigurata in letteratura (Il ragazzo X, 2004), perché la realtà è ormai “clonata” dall’invasività scientifico-tecnologica e obnubilata da «simulacri» (gli schermi): «Così io non sono io, sono una parte, un fantasma» (F. Santi, cit., 2004). Quindi, nonostante Santi non riesca ad accettare pienamente la fine di un determinato modo di fare lirica, nella sua opera si avverte l’esigenza di ristabilire un contatto, per quanto fantasmatico, col mondo – anche se l’agonismo, almeno in questa fase della produzione del poeta friulano, sembra aver perso vigore (probabilmente a causa del rimpianto per la perdita, ma anche dell’improbabilità di una riproposizione, dell’io lirico). Il legame di Santi con la generazione dei padri non sembra essersi definito e il tentativo di orientamento, di cui sopra, è disilluso dalla paura di abbandonare i modelli: «Ma se abbiamo paura della morte in sogno, / questo sembra sussurrare Brecht, dal cartone ingiallito della stampa, / vita assassina come farò / a chiamarti bellissima?» (F. Santi, Mappe del genere umano, 2012).

(8ª parte)

La solitudine che ha caratterizzato il periodo finora preso in considerazione raggiunge il suo vertice nel riflusso degli anni Novanta – per cui, cadute le ideologie, occorreva fare i conti con la fine di ogni dialettica -, ed è la conseguenza di una consapevolezza sempre maggiore del fatto che tutto fosse stato detto. I nuovi formalismi, i virtuosismi tecnici che costellano un nuovo modo di narrare, sempre meno lineare ma contenente in sé gli indizi della propria interpretazione, trasformano il postmoderno: il messaggio può perdersi nel labirinto barocco dell’arte per l’arte, oppure fuoriuscire nel contatto con un mondo trasfigurato.
Tra queste tendenze sopravvivono anche alcuni atteggiamenti di rifiuto, maledettismi di riciclo prima dell’esplosione definitiva dell’aggressività monadica del terrore con gli attentati dell’11 settembre.
«Ho stretto dieci colori diversi / e ho chiesto loro di abbandonare / la nostra solitudine», scriveva, proprio nel 2001, Simone Cattaneo (1974-2009) nella sua opera d’esordio, Nome e soprannome. L’atmosfera lirica è rovesciata secondo paradigmi post-romantici, l’io è, non soltanto dimidiato, ma sconvolto nel disorientamento e nella sfiducia relazionale (la fine delle dialettiche ideologiche è anche la conclusione apparente di ogni scontro col mondo, per cui l’individuo pare implodere in un’auto-reclusione invasa dagli schermi, quasi unica finestra per comunicare con l’esterno).
Con questa reclusione, dicevamo, si confrontano almeno tre generazioni di poeti e i sintomi di una fuoriuscita – dall’individualismo ideologizzato à la Rocky – sono sempre più presenti, soprattutto nei nati negli anni Settanta.
La fugacità del tempo e un sentimento etico d’ispirazione “classica” conducono a una nuova consapevolezza, a un’onestà linguistica che cerca di fare i conti con le sue potenzialità mistificatrici, che lotta col fraintendimento per arrendersi al mondo perché «stiamo nel minimo / tempo di un’eclisse: bisogna / partire una volta per sempre» (M. Gezzi, Il mare a destra, 2004). Questa tensione al contatto, focale nell’opera di Massimo Gezzi (1976), riporta il soggetto all’interno del «campo delle forze», evocato da Guido Mazzoni, impattando il problema di fondo di un individuo che, lo abbiamo visto, affondava nel disorientamento, allontanato prepotentemente dalla storia e indirizzato dalla mistificazione mediatica a una definitiva “fantasmizzazione” (quanto innocuo appare oggi l’individualismo “eroico” del vecchio Rocky). Invece di arrendersi al mondo, l’individuo sembrava arrendersi all’assenza di una comunità (in Italia, poi, un ventennio di “berlusconismo” ha certamente rafforzato questa tendenza) e, quindi, alla propria scomparsa, alla sua “posteriorità”. La mitologia del “post” può perdere la sua influenza nell’accanimento (quasi apotropaico) sul sistema linguistico e sui suoi meccanismi “illusionistici” (questa strada neo-barocca sembra portare a un’allegorizzazione dell’esistente, nel tentativo di concretare un racconto, o meglio, l’affabulazione dell’epos), oppure nella chiarificazione e spoliazione totale dell’artificio – almeno come intenzione – per presentare un mondo eticamente denudato, semplificato nelle sue nuove coordinate (geometriche e non più tanto geografiche, il che comporta una diversa percezione dello spazio).
Tra il vortice allegorico e il contegno chiarificatore, allora, sembra muoversi la poesia italiana contemporanea.
Sintomatica di questa scissione volta a consolidare il contatto col contesto, appare l’opera di Gezzi, cui si accennava in precedenza, incastrata tra crisi e volontà di fuoriuscita (si veda la chiarezza espositiva della raccolta Il numero dei vivi del 2015, conclusa dentro un’architettura che simula il contatto con l’alterità, attraverso testi che ritornano costantemente sul dubbio della presenza).
Proprio in questa crisi l’individuo «impara a numerare / le ombre» (M. Gezzi, L’attimo dopo, 2009), o tenta di farlo nella volontà di ristabilire una connessione relazionale: «Ma sperare in un’ombra, una minaccia / che ci rende meno soli, più vicini, / non possiamo. Il presente è una speranza / che contraddice se stessa, bene e male / che si elidono, il sospetto di non potere, / non sapere, non volere / se non essere. Siamo?» (M. Gezzi, Il numero dei vivi, 2015).
Sperare, infine, che ombra e presenza raggiungano quel punto di tangenza momentaneo che ri-attivi un cammino nell’oscillazione costante tra contatto e abbandono: «Ora devo camminare […] fino a perdere il controllo del corpo» (M. Gezzi, cit., 2015).

LETTURE di Gianluca D’Andrea (45): ROCKY O DEL MOLTEPLICE INDIVIDUALE (UN RACCONTO) – 8ª parte

di Gianluca D’Andrea

La solitudine che ha caratterizzato il periodo finora preso in considerazione raggiunge il suo vertice nel riflusso degli anni Novanta – per cui, cadute le ideologie, occorreva fare i conti con la fine di ogni dialettica -, ed è la conseguenza di una consapevolezza sempre maggiore del fatto che tutto fosse stato detto. I nuovi formalismi, i virtuosismi tecnici che costellano un nuovo modo di narrare, sempre meno lineare ma contenente in sé gli indizi della propria interpretazione, trasformano il postmoderno: il messaggio può perdersi nel labirinto barocco dell’arte per l’arte, oppure fuoriuscire nel contatto con un mondo trasfigurato.
Tra queste tendenze sopravvivono anche alcuni atteggiamenti di rifiuto, maledettismi di riciclo prima dell’esplosione definitiva dell’aggressività monadica del terrore con gli attentati dell’11 settembre.
«Ho stretto dieci colori diversi / e ho chiesto loro di abbandonare / la nostra solitudine», scriveva, proprio nel 2001, Simone Cattaneo (1974-2009) nella sua opera d’esordio, Nome e soprannome. L’atmosfera lirica è rovesciata secondo paradigmi post-romantici, l’io è, non soltanto dimidiato, ma sconvolto nel disorientamento e nella sfiducia relazionale (la fine delle dialettiche ideologiche è anche la conclusione apparente di ogni scontro col mondo, per cui l’individuo pare implodere in un’auto-reclusione invasa dagli schermi, quasi unica finestra per comunicare con l’esterno).
Con questa reclusione, dicevamo, si confrontano almeno tre generazioni di poeti e i sintomi di una fuoriuscita – dall’individualismo ideologizzato à la Rocky – sono sempre più presenti, soprattutto nei nati negli anni Settanta.
La fugacità del tempo e un sentimento etico d’ispirazione “classica” conducono a una nuova consapevolezza, a un’onestà linguistica che cerca di fare i conti con le sue potenzialità mistificatrici, che lotta col fraintendimento per arrendersi al mondo perché «stiamo nel minimo / tempo di un’eclisse: bisogna / partire una volta per sempre» (M. Gezzi, Il mare a destra, 2004). Questa tensione al contatto, focale nell’opera di Massimo Gezzi (1976), riporta il soggetto all’interno del «campo delle forze», evocato da Guido Mazzoni, impattando il problema di fondo di un individuo che, lo abbiamo visto, affondava nel disorientamento, allontanato prepotentemente dalla storia e indirizzato dalla mistificazione mediatica a una definitiva “fantasmizzazione” (quanto innocuo appare oggi l’individualismo “eroico” del vecchio Rocky). Invece di arrendersi al mondo, l’individuo sembrava arrendersi all’assenza di una comunità (in Italia, poi, un ventennio di “berlusconismo” ha certamente rafforzato questa tendenza) e, quindi, alla propria scomparsa, alla sua “posteriorità”. La mitologia del “post” può perdere la sua influenza nell’accanimento (quasi apotropaico) sul sistema linguistico e sui suoi meccanismi “illusionistici” (questa strada neo-barocca sembra portare a un’allegorizzazione dell’esistente, nel tentativo di concretare un racconto, o meglio, l’affabulazione dell’epos), oppure nella chiarificazione e spoliazione totale dell’artificio – almeno come intenzione – per presentare un mondo eticamente denudato, semplificato nelle sue nuove coordinate (geometriche e non più tanto geografiche, il che comporta una diversa percezione dello spazio).
Tra il vortice allegorico e il contegno chiarificatore, allora, sembra muoversi la poesia italiana contemporanea.
Sintomatica di questa scissione volta a consolidare il contatto col contesto, appare l’opera di Gezzi, cui si accennava in precedenza, incastrata tra crisi e volontà di fuoriuscita (si veda la chiarezza espositiva della raccolta Il numero dei vivi del 2015, conclusa dentro un’architettura che simula il contatto con l’alterità, attraverso testi che ritornano costantemente sul dubbio della presenza).
Proprio in questa crisi l’individuo «impara a numerare / le ombre» (M. Gezzi, L’attimo dopo, 2009), o tenta di farlo nella volontà di ristabilire una connessione relazionale: «Ma sperare in un’ombra, una minaccia / che ci rende meno soli, più vicini, / non possiamo. Il presente è una speranza / che contraddice se stessa, bene e male / che si elidono, il sospetto di non potere, / non sapere, non volere / se non essere. Siamo?» (M. Gezzi, Il numero dei vivi, 2015).
Sperare, infine, che ombra e presenza raggiungano quel punto di tangenza momentaneo che ri-attivi un cammino nell’oscillazione costante tra contatto e abbandono: «Ora devo camminare […] fino a perdere il controllo del corpo» (M. Gezzi, cit., 2015).

LETTURE di Gianluca D’Andrea (30): DOPO CONSUMAZIONE

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Jasper Johns, 0 through 9 (1961). Fonte: Tate

di Gianluca D’Andrea

«Il consumo non è in relazione né con il passato né con il futuro, giacché il consumatore non è né un pianificatore orientato al futuro né un nostalgico che rimpiange il passato».

(Günther Anders, Dopo Holocaust, 1979, 2014, p. 31)

Forse perché il tempo è stato inghiottito dal capitale? Consumo che brucia in un ciclo ripetitivo. Il ricordo è scomparso nell’azione compulsiva, in questo senso il capitalismo è antimillenario e consentito solo in un contesto democratico. Ma non è la dimensione democratica, è più il decisionismo liberista che rimodula l’individuo e che permette alla memoria di ricondursi costantemente al prossimo acquisto, al brivido della “consumazione”.
Se il ricordo non è più lineare, non può neanche seguire la ripetitività del ciclo del consumo. Occorre che si dirami attraverso salti emotivi e s’incanali in un racconto non-lineare. Come in una nuova “numerologia” che parta dagli stessi rapporti numerici per elaborare la cifra di una ripersonalizzazione:

«Come se l’orrore non avesse investito delle persone, come se la realtà stesse nella somma, non nell’addizione delle unità; nella cifra, non nei singoli computati».

(Günther Anders, Ibid., p. 33)

I ricordi del singolo nella sua non linearità possono realmente ripersonalizzare il mondo? possono difendere la parallela “nullità” di soggetto e mondo?

Difendi questa luce, se sei un nulla
come tutti. Difendi questo nulla
che non smette di essere.

(Massimo Gezzi, Il numero dei vivi, 2015, pp. 13-14, vv. 24-26)

Poesie da “Storie” di Damiano Sinfonico, L’arcolaio, 2015

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Matthew Cusick, Course of Empire (Mixmaster 2), 2006 (Fonte: mattcusick.com)

Storie (nota di Gianluca D’Andrea)

 

Nel momento in cui parlo, mi sembra di essere proiettato davanti a me, lasciando me stesso dietro. […] Il corpo non è tanto localizzato quanto distribuito nello spazio.

Steven Connor, La voce come medium – Storia culturale del ventriloquio (Sossella, 2007)

STORIEIl libro di esordio di Damiano Sinfonico (Genova, 1987), come ben espresso in prefazione da Massimo Gezzi, è contraddistinto da un’inquietudine di fondo. Nonostante nella stessa prefazione si lasci intendere l’inesplicabilità della sensazione sottesa ai testi di Storie, è comunque possibile tentare di individuarne i segnali.
Lasciando un po’ in disparte le scelte formali e strutturali della raccolta (per le quali si rimanda ancora alla prefazione – si veda soprattutto la riflessione sul verso-frase, la cui imposizione per tutto l’arco dell’operazione induce a un senso di asfissia o monotonia “ansiosa”; oppure la sistemazione “simmetrica” dei testi che si può giustificare nello sforzo di offrire un nuovo ordine all’opera/mondo), mi concentrerei su alcuni concetti che sembrano voler emergere dalla trama.
In primo luogo il mezzo, la raccolta è costellata da vicende di passaggio. Si apre con una telefonata: telefono, medium di una voce ctonia che parla della morte proprio quando il soggetto è impegnato a “riportare in vita” per mezzo della memoria Costanza d’Altavilla. Il ponte – almeno due testi sono incentrati su questa figura -, medium del cammino e, infatti, sembra banale sottolineare che “cammino” e “corrente” sono due dei termini chiave per provare a comprendere il “passaggio” o mutamento epocale cui siamo tutti sottoposti: «Il trasloco sta finendo», «Aspettare insieme il domani», «Questa casa si apre agli anni futuri./ Arriveranno uno a uno./ Li conteremo insieme, luminosi e meno./ In te c’è un altro secolo di vita», pensierini-verso, oso dire, che troviamo nell’ultimo testo della raccolta, post-it, promemoria che ci “ricordano” il continuum della nostra esistenza.
L’inquietudine “mortuaria”, assai personale – e la “fluidità” della storia s’incrociano – ancora il mezzo – nel tentativo di un orientamento, una nuova inquadratura o, meglio, la speranza affranta di poter incidere sulla “non scomparsa dalle mappe”. Già, una mappatura che tiene conto, però, della distanza relazionale, «siamo lontani come due bordi di un cucchiaio», ma che non vuole arrendersi ad essa, nonostante a volte l’inserzione sotterranea del mediumfaccia propendere, come fosse una tentazione, a interrompere la relazione col mondo: «A volte ho la tentazione di staccare la corrente».
L’operazione resta sospesa tra la “dissoluzione” anche fisica, dei corpi, e lo spunto, già evidente nel primo testo, di una vivificazione, attraverso il segno, dello stesso mondo, intravisto sull’orlo della sua scomparsa.


Poesie da Storie

Mi hai telefonato mentre pensavo a Costanza d’Altavilla.
Mi hai investito di parole che qualcuno era morto.
Nelle tue rare pause, facevo scivolare dei monosillabi nella corrente.
Capisci, non è stato per indifferenza o durezza di cuore.
Mi hai colto tra miniature medievali.
Invischiato in faccende che non mi riguardavano.

*

Ho inciso i nostri nomi su una carta geografica.
Quanta strada c’è fra me e te?
Le nostre città sono in viaggio l’una verso l’altra.
Seguo il loro movimento sulla mappa.
Non percorrono un tragitto lineare.
Lo contorcono, lo avvitano, lo intrecciano e lo allungano.
Ogni tanto si avvistano di lontano.
Intravedo nella nebbia dei segnali luminosi.
Poi il buio li offusca e li immerge in una quieta sonnolenza.
Non è un sogno.
C’è una mappa davanti ai miei occhi.
E ci siamo io e te che camminiamo dentro un continente.

*

Il ponte, oggi è riservato al traffico automobilistico.
Il limite è sessanta chilometri orari.
Chi viaggia lì, vede la città abbracciarlo da ogni lato.
Chi viaggia sotto, vede un filo lungo oscurarlo.
Una volta ci ho camminato sopra, con altra gente.
Manifestavamo contro i tagli all’università.
Era l’onda, si srotolava contro i tetti accesi nel sole.
Sembrava crescere, crescere sempre.
Poi ha smesso, è scesa sottoterra, forse ancora scava in profondità.
Non so dire la fine degli altri, ci si è persi di vista.
Immagino che a camminare lì fossimo tanti.
Che forse ancora qualcuno si ricorda di quella camminata.
Che il bello era camminare sopra il ponte.
Passano le macchine, anch’io di tanto in tanto.
Ma l’aria che si respirava sopra, nessuno se la immagina.

*

appisolandoti orienti i tuoi piedi
dormi ma ti allinei con i meridiani
come bussola ti riassesti nel tuo lungo viaggio
dove vai nella giusta posizione?
forse un’altra terra, entri nella sua orbita
tocchi con un piede il suolo del riposo
ti svegli, si interrompe il contatto

*

Mi telefona snei momenti sbagliati.
Sempre, chiunque.
Appare il numero sul display, e mi secca.
Lascio correre gli squilli, me ne infischio.
Richiamerà più tardi, nel pomeriggio, o alla sera.
Chiamerà quando ci sarà qualcuno in casa.
La casa diventa una conchiglia.
Squilla, squilla, come fosse disabitata.
Io mi avvolgo nelle sue pareti bianche, e resto in ascolto.
Mi fascia il drin drin continuo, mi circonda come un’aureola.
A volte ho la tentazione di staccare la corrente.

*

Si è scherzato un’ora intera.
Le risa si propagavano nel corridoio.
Una corrente magnetica.
Altre risa rispondevano dalle stanze intorno.
Si moltiplicavano lungo il reparto.
Poi è entrato l’infermiere, arcigno.
Ci ha rimproverati.
Come potevamo disturbare una tale quiete?
L’orario di visita stava scadendo.
Eravamo agli ultimi minuti.
Abbiamo riso ancora.
Qualcuno stava morendo.

*

Ho sognato un ponte tibetano.
Dalla tua finestra fino al viale.
Non traballava, leggero, al vento.
Non c’era quando mi sono svegliato.

*

a Francesco

Il trasloco sta finendo.
I quadri, le bottiglie, i portasciugamani.
Tutto ha trovato una collocazione.
Resta poco da fare.
Aspettare insieme il domani.
La luce filtrata dagli alberi.
Questa casa si apre agli anni futuri.
Arriveranno uno a uno.
Li conteremo insieme, luminosi e meno.
In te c’è un altro secolo di vita.


damiano sinfonico

Damiano Sinfonico

Damiano Sinfonico (Genova, 1987) è dottorando in letteratura italiana. È redattore di “Nuova Corrente”, collabora con “Poesia” e con il blog “La Balena Bianca”. Sue poesie sono state pubblicate sui siti “Le parole e le cose”, “Atelier Poesia”, “Nazione Indiana”, “Interno Poesia”.

Massimo Gezzi a Trevigliopoesia

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Massimo Gezzi presenta a Trevigliopoesia la sua ultima raccolta di poesie, Il numero dei vivi (Donzelli, 2015).

Un incontro con lettori e curiosi, condotto da Gianluca D’Andrea.

Nel corso della serata sarà possibile dialogare con l’autore, acquistare il libro e scoprire la struttura – da poco inaugurata – del Teatro Nuovo Treviglio.

http://trevigliopoesia.com/massimo-gezzi/


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Massimo Gezzi (Foto di Daniele Maurizi)

CHI E’ MASSIMO GEZZI
Massimo Gezzi (1976) ha pubblicato i libri di poesia Il mare a destra (Edizioni Atelier, 2004), L’attimo dopo (Luca Sossella, 2009, Premi Metauro e Marazza Giovani) e Il numero dei vivi (Donzelli Editore, 2015) più la plaquette trilingue In altre forme/En d’autres formes/In andere Formen, con traduzioni in francese di Mathilde Vischer e in tedesco di Jacqueline Aerne (Transeuropa, 2011). Ha curato l’edizione commentata del Diario del ’71 e del ’72 di Eugenio Montale (Mondadori, 2010) e l’Oscar Poesie 1975-2012 di Franco Buffoni (Mondadori, 2012). In Tra le pagine e il mondo (Italic Pequod, 2015) ha raccolto dieci anni di interviste ai poeti e recensioni a libri di poesia. Vive a Lugano, dove insegna italiano presso il Liceo 1.

IL NUMERO DEI VIVI
A sei anni di distanza da “L’attimo dopo” (Premio Metauro), Massimo Gezzi approda, con “Il numero dei vivi”, a una nuova tappa del suo percorso poetico.
Il titolo confessa una necessità: quella di ricominciare a contare, a numerare i soggetti e le cose che nel libro precedente, incentrato sul tema del tempo, risultavano tanto precari e momentanei da dimostrarsi tragicamente inafferrabili. “Il numero dei vivi” suggerisce invece una diversa postura etica e una necessità nuova: quella che nasce dall’essere parte, in modo mai pacificato e rassicurante, di una collettività locale (una casa, una classe, una città) ma anche planetaria, che vive in un presente incerto e violento e che cerca, talvolta senza speranza, di resistergli o di opporglisi. Un libro sui vivi e sulla loro esistenza profondamente imperfetta, ma piena di dignità.

Una lettura del libro qui.

NUOVI INIZI: Massimo Gezzi, “Il numero dei vivi”, Donzelli, Roma 2015

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Il numero dei vivi (Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea)

NUOVI INIZI: Massimo Gezzi, Il numero dei vivi, Donzelli, Roma 2015

Sereno o grigio il cielo, non importa. Sei
comunque sempre lì, luce segreta.

F. Pusterla

Difendi questa luce, se sei un nulla
come tutti. Difendi questo nulla
che non smette di essere.

(Il numero dei vivi, pp. 13-14, vv. 24-26)

Libro aurorale questo terzo di Massimo Gezzi, Il numero dei vivi tenta, oltre la ricognizione, un nuovo approccio relazionale, concentrandosi sul tempo e la scansione di frammenti di esistenza.
La memoria assume la valenza di un ulteriore orientamento sempre in bilico, però, sulla voragine della scomparsa. Dimensione d’oblio con cui la parola deve fare i conti sommando episodi ed esperienze in contrasto con l’inevitabile sconfitta.
Libro “agonistico”, quindi, tensivo, ricco di propensioni allo sgorgo liberatorio di immagini compresse dal dolore dell’imperfezione, contraddistinto dal rapporto che cose e uomini (o ciò che resta di essi) intrattengono col mondo.
Tenere il numero dei viventi allora (abituati come siamo, da un sistema informativo invasivo, al conteggio degli scomparsi), nonostante tutto:

Prima che tocchi l’erba
la boccia appesa in aria contro il cielo
viola chiaro, prima che atterri –
prima che l’onda si rovesci sulla sabbia
e cancelli
le orme di chi ci ha camminato
per disperdere un pensiero –
prima che l’odore dei pitosfori
sia gelato dall’inverno

devi dirlo il dolore di non essere
più, se la memoria è anche questa
incompiuta congrega di persone
che hanno amato inutilmente,
preoccupate o distratte,
ma per sempre stagliate nell’azzurro
navigato dai pipistrelli che gremivano
il buio rischiarato dai fanali.

Sono loro, ti hanno amato.
Hanno potuto quel che hanno saputo.
Hanno sbagliato.

(p. 82)

Ma è la stratificazione, la volontà di accumulo che espande la misura del pensiero poetico – e quindi del verso – implicando aderenza, compartecipazione alle sorti dell’alterità, in una commistione mimetica che dirime il canto, radice una volta solida in Gezzi. La trama verbale si fa fitta, s’intreccia e s’addensa, edifica dibattendosi nella lingua, inaugurando nuove sperimentazioni. Un riferimento recente al Mazzoni de I mondi emerge nell’elencazione prosastica dei microeventi (anche se già ne L’attimo dopo s’intravedeva quest’urgenza d’accumulo):

Nove cose che capitano

Uno guarda attraverso le bancarelle di un mercato, vede il flusso delle persone, vede lo sfondo cobalto chiaro del cielo, vede l’erba che spacca i grossi cubi di cemento davanti all’ufficio delle Poste.

Uno si muove, sente il bruciore dei succhi gastrici che risalgono l’esofago, scambia questo fatto per il sintomo di un infarto, si ferma, teme il peggio, non muore. Ricomincia a camminare, vede la luce di una mattina di marzo riflessa da tutte le superfici specchianti del pianeta.

Uno capisce di occupare una minima porzione dello spazio. Vede gli uomini che sbagliano quotidianamente, vorrebbe ucciderli, vorrebbe obbligarli a sentire la sofferenza che infliggono agli invisibili, poi rinuncia, scende a patti, non uccide, torna a casa sperando che il bene sia più ubiquo del male, vede un anziano che conta il resto con lo sguardo concentrato e fa sì sì con la testa quando ha finito di contare.

Uno esce perché vuole passeggiare, perché il mare sta scoccando la sua immagine dallo sfondo, uno vede questa scena e prova il bene delle cose che esistono.

Uno sente un altro ingiuriare la donna accovacciata davanti alle Poste a chiedere soldi. Le dice zingara, levati dai coglioni, puzzi di merda e sei più ricca di noi. Gli altri in coda lo guardano e sorridono, anche l’anziano che ha finito di contare i suoi soldi guarda la donna e dice vai a lavorare come tutti, brutta zozza.

Uno esce perché vuole rivedere le cose che ha già visto.

Uno arriva dal paese, un altro lo vede, erano compagni di classe alle elementari. L’altro pensa questa voce non avrei mai creduto di risentirla invece eccola, la voce che il mio corpo ha già sentito, con la stessa frequenza, lo stesso timbro che risveglia sensazioni che non avrei mai immaginato di rivivere, e all’improvviso quello che pensa ricorda una scena dimenticata, sprofondata nella memoria, che non sapeva di ricordare.

Uno torna a casa meditando su quella scena incomprensibile.

Uno mentre vive le scene quotidiane che fino a poco prima gli sembravano banali si accorge che quelle scene saranno uniche.
Uno si preoccupa di capire se questo pensiero debba condurre alla fine o all’amore, e mentre pensa questo vede un altro crollare a terra, come se un fulmine l’avesse centrato, solo che è una bella mattina di marzo, il cielo è limpido, il mare di lontano continua a risplendere azzurro.

(pp. 32-33)

La parola è anche desiderio, certo, comprensione e accoglienza di un vuoto avvertito quando si è necessariamente costretti a partire, lasciare per trovare un futuro, con la conseguenza di portarsi dietro lo sradicamento, il continuo spaesamento:

Dieci piani in via ***

[…]

X.

La parola è impalcatura. Fatta di pali,
di giunti, di fatica condivisa
per costruire una struttura
temporanea, da smantellare,
di cui non resta traccia non appena
la costruzione del condominio è terminata,
la luce è stata accesa e la prima
parola pronunciata fra quattro mura.

(p. 37)

Pietas e condivisione agiscono sin dalle origini della poesia di Gezzi ma in questo libro si aggiungono alla volontà di recupero dell’evento transitante, seguendo da più vicino il magistero di uno dei plausibili referenti de Il numero dei vivi, Fabio Pusterla:

L’intagliatore di lattine

Seduto sulla base
di un pilastro che regge i portici,
avrà dodici, tredici anni.
Cappellino, due piercing
sopra il labbro superiore,
con estrema concentrazione ritaglia
lattine di Redbull, Coca Cola,
birra da quattro soldi.
Le maneggia attentamente,
stringe le forbici con calma
seguendo linee immaginarie
ma chiarissime ai suoi occhi.
Si dev’essere accorto
del mio sguardo perché,
sollevando la testa indispettito
e prima di arrendersi a un sorriso, fa:
«Non lo vedi che faccio?
Trasformo questa merda in tante stelle.
La birra però prima me la bevo».
E riprende.

(p. 42)

Scaricato, almeno in apparenza, da ogni formulazione retorica, il lirismo di Gezzi, sempre più livellato l’orizzonte percettivo dell’autore, aspira a un “realismo” dello sguardo, in cui il soggetto è riconoscibile nell’intercapedine momentanea e fluttuante di uno spazio relazionale sfuggente, e quindi estremamente sfumato.

Responso per R.

Per un’incomprensione banalissima
– una parola pronunciata
a voce troppo bassa, un appunto
stracciato senza cura – la luce
che poteva visitarti si è posata
sullo scuro che si è chiuso
imprevedibilmente: lo slargo di splendore
sul parquet si è frantumato
in quattro sottilissime fessure.
Che non portano a niente,
che nemmeno si intrecciano
in un frivolo shangai da esaminare
nelle meno intorte: tutto qui
il dono sperato, il responso degli oracoli
pregati mentre scivoli nel sonno.
«Che almeno siano buio
al più presto. Che l’inganno sbiadisca
per il colpo di straccio di una nuvola».

(p. 49)

Il tema dell’intreccio, ossessivo nella raccolta, si affianca a quello della costruzione, è il soggetto a necessitare (lo abbiamo accennato in precedenza) di nuove radici, pur essendo espropriato nell’impossibilità di qualsiasi richiamo nostalgico (non è forse il peso ontologico più pressante per quest’umanità d’inizio millennio, postuma di se stessa?).
I passi compiuti sono irrimediabili, ombre di un cammino che si fa urgente, in affanno: «perché non ha detto le parole / che estraggono il reale dal fantasma. / Ora devo camminare, si ripete, fino a perdere il controllo del corpo» (Lo spazio percorso, p. 51, vv. 14-16).
La volontà di controllo attraverso il conteggio numerico, oltre ad avere una funzione “mnemonica” – la poesia adesso è nota a margine che tenta di non farsi sfuggire lacerti di vita – s’incrocia a quell’angoscia d’affanno, l’urgenza rischia di farsi ossessione. Non sarà un caso che all’altezza del centro del libro appaiano le ombre e l’immaginazione squarci il quadro della narrazione: «…Un racconto / di ombre si è proiettato sull’intonaco / che lo custodisce con devozione» (Dal diario di Kafka, p. 57, vv. 4-6, ma si legga anche la successiva Colloquio con l’ombra).
La “chiarezza” del dettato si ricopre di venature, dissolvenze, crepe e l’ultima sezione – Il numero dei vivi, appunto – si apre proprio con un richiamo alla proiezione che (vedi la citazione da Simić) oscura la visuale, vi frappone una schermatura. Ogni certezza, sembra dirci Gezzi, per avverarsi ha bisogno di elaborare la sua frattura, la sua stessa in-essenza, la sua domanda senza risposta: «… quasi sotto casa (casa quale? Si intromette / lo stesso soffio allontanandosi nel buio)» (Ipotesi per una casa, p. 64, vv. 2-3).
Si crea un passaggio e dalla prospettiva infranta appare una visione inedita, l’enigma su cui si fonda l’impulso irreprimibile del desiderio comunicativo, la nostra passività di fronte alla potenza di ogni linguaggio; un vero capovolgimento nell’ineluttabile partendo dalla speranza di dirsi e dire l’altro. In questa direzione è possibile leggere i tre testi dedicati alla figlia, tralucenti proprio nel dubbio e nel desiderio proiettivo che illude il soggetto, rendendolo compartecipe nella dismissione del sé e nel confronto con la propria responsabilità d’ascolto:

Tre per una figlia

III. Chè?

«Che è?», la tua prima domanda.
O forse non proprio così,
forse solo «Chè?», a proposito di tutto:
dei suoni, della luce lontana
delle stelle, del tuo corpo
e del nostro, delle formiche,
perché bastano poche lettere in fila
per aprire sprofondi, baratri,
orridi che noi ricopriamo con affanno
di parole, balbettii:
è il ginocchio, sono le stelle,
sono formiche che risalgono il muro
e lì il cancello. Tu però non desisti:
«Chè?», continui a chiedere,
anche dopo le risposte. Sillabiamo,
ripetiamo, ma sappiamo benissimo
che hai ragione tu.

(p. 72)

Che sia la funzione etica del linguaggio a interessare Gezzi appare chiaro nei continui ripensamenti che contraddistinguono l’ultima parte de Il numero dei vivi (ma non si dimentichino le due epigrafi del libro incentrate sulla perfezione – Simonide, lirico greco del comportamento a-tirannico – e sull’imperfezione come acme e obiettivo di ogni tragitto – “L’imperfection est la cime” ci dice Bonnefoy). Ripensamenti sulle sicurezze, date frettolosamente per acquisite: «la tua quieta / sicurezza di automa imperturbabile che schiva / gli ostacoli e le spinte», possiamo leggere alla fine di un testo (Un passo indietro, p. 73, vv. 21-23) che si apriva con un gesto compassionevole e si trasforma nella descrizione di un allontanamento dalla scelta, una riflessione intima sugli stati d’animo sempre ambivalenti che guidano le nostre azioni.
Eppure è questa incertezza a manifestare, o meglio, a scandire il ritmo dell’esistenza, la sua ritualità:

Discorso ai nuovi vicini

Difendere un perimetro di luci:
qui il muro, lì un tavolo disegnato
contro il bianco, delle tende, il bagliore
intermittente del televisore che le incanta
e le rende vive. Dentro storie semplici,
né colpevoli né innocenti: il termometro
per la febbre, un quadro, uno sguardo
che rade il buio e si consuma nell’attesa.
Chi abbia ragione e chi abbia torto non lo dicono
le case. Eppure tutti, appesi al vostro vuoto
che un passato di generazioni riempie sempre
di un senso, scambiate una parola con il monte
che incombe e guarda il lago come un angelo
di terracotta veglia una casa: senza vederla.
Difendere un perimetro di spazio,
di esistenze, appartenersi nel rito
del risveglio sotto un unico
tetto che sembra casa e non lo è,
perché le luci già tremano e il termometro
dice febbre, e in una, due giornate uno vende
una discendenza, spicca i quadri, strappa le tende,
ne fa stracci. Nella breve parentesi
di questi istanti vivete voi.

(p. 74)

Rito, ritmo, suono che si produce nelle parole dette, nell’ascolto dell’altro, nell’esercizio a questo ascolto che trasforma un’intuizione, una trasmissione che può farsi scambio generazionale, rispetto di una voce nella dimensione conviviale di un incontro. Forse per questo in Lettera a Fabio può sembrare giusto riconsiderare l’ascolto delle esperienze altrui come un arricchimento, un “magistero” che ci offra il senso di un diverso orientamento: «…Sbagliavo direzione, caro Fabio, / non capivo che la geografia delle valli / e dei laghi ammette ancora incidenze, / simmetrie, perpendicolarità / tra vuoti e pieni. Era il lusso di un nulla / imperturbabile, il mio, già sazio di qualunque / delusione, dolore» (Lettera a Fabio, p. 75, vv. 19-25). Siamo in cerca di indizi per ritrovare un cammino che conduca a una casa ancora imprecisabile, data per assodata l’impraticabilità dello schema che distingue diversità e conformazione a un ambiente, in poche parole di un’identità di cui perdiamo continuamente le tracce: «Vedo solo ciò che è uguale, risponde, / mentre il verde della porta trasuda / arancione e un campo di colza / si tinge di marea» (Unisci i puntini, p. 80, vv. 26-29).
Da questa perenne dispersione – e sperimentazione ossessiva – emerge un effetto straniante, un’evidenza trasfigurata per cui il “reale” si riattiva attraverso il mutamento, la plasticità di una lingua che fermenta nel gesto, autorigenerandosi o, forse, che spera nonostante tutto nel suo rinnovamento. Rinascono gli interrogativi sulla necessità della nostra presenza ed ecco che l’enigma, il mistero, il vuoto di conoscenza, diventano lo spazio di una misurazione della stessa. La domanda di un luogo, restando irrisolta, reinnesta un cammino per cui l’accumulo dei giorni, degli eventi, non spegne la curiosa fragilità che fa avvenire le nostre transizioni, il loro divenire.

Ultima domanda

Io non so chi vivrà dentro quei nuovi appartamenti.
Alcuni sono arrivati, altri arriveranno.
Altri se ne andranno prima del dovuto.
Ci incroceremo giù al parco,
davanti al lago, dentro una scuola
o un supermercato. Ci scambieremo persino
qualche parola, un giorno o l’altro.
Non siamo imperdonabili, eppure questa luce
che taglia il versante del monte
prometteva qualcos’altro, tempo fa,
e l’ombra che proiettava dietro a tutti
era la gioia. Adesso attendiamo
altre ombre per contare
di vederci un po’ più spesso, di conoscere
le facce dei figli, di sapere dov’è andato
a finire quel cane
che metteva allegria solo a guardarlo.
Ma sperare in un’ombra, una minaccia
che ci renda meno soli, più vicini,
non possiamo. Il presente è una speranza
che contraddice se stessa, bene e male
che si elidono, il sospetto di non potere,
non sapere, non volere
se non essere. Siamo?

