Venerdì 09 settembre 2022: CostArena – Bologna, letture da Nella spirale in dialogo Marilena Renda e il suo Fuoco degli occhi.
Tag / Marilena Renda
Poesia e alterità: Orientamenti spazio-ambientali (attraversando l’opera di 6 autori siciliani contemporanei) – Un mio saggio per l’Ulisse
POESIA E ALTERITÀ: ORIENTAMENTI SPAZIO-AMBIENTALI
(ATTRAVERSANDO L‟OPERA DI 6 AUTORI SICILIANI CONTEMPORANEI)
Premessa breve
Nel saggio Letteratura e ecologia, Niccolò Scaffai afferma: «l‘idea che la natura debba essere preservata dalla tecnica, e che la sua essenza sia da mantenere segreta e inaccessibile, può sembrare coerente con una forma di sensibilità ecologica ante litteram»(1). Tra salvaguardia e nuove germinazioni si muove da sempre la tecnica della poesia, in quanto coscienza della verità del mondo. Come in una camera d‘incubazione essa produce sostanze secondarie, da grammatiche esistenti nuove costruzioni. Come nell‘infimo inizio del pensiero confuciano, occorre tutta l‘attenzione per riconoscere i segnali d‘insorgenza del nuovo e la poesia può assumersi il ruolo di vedetta per la sua inclinazione al vero, come clima del mondo, climax.
Solo immaginando altre forme di esistenza e figurandoci il mondo come potrebbe essere, possiamo ancora sperare in un «nuovo nomos del nostro pianeta» (seguendo una dichiarazione di Carl Schmitt(2)), perché «lo invocano le nuove relazioni dell‘uomo con i vecchi e nuovi elementi, e lo impongono le mutate dimensioni e condizioni dell‘esistenza umana», e non solo umana.
Partendo, allora, dalla relazione tra parola della poesia e mondo, tenterò di individuare, raccontando i testi di alcuni autori siciliani degli ultimi decenni, spunti e connessioni con le dinamiche ambientali, nella possibilità di apertura a nuovi orizzonti di senso.
Intro
«Anche la poesia […] si trova ad essere investita di un ruolo paradossalmente fondamentale: quello di instaurare, magari ricreandole ex novo, le pur esilissime connessioni vitali tra un ―passato remotissimo‖ e l‘odierno ―futuro anteriore‖ […]. Resta ferma, insomma, la convinzione che la poesia debba ostinarsi a costituire il ―luogo‖ di un insediamento autenticamente ―umano‖, mantenendo vivo il ricordo di un ―tempo‖ proiettato verso il ―futuro semplice‖ – banale forse, ma necessario – della speranza»(3). Così Andrea Zanzotto, nel 2006, introduce un nuovo, necessario, percorso che la poesia ha l‘obbligo di attraversare, per rispondere alla trