Mario Benedetti (1955-2020) – poesie estratti – in memoria

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Mario Benedetti (Foto di Dino Ignani)

Estratti da Materiali di un’identità

materiali di un'identità

«Riguardo al mio morire è stato per me un difendersi, un difendersi strenuamente. Non più. Ma non faccio fatica. Come dentro un’epidemia, vivo nel casuale».

*

«La finitezza del mondo non è intesa come disvalore ma vi è un’accettazione della realtà così come essa si presenta: una compresenza di pezzi tra loro slegati, ossia che non hanno senso, che coesistono senza che si cerchino le spiegazioni delle loro relazioni reciproche».

*

«Essere effimeri, transitori, perituri, caduchi significa più particolarmente vivere in modo affrettato e irresoluto, caotico, multiforme, ossia in modo incompiuto. Noi siamo in rapporto con le cose e per ciò stesso vogliamo compenetrarci con esse, vogliamo essere una analogia, in equilibrio con l’esterno. Ma il nostro cuore, il nostro sentire, ci eccede».

*

Non erano tuoi gli occhi,
luce indurita in viso, mani.
mi chiedi qualcosa e non sei qui
maglia come sandali, e altro.
Come tutto è finito
ora che mi avvicino ai colori e non a te.

*

Ecco l’azzurro.
Due, siete stati, diverrete, diverrò.
Ecco l’azzurro.
Darvi la vita, darmi la vita.
Dillo.

Estratti da Pitture nere su carta

pitture nere su carta

E questi altri colori,
fiato maculato da corpo a corpo.

La pelle che hanno voluto, data,
per vivere. Ora hanno i tuoi occhi.

E il rosso, il blu, l’arancio, il viola.

Sai l’odore,
dove richiamata corri. Sempre.

Infinite mattine, infinite notti.
Va dolce il nulla,

il dolcissimo nulla.

*

Ammassi globulari, ammassi aperti.
Occhi codificati nel giallo, nel viola, nel nero.

Spirali del pianeta descritte dai cicloni.
Aberrazioni ottiche, di sfericità.

Amigdala su lava, amigdala in quarzite,
amigdala in calcare, su osso di elefante.

Oh fulmine, alone del sole, alone della luna.

*

Una faccia fra molte è la faccia che ho,
le mie dita sono fra molte.

Spasmi estrogenici, androgenici.

Corpo, quale opaca felicità,

illusa dal Titano, ci dai. Sono strazio
i volti. O magia di una scienza

le microparticelle del nulla, del nulla.

Tutti i cammini possibili. Amore. Invisibile.

Quanto sento? e come, dove,
onda del mio stare qui e stare via.

*

Lo scheletro del tarso
si allunga e si restringe.

Steli di capelvenere,
steli di viola farfalla.

Steli di erica, licheni,
licheni abbarbicati.

Estratti daTersa morte

tersa morte

Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità
commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani
vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio.
Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Sei solo stanco, ripete una voce qualunque.

*

Le parole non sono per chi non c’è più.
Si commuovono e possono dire il viso morto.
Gli occhi erano quelli che mostrava,
il vestito sepolto quello visto altre volte.
Vedere che non ci sei più, non dire niente.

*

Il sosia guarda, la vita ha deciso.
Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo.
È avvolta nella coperta sui piedi,
il figlio senza lo stomaco mangia i pezzetti di trota
sulle scatole dello yogurt medicinale.
Giocato a carte nel bar del paese. Non visto il due.
Bevuto il caffè con la diarrea refrattaria.
È una storia per tutti questa morte.
Nella casa il sosia tocca le dita della madre
dicendole che il figlio è morto. Dopo la pleurite
un mese prima di compiere gli anni lei
ha detto: anch’io e la nostra casa non ci siamo più.

*

Vedere nuda la vita
mentre si parla una lingua per dire qualcosa.
Uscire di sera rende la sera più bella
ma è il poco sole obliquo la sera senza parole.
Vedere nuda la vita quando c’eri con le tue cose.
Adesso le cose sono sole,
non c’è la promessa del tuo svegliarti
e continuare con le ciabatte, le tazze i cucchiai.
Non è valsa la pena affaccendarsi.
Il gioco dei giorni è la promessa che non sapevi
a perdere sempre da prima.

*

Nella grotta del bosco Làndri

La frana di braci si alza sulle foglie di acero
e in basso la grappa con il tabacco da fiuto,
i cartocci delle pannocchie per le sporte da fare:
notte fatta di attimi, pereti che si scuotono,
pensieri che si divincolano e si addormentano.
E torna la domanda. Non saprai di essere morto,
non sarai, quel nulla che nella vita diciamo
non sarai, non ci sarai più, non saprai di te.
Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere
la pura inconcepibile assenza, non distrarti.

*

Come testimoniare i morti,
vivere come lo fossimo,
morire come lo siamo. Per la vita
è la scoperta
della morte e della vita.

*

Dai del tu ai morti, stai al posto di te, anche.
Ma il viso ghiacciato è sempre qui, il viso
che non parla, che non si muove. E ogni vita
era questo: interezza create continuamente
per un dopo che non ci sarà più o è già stato.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (49): FORSE LA FINE

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Sequenze dal film Gli uccelli

di Gianluca D’Andrea

O forse non era la fine. «La nostra vita, un lungo paesaggio che rimane dopo di noi» (Mario Benedetti, Materiali di un’identità, Massa, 2010, p. 33), ma è questa idea di paesaggio e di immagini dentro il paesaggio a riproporre una scelta. Scelta, in primo luogo, dell’immagine che potrebbe funzionare come iscrizione. Ma il paesaggio è qualcos’altro a causa dell’inserzione della cosa nel contesto e che lo trasforma in maniera artificiosa. Landscape che diviene testimonianza del luogo e dell’azione-inserzione dell’uomo. Questa è anche l’illusione di una fuoriuscita dalla cosa in sé e una ricaduta nel soggetto. L’interesse non cade sulla “storia”, la trama di un eventuale racconto sarebbe comunque un pretesto per esporre una “critica”, una messa in crisi della potenzialità immaginifica di ogni linguaggio – il campo dell’agone è ancora il senso, solo che occorre reinventare una trasmissione attraverso la ricomposizione dei frammenti per individuare un cammino.
Una grande paura può aprirsi appena a un passo di distanza dal contesto banale, ripetitivo, seriale che identifica la realtà “occidentale”. L’ignoto è la perturbazione che sorge all’incrocio tra controllo e noia, l’esempio maggiore del Novecento viene, forse, proprio dal mondo dell’immagine. Nel cinema di Hitchcock avviene spessissimo che l’ignoto “attacchi” nel reale e si renda indescrivibile (vedi, soprattutto ma non solo, Gli uccelli).
In uno slancio metafisico che annulla il vecchio contesto e il vecchio soggetto, cioè il tempo dentro il paesaggio: «ora che mi avvicino ai colori e non a te» (Mario Benedetti, Materiali di un’identità, cit., p. 53).

Per il fine settimana – Cristiano Poletti suggerisce Mario Benedetti

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Vincent Van Gogh, La panchina di pietra, 1889. Olio su tela, 45 x 51. Museo d’arte di San Paolo, Brasile

Mario Benedetti, da Tersa morte, Mondadori 2013

Il tram a Milano in viale Monte Nero,
eri seduta a guardarlo come guardavi i treni.
Con la bicicletta senza i freni,
dopo il passo di Monte Croce
per andare a Attimis, a Forame,
è stata una fortuna non cadere, sfracellarsi.
Sapevo che c´eri, che eri vicino a guardare
mentre io pensavo, e ti trattenevo.
Come una foglia tra le foglie
eri sulla panchina. C´erano alberi e alberi,
e il tuo viso, il vestito del solito blu.
Madre, persona morta
in viale Monte Nero, sulla strada per Attimis,
per Forame dove sei nata.

(p. 22)


Niente di finto, o falsato. Un soffio, questi versi. Una voce, forgiata dalla solitudine, dice di vedere nuda la vita. La vita della madre, che il poeta trattiene per intero nel dipinto di un ritorno. La trattiene perché dentro quel dipinto ritrova il codice della sua stessa esistenza.
Bastano pochi tratti: una bicicletta, il colore usuale di un vestito.
Guardare è il cuore, ripetuto, di questa poesia. Umili, gli occhi: di fronte hanno il corpo deposto. Il linguaggio è plastico, vuol farci toccare la perdita. Non è idea, è corpo appunto, carne. Con parole che sono sulla pagina (luogo della deposizione) perché non sono, semplicemente non sono più, fuori dalla vita.
Ecco, oltre o prima di ogni stilistica, qui si mostra un corpo a corpo, tra non dire più e doverlo comunque dire: “mentre io pensavo”, la madre c’era, era “vicino a guardare”.
Prima della voce che lo dice, prima del linguaggio, lei come lo sguardo, era (ed è) l’inizio, sempre.

Cristiano Poletti


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Mario Benedetti (foto: Dino Ignani)

Mario Benedetti (Udine, 1955) si è laureato in Lettere con una tesi sull’opera di Carlo Michelstaedter all’Università di Padova, e si è diplomato poi in Estetica presso la Scuola di Perfezionamento della stessa Facoltà universitaria. Nel 1994 si trasferisce a Milano. È stato tra gli animatori della rivista di poesia “Scarto minimo” (1986-1989). Le sue opere poetiche sono: Secoli della primavera (1992), Una terra che non sembra vera (1997), Il parco di Triglav (1999), Borgo con locanda (2000), Umana gloria (2004), Pitture nere su carta (Mondadori, 2008), Tersa morte (2013). Nel 2010 ha pubblicato la raccolta di prose poetiche Materiali di un’identità.

BREVI APPUNTI SULLA FINE: “Tersa morte” di Mario Benedetti, Mondadori, Milano 2013

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Mario Benedetti (Foto di Dino Ignani)

BREVI APPUNTI SULLA FINE: Tersa morte di Mario Benedetti, Mondadori, Milano, 2013

Mario Benedetti couverture - CopieAria asciutta, prosciugata da un linguaggio scabro, superfici essenziali e grezze: questa l’atmosfera, questo l’ambiente in cui si struttura la vicenda dell’ultimo libro di Mario Benedetti. La riflessione pare accendersi sulla condizione dell’essere postumo che è l’uomo contemporaneo, superstite di un passato scomparso e impossibilitato, nonostante la presenza nel ricordo, a intraprendere nuove prospettive, lo dice bene una delle ultime composizioni della raccolta:

Duomo-Pasteur

Sono questo, questa mortalità
che mi assedia, che si concentra
negli occhi, nelle mani. Intorno
sono mute le cose, le facce
che si muovono senza motivo,
e sento dissolvermi tra questo.

(p. 84)

Il tema dell’afasia adombra l’intera operazione donandole un tono cupo e la condizione di superstite del soggetto (del sosia, l’alterità fagocitata a forza), cui accennavamo, fa slittare e scivolare la parola nel gioco superfluo della superstizione dell’impossibile a dirsi, quasi una nostalgia che rifiuta il senso del tragico, un’elegia da “dopo il diluvio”: «Quante parole non ci sono più», «Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole» (Quante parole non ci sono più, p. 15, v. 1 e v. 5). Così, anche se il timbro non appare quasi mai lamentoso, l’elegia si affaccia e proprio dove la solita riflessione sul nichilismo, tenta di arginare lo slancio metafisico delle parole in direzione del nulla, della non pronuncia. Ecco allora che, nonostante la sfiducia, ambiguamente le parole continuano a salvare, come fossero agenti metafisici che si sollevano da un sostrato terreo, quotidiano (i campi friulani, la pianura, i paesaggi urbani, Milano?). Anche il riferimento epigrafico da Vallejo ci indirizza verso questa lettura, in cui le tematiche del dolore, della morte e familiari introducono lo scontro tra la forza quasi trascendentale del dire e l’impossibilità di conoscere con assolutezza le vicende del reale, laddove il linguaggio tendendo continuamente a tale conoscenza non fa altro che ribadire la sua sconfitta («Hay golpes en la vida, tan fuertes…¡ Yo no sé!, C. Vallejo, Los heraldos negros, v. 1, 1919)».
Nel tentativo di riportare la lingua al grado zero del comunicare per “trucioli” di senso, il soggetto si ferma sull’orlo della scomparsa, ma è proprio in questa sosta che riscopre il proprio “esserci”: «Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia,/ io nella mia vita non ho letto nessuna poesia./ E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta» (Devo tenerlo per mano, p. 23, vv. 12-14). Anche i giochi della litote, ovviamente, contribuiscono a creare un’atmosfera attenuata, un movimento timbrico in levare, che non escludono la presenza concreta di attori, per quanto lontani, defunti, nella memoria allucinata, causa il dolore attraversato, del soggetto poetico. Alcuni passaggi confermano che la pur sempre tenue dilacerazione del dire, continuando a resistere nella spinta “comunicativa”, scivola nella visione, apre passaggi a nuovi sensi: «… Così fragile il tuo sorriso,/ lo sguardo blu e gli zi-gomi…» (Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi, p. 28, vv. 8-9) oppure «I visi senza le ossa, le nostre cartilagini/ tra la sterpaglia sollevano letti di foglie/ come farina e acqua impastate senza mani» (I visi senza le ossa, le nostre cartilagini, p. 41, vv 1-3). Il punto di partenza di questa “diversa” visuale sembra risiedere nelle facoltà “allucinogene” del dolore; per cui la morte, essendone parte integrante, sconvolge la vita, modifica le certezze, annienta la quotidianità? Si vive ancora ma come abitando due mondi: il quotidiano e il ricordo che mescolati creano il cortocircuito di senso, l’allucinazione cui facevamo riferimento. Ogni vicenda umana non può evitare la memoria del dolore, anche il nostro “eterno presente” fa i conti con questa evidenza, per mezzo della voce infinitesimale dei poeti, coll’“infimo inizio” rappresentato dalla loro parola “memoriale” («Questo infimo inizio prende origine dal fatto che l’uomo, a differenza degli animali, sa di dover morire: il suo essere-per-la-morte rende impossibile trasformare la morte in un presente. Essa rimane l’unica assoluta certezza […] che si sottrae a ogni qui e ora, che rimanda a una prospettiva più ampia, che contiene un passato e un futuro», M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009, p. 135): «Anche se è stupido diluire la morte// con la vita, non farti questa domanda» (Non potevi saperlo. C’era solo l’erba, p. 38, vv 12-13).
Il tempo è in sospensione, l’elegia riemerge nella “pochezza” di una sera di ricordi, in un passato che sembra migliore perché si riusciva a «Vedere nuda la vita quando c’eri con le tue cose./ Adesso le cose sono sole» e, quasi leopardianamente, «Il gioco dei giorni è la promessa che non sapevi/ a perdere sempre da prima» (Vedere nuda la vita, p. 43, vv. 5-6 e vv. 10-11). La consapevolezza del soggetto di essere una “vicenda” tra tante si esprime nel travolgimento che l’individuo subisce dal tempo stesso, dal susseguirsi di date; un barlume di ricordo riaccende il dire, il quale, però, è circondato dal cerchio chiuso dell’evidenza, tra le parentesi monolitiche dell’inizio e della fine di un momento – sia un componimento, una frase, una parola – il quale sarà sempre eterno ma anche dimenticabile, effimero. La poesia sorprendente sul padre morto ci dice tutto questo con una chiarezza lapalissiana:

