Robin Robertson: una poesia da “Camera Obscura” (Guanda, 2002) – Postille ai testi

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Robin Robertson

di Gianluca D’Andrea

Robin Robertson: una poesia da Camera Obscura (2002)

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New Gravity

Treading through the half-light of ivy
and headstone, I see you in the distance
as I’m telling our daughter
about this place, this whole business:
a sister about to be born,
how a life’s new gravity suspends in water.
Under the oak, the fallen leaves
are pieces of the tree’s jigsaw;
by your father’s grave you are pressing acorns
into the shadows to seed.

*

Nuova gravità

Camminando nella luce fioca di edere
e lapidi, ti vedo in distanza
mentre spiego a nostra figlia
questo posto, tutta questa faccenda:
una sorella che sta per nascere,
come la nuova gravità di una vita è sospesa nell’acqua.
Sotto la quercia, le foglie cadute
sono pezzi del puzzle dell’albero;
presso la tomba di tuo padre schiacci ghiande
dentro le ombre per farne semi.

(Trad. Massimo Bacigalupo)


Postilla:

Il luogo nuovo di cui parla il testo è la sospensione. Il passaggio in quella luce tenue dell’inizio («half-light»), luce mediana tra vita e morte. Poi distanza e vicinanza in un quadro raccolto, familiare. Ma la sospensione si riattiva nel pensiero di un altro arrivo, in bilico su una superficie liquida, quasi intangibile, come imprevedibile è la forma dell’avvenire: «how a life’s new gravity suspends in water».
Infine, il luogo si trasforma nella caduta del tempo, nella sospensione tra passato e futuro che prova a manifestare un augurio, un’azione che dentro le ombre riesce nell’intento del germinare. La sospensione sposta il suo asse, “cade” nella vita: «into the shadows to seed».

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Wallace Stevens: due poesie da “Opus postumum” in “Wallace Stevens – Tutte le poesie” (I Meridiani, Mondadori 2015) – Postille ai testi

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Wallace Stevens in un disegno di Davide Racca (2015)

di Gianluca D’Andrea

Ultimo intervento mentre si annuncia il riposo estivo. La rubrica riprenderà a fine agosto. Mi piace chiudere con un autore a me profondamente caro, in occasione dell’uscita di un Meridiano che aspettavo da tanto, troppo tempo. Per questo non finirò di ringraziare Massimo Bacigalupo che così tanto ha fatto per la diffusione e la ricezione di Wallace Stevens in Italia.

Wallace Stevens: due poesie da Opus postumum (2015)

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JULY MOUNTAIN

We live in a constellation
Of patches and of pitches,
Not in a single world,
In things said well in music,
On the piano, and in speech,
As in a page of poetry –
Thinkers without final thoughts
In an always incipient cosmos,
The way, when we climb a mountain,
Vermont throws itself together.

*

MONTAGNA A LUGLIO

Viviamo in una costellazione
di chiazze e schizzi,
non in un mondo unico,
in cose dette bene in musica,
al pianoforte e con parole,
come in una pagina di poesia:
pensatori senza pensieri conclusivi
in un cosmo sempre incipiente,
così come, quando scaliamo un monte,
il Vermont si combina d’improvviso.

(Trad. di Massimo Bacigalupo)


Postilla:

Testo profondamente ricettivo, che dice molto del nostro tempo e dell’assoluto. La percezione non definibile dei primi due versi apre il quadro a una «costellazione» tutta da venire – è il sempre della prima scoperta di «un mondo» non «unico» ma sempre in propulsione verso possibilità molteplici (del dire? del pensiero? dell’arte? dell’espressione del soggetto, certo non conclusiva ma compartecipe nella sua costruzione). Solo così il «cosmo» è «sempre incipiente», riattivabile nel tentativo ravvisato che ricompone e cristallizza per un attimo il panorama (cioè il senso del quadro): «Vermont throw itself together».


A MYTHOLOGY REFLECTS ITS REGION…

A mythology reflects its region. Here
In Connecticut, we never lived in a time
When mythology was possible – But if we had –
That raises the question of the image’s truth.
The image must be of the nature of its creator.
It is the nature of its creator increased,
Heightened. It is he, anew, in a freshened youth
And it is he in the substance of his region,
Wood of his forests and stone out of his fields
Or from under his mountains.

*

UNA MITOLOGIA RIFLETTE LA SUA REGIONE…

Una mitologia riflette la sua regione. Qui
in Connecticut, non abbiamo mai vissuto in un tempo
in cui la mitologia era possibile: ma se così fosse stato…
Da ciò la questione della verità dell’immagine.
L’immagine deve essere della natura del suo creatore.
È la natura del suo creatore accresciuta,
esaltata. È lui, fatto nuovo, in una gioventù fresca
ed è lui nella sostanza della sua regione,
legno delle sue foreste e pietra dei suoi campi
o di sotto i suoi monti.

(Trad. di Massimo Bacigalupo)


Postilla:

Il Connecticut, metonimia del mondo (lo spazio raccolto di Stevens – i suoi luoghi intimi o abitudinari – non differisce dalla dimensione cosmica da cui ogni emergenza reale può essere attinta). Fabula mitologica come ipotesi possibile dell’accadere in un quadro di piena percezione. Solo «la natura del suo creatore» rende accessibile «l’immagine», come in un potenziamento della stessa nella disposizione del soggetto al reale.
La poesia esalta la natura e rigenera il soggetto (“La poesia è un mezzo di redenzione”, recita uno degli adagi di Stevens in conclusione al Meridiano), il «fatto nuovo» capace di dare parola alla «sostanza della sua regione», narrando da “dentro” le “parti” del suo mondo.
La nuova mitologia che cresce dal mondo, «from under his mountains», cui il soggetto stesso appartiene – di cui si sente parte intima, potendo, una volta rigenerato, ricostruirne la “fabula”, il mito, appunto.

 

Wallace Stevens: Ibridazione e Verità

Portrait of Wallace Stevens

Wallace Stevens

di Gianluca D’Andrea

Wallace Stevens: Ibridazione e Verità

aurore-dautunnoIn occasione della pubblicazione della raccolta Aurore d’autunno (a cura di Nadia Fusini, Adelphi, Milano, 2014), cioè l’ultima curata dal poeta americano prima della morte (se si eccettuano i Collected Poems, in cui appare The Rock), propongo alcune riflessioni su Wallace Stevens nel tentativo di evidenziare gli aspetti veramente cogenti della sua visione della poesia, e del mondo attraverso essa.
Stevens è poeta assoluto, svincolato da etichette e “scuole di pertinenza”, libero da linee incasellanti e dalla stessa “assolutezza” cui mi richiamo solo per distinguere la Poesia dalla semplice scrittura in versi.
Inizio da un appunto, che sento obbligato, per dare una giusta collocazione, a chi legge, dell’Introduzione di Nadia Fusini alla raccolta succitata. Nonostante il merito di una traduzione accurata, non è sopportabile la volontà della curatrice di leggere Aurore d’autunno come un libro “trasparente” e che “sceglie” di toccare la realtà, intesa come definitiva rinuncia all’aspetto immaginifico della parola. Non è possibile, rischio il sospetto di malafede intellettuale o, meno grave, la cecità critica, concordare con questa prospettiva che, a tutti gli effetti, manifesta una forzatura della visione stevensiana, che invece si costruisce sulla ricerca continua, mai accomodante, su una sperimentazione linguistica che segue il movimento “definitivo” del divenire, quindi dell’esistente. Provo a spiegare: la poesia di Stevens non ha mai incontrato soste o ripensamenti, solo la morte dell’autore ha interrotto il perpetuo rischio, l’ambivalenza manifesta nell’ibridazione tra Idea del Vero e realtà del vero, senza voler spezzare in due l’esistente ma accogliendone le contraddizioni, anzi esponendosi alle sue ineluttabili oscillazioni. La meditazione di Stevens non s’interrompe e Aurore d’autunno è un ulteriore tassello dell’insistente dialogo tra soggetto e mondo – così come la sua ripresa rappresentata da The Rock – nei Collected Poems – può continuare a testimoniare: «Quello stento grido era / Un corista il cui sol precede il coro. / Era parte del sole colossale, // Circondato dai suoi anelli corali, / Ancora lontano. Era come / Una nuova conoscenza del reale» (Non idee della cosa ma la cosa in sé, in Il mondo come meditazione, a cura di M. Bacigalupo, Guanda, Parma, 2010, p. 113), in cui l’immagine del «sole colossale» è trasposizione nell’universale di un particolare che viene da fuori, il grido scheletrico, sottile di un uccello concreto, ma circondato da «una nuova conoscenza del reale», quindi la cosa stessa è l’immersione di tutto nel tutto e non l’importanza della cosa estrapolata dal contesto – e stiamo parlando dell’ultima poesia di The Rock, quindi dell’ultima espressione di un percorso che non ha mai avuto bisogno di ripensamenti e scelte, semmai di affinare le proprie tecniche di scandaglio e immersione; non possiamo, infatti, dimenticare l’ossessione formale di Stevens, la sua ripetizione di modelli sempre più perfetti.
Proviamo a leggere due testi indicativi del movimento costante di questa poesia del movimento e del dialogo tra mente e alterità, di ri-discussione dell’esistente, estrapolandoli sempre dalle due ultime raccolte:

LE DOMANDE SONO OSSERVAZIONI

Nella malerba dell’estate cresce questo germoglio verde il perché.
Il sole s’ammala e patisce e poi ritorna eccolo
All’orizzonte tra adulti enfantillages.

Il suo fuoco non ce la fa a trapassare la visione
Che lo fissa, non ce la fa a distruggere i consensi antichi,
Lo vede così com’è solo il nipote,

Peter il veggente, che dice «Madre, cos’è» –
L’oggetto che sorge con tanta retorica,
Ma non per lui. La sua domanda è completa.

È la domanda di cui è capace.
La domanda ultima, l’esperto aetat. 2.
Non monterà mai sul cavallo rosso che lei descrive.

La sua domanda è completa perché contiene
L’affermazione massima. È il suo teatro,
La sua pompa e processione e sfoggio,

Per quanto il nulla lo permetta… Ascoltalo.
Non dice «Madre, madre mia, chi sei»
Come fanno gli uomini vecchi, assonnato, infanti.

(in Aurore d’autunno, op. cit., trad. a cura di Nadia Fusini, p. 171).

*

LEBENSWEISHEITSPIELEREI

Sempre più fiacca la luce del sole cala
Nel pomeriggio. I superbi ed i forti
Sono svaniti.

Quelli rimasti sono gli incompiuti,
I finalmente umani,
Nativi di un cielo scemato.

Loro indigenza è un’indigenza
Che è indigenza della luce,
Un pallore stellare che pende dai fili.

A poco a poco, la povertà
Dell’autunnale spazio diventa
Sembianza, pronuncia di alcune parole.

Ogni persona completamente ci tocca
Con quel che è e poiché è,
Nella scaduta grandiosità dell’annichilimento.

(in The Rock, trad. inedita di Gianluca D’Andrea).