Gianluca D’Andrea
(Marzo 2015)


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Massimo Gezzi (Foto di Daniele Maurizi)

Massimo Gezzi ha pubblicato i libri di poesia Il mare a destra (Edizioni Atelier, 2004) e L’attimo dopo (Luca Sossella editore, 2009, Premi Metauro e Marazza Giovani), più la plaquette trilingue In altre forme/En d’autres formes/In andere Formen, con traduzioni di Mathilde Vischer e Jacqueline Aerne (Transeuropa, 2011). Ha curato l’edizione commentata del Diario del ’71 e del ’72 di Eugenio Montale (Mondadori, 2010) e l’Oscar Poesie 1975-2012 di Franco Buffoni (Mondadori, 2012). In Tra le pagine e il mondo (Italic Pequod, 2015) ha raccolto dieci anni di interviste ai poeti e recensioni. Vive a Lugano, dove insegna italiano presso il Liceo 1.

 

Reinterpretare il mondo attraverso i testi di Gianluca D’Andrea – “Il mare a destra” di Massimo Gezzi

gezzi

Massimo Gezzi

di Gianluca D’Andrea

Il mare a destra di Massimo Gezzi, ed. Atelier, 2004

il mare… ancora traiettorie di un viaggio, e il viaggio può essere esilio, un ciclo di passi adatto ad emersioni di senso. Prima ed ultima poesia de “Il mare a destra”: dal “miracolo” della scoperta di punti fermi al bisogno della partenza definitiva (?) per esperire il mondo, semplice esigenza di una vacanza (da colmare? incolmabile?).

I ciclo: “La poesia è finita nella vita / che comincia”, ma la lingua? come piegare l’evento “meccanico” ad una nuova “meraviglia”? forse “il punto di svolta riposa / sul primo gradino della scala” ; una volta dentro il treno, le prospettive si sconvolgono e a stento si verificano le percezioni, la concentrazione è minima e ugualmente al massimo delle possibilità, allora la lingua pare volare su appigli istantanei, tenta un approdo e scivola nella corrente dei referenti casuali, come nell’immagine di coloro che “ascoltano / la terra rivolgersi e ruotare”. La lingua è movimento nel mondo, rapida, quasi intangibile, “già aria” che sfugge alla presa. Che importa nominare se non è colta percettivamente la “processione” di una meraviglia, un segreto che il poeta porta alla luce e condivide?

II ciclo: Vinteuil o della memoria transeunte.
Anche un’azione vivida è destinata alla deformazione dei ricordi, la funzione sensitiva e metamorfica della lingua: “il quadro alla parete, papavero o che altro, / custodisce la parentesi / della nostra permanenza. Il lampo / del televisore appena spento la cancella”. Il papavero custodisce la nostra permanenza, il che appare come una provocazione, una natura d’oblio ci conserva, c’incornicia e un’altra cornice ci rende socialmente cancellabili, quella del televisore lampeggiante, deleterio. Reggere moralmente è una necessità, anche se ”poche le istantanee del ricordo” restano “indelebili” ed è anche questa funzione memoriale che la poesia deve mantenere al di là dei moralismi.

III ciclo: “Inferno in quattro soliloqui”.
Inferno con speranza comune, quotidiana ma smorzata dal quasi ossimorico “cimitero di abbagli”. Questa sezione centrale sembra più una parentesi che un nucleo, un piccolo preludio al fallimento della parola, della sua aderenza al mondo; il concetto verrà approfondito nella sezione seguente e ribaltato in fiducia nell’ultima. Sintomi di una crisi, dove rintracciarne se non nella sfiducia per una riformulazione d’illusioni? la realtà s’informa e sprofonda nell’autismo mentre qualcuno avverte che “bisogna / partire una volta per sempre”, che ancora “il bisogno di contatti / e di calore, di parole” può nascondere “un bagliore di vero”; da questo scontro tra l’individuo e un mondo falcidiato da abnormità segniche, dovrà nascere un nuovo soggetto poetico. Dal dormitorio o fossa comune la difficoltà di sentire ancora una volta l’attrito del reale, nella varietà “abbagliante” delle sue possibilità.

IV ciclo: “Estinzione di una voce”:
infatti la soluzione è esposta e riguarda il sonare della voce: “è la voce il ritratto più feroce/ da estinguere”. In luce o in trasparenza, in condizioni sensoriali di margine, si verifica una battaglia vitale, tra due soglie si avvera la scissione e il niente del senso, come “unghiate dentro l’acqua inafferrabile e tutt’una”, induce a preservare la parola nell’attesa che un vento s’insinui nella voce e faccia esplodere il canto prima della morte. Nell’attimo in cui si accinge a scomparire, il canto è benedizione, stemma e corrente di una scelta di verità.

V ciclo: “Scendere e cercare”: per partire per sempre occorre un bagaglio, unico, scoperto. Il contatto è mescidanza, il tintinnio che risuona, dall’incontro, dentro le cavità dell’individuo che in tal modo forma la società. In questa danza che l’individuo realizza con il mondo (fuori gravità sarebbe tormenta, movimento casuale, oscillazione indecifrabile) anche gli oggetti (il nulla che s’imprime) comunicano, apprendono un ordine e la parola può nuovamente esprimere, nominare (il corpo delle donne è identificato nel nome, ma voce e gesti producono trasformazioni; l’individuo è libero di creare analogie, sorprendersi nell’immaginazione). Contro il “vuoto” che permane, la disposizione: volontà di “scendere e cercare” “a che cosa potranno servire questi segni”. Per istanti, abbagli di un senso che continua a sfuggire ma avverte il bisogno di tornare adorazione, eliminazione della scelta; questa disposizione primitiva dell’individuo che genera meraviglia, che affonda lo sguardo…

continua attraverso la lettura di Sesto Sebastian di Marco Simonelli