Padre morto, ci sono altre generazioni.
Non sei stato la storia, sei stato l’umiltà
delle cose minute. Ma a chi importa?
Hanno già saputo dimenticarci, catalogare
uomini con uomini, donne con donne.
Forse da sempre. Ma se tu non c’eri
non c’era nessuno, lo sanno? È troppo
per loro, prole serva di vita, superba.
Dire di te è come dire di me, e del sonno.
Lettura amara è La ginestra del poeta.
Padre morto, ci sono altre generazioni.

(p. 52)

La sezione Idiot boy (p. 55) sembra, apparentemente, un’isola nel contesto del libro. Si prova il racconto delle vicende, sempre “in memoria” la storia, per quanto frammentata, concede nuovamente la potenza delle sue capacità affabulatorie, narrando anche eventi di comunione, come in Fiaba (p. 61), trasponendoli nel mito; aleggia, in questa sezione, una riflessione sulla tradizione, sulla capacità del racconto di trasmettere un messaggio, universalizzando un’evidenza concreta, mi auguro possano esserci ulteriori sviluppi nella poetica di Benedetti in questa direzione.
Nella sezione Non distrarti (p. 63), la parola rivendica nuovamente le possibilità allucinatorie derivanti dal dolore. La necessità arcigna, forse un po’ vanitosa, di alienazione rispetto al contesto, dopo la sezione precedente, sembra voler ribadire che l’immaginazione può suscitare nuove aperture e trasmissioni solo per un attimo, la realtà, però, resta angosciante e la fantasia vibrante del mito può incontrare subito, nello stesso soggetto, i fantasmi del passato, anzi è necessario che questo avvenga: «Evapora il morire. Nel plasma della casa/ non stanno carne con la carne e il mio dito preme/ un fumo colorato, sotto la pellicola, nel suo disegno» (Video, p. 66, vv. 7-9).
Nell’ora dell’azzurro cupo, penultima sezione del libro (p. 67), si apre con un frammento che riconferma il legame vita-morte. La testimonianza s’istalla sulla definitiva considerazione di questo legame, rendendo i vivi assimilabili ai morti:

Come testimoniare i morti,
vivere come lo fossimo,
morire come lo siamo. Per la vita
è la scoperta
della morte e della vita.

(p. 69)

Un’atmosfera d’accettazione domina l’ultima parte di Tersa morte, di dissolvimento della parola nella rassegnazione al dolore: «No non importa quello che si vede, non importa/ quello che si dice o quello che si scrive» (Fotogramma del fratello morto, sbiadito, p. 78, vv. 5-6). Il movimento si ribalta (definitivamente?) verso la fine, la memoria vivifica l’esperienza della morte, ri-annuncia il racconto delle vicende e gli aneddoti, pur certificandolo, leniscono il dolore: «E dire dei morti come se fossero/ ancora dei vivi, come è neces-sario/ sorridere quando si è in compagnia» (Ritornare nei giorni, mandarli avanti, p. 81, vv. 5-7). Nel grande sforzo che il soggetto esercita per reagire allo stesso dolore, in cui tutto l’essenziale dell’intensità di questa sensazione non sembra elaborabile, si verifica un approccio, si vede l’esterno nella necessità di continuare e anche se «È un’ora assente», «Si vive ancora, sì, si vive ancora», restando sempre il monito che la fine esiste e i contatti si dileguano, infatti «non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia» (È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora, p. 86, vv. 1-2).

Gianluca D’Andrea
(Ottobre 2013)