Il sole ammalato o fiacco di entrambi i testi, allegoria della parola e della vita, secondo le consuetudini simboliche della poesia di Stevens, non è stigmatizzabile nella fissazione di un’evidenza della fine, piuttosto rilancia al movimento della fuoriuscita. Niente di “reale” nel senso dell’accettazione di un contesto stabilizzato, bensì la riattivazione del movimento: «Il sole s’ammala e patisce e poi ritorna eccolo / All’orizzonte tra adulti enfantillages» (vv. 2 e 3 della traduzione, l’originale recita: «The sun aches and ails and then returns hallo / Upon the horizon amid adult enfantillages»). È il movimento del Vero, l’oscillazione di un imminente ritorno, la rinascita della luce. Certo, gli infingimenti retorici sembrano attenuati, forse a causa di un dominio sulla propria materia poetica pienamente raggiunto da Stevens, che non si adagia sulla posizione raggiunta, non si ferma e non rischia manierismi di sorta, ma si aziona in un continuo rilancio e superamento.
Il secondo testo, Lebensweisheitspielerei, persegue e risponde alle atmosfere di Aurore d’autunno: «A poco a poco, la povertà / Dell’autunnale spazio diventa / Sembianza, pronuncia di alcune parole» (vv. 10-12 della traduzione, in originale: «Little by little, the poverty / Of autumnal space becomes / A look, a few words spoken»). Le poche parole rilanciano all’immagine, lo sguardo – o sembianza – è a un passo dal farsi nuovamente visione, ricominciando il ciclo esistenziale – per questo, credo, le stagioni nel mondo di Stevens nient’altro sono che la vita con i suoi alti e bassi. Gli alti della Visione – la mente, l’idea etica – e i bassi – il mondo che non è ridotto alla frammentazione in oggetti. Ossessiva (l’idea fissa del poeta americano) revisione, scontro anche, per cui il soggetto si perde e ritrova in un giro di ritorni e ripartenze creando un’aderenza globale che ne modifica i connotati poetici (l’accomodamento su uno dei due termini della questione – realtà o immaginazione – condurrebbe alla stasi, alla neutralizzazione del ciclo. Invece l’idea per fissarsi non può che continuare a muoversi nella ricerca).
L’agonismo finge l’ipostatizzazione del reale nella mente, Altro e Io desiderano aderire fino alla fusione (cfr. il titolo The Rock, dell’ultimissima raccolta) ma l’illusione – che è la spinta del soggetto verso il mondo – si placa per l’impatto ostruente del reale, facendo ripartire un movimento discendente. L’alternanza tra anabasi e catabasi nell’esistente è il Vero, la relazione ambivalente tra Io e Mondo, senza scelta definitiva, se non quella dell’aderenza a questo movimento, ancora vibrante nelle sue accensioni e nelle sue cadute.
Per dimostrare quanto esposto, basta rileggere con attenzione quanto lo stesso Stevens andava teorizzando. Le date di pubblicazione di alcune sue riflessioni sulla poesia, poi confluite nella raccolta di saggi L’angelo necessario – Saggi sulla realtà e l’immaginazione (1951), sono lì a confermarlo: Effects of Analogy, è stato pubblicato nel 1948, Imagination as Value, nel 1949 (Aurore d’autunno è del 1950). In queste riflessioni si può leggere: «La grandezza del poeta dipende dalla grandezza dell’idea che egli ha del mondo e dalla misura in cui questa include l’idea che gli altri hanno del mondo» (Effetti dell’Analogia, in L’angelo necessario, a cura di M. Bacigalupo, trad. di G. Scatasta, SE, Milano, 2000, p. 108). Nessuna intenzione, quindi, in Stevens di abbandonare il reale richiudendosi nella gabbia iperurania dell’astrazione, piuttosto continuare il dialogo tra il soggetto e una realtà che è partenza ma anche attrito, infatti: «L’immaginazione è il potere della mente sulla potenzialità delle cose; questa potrebbe essere una sua propria caratteristica, che però non genera un valore specifico ma tanti valori quanti ne esistono nella potenzialità delle cose» (L’Immaginazione come Valore, in L’angelo necessario, cit., p. 117). Per Stevens, e ci sembra di poter concludere, la poesia – il poeta lo afferma chiaramente in più occasioni, come esposto in un celebre saggio su L’angelo necessario (C. Doyle, Wallace Stevens: The Critical Heritage, London, Routledge, 1985, p. 354-356) – è un mezzo per conoscere la verità, cioè, la totalità dell’esistente e non, lo ribadiamo, la scelta di un unico punto di vista.

(Marzo 2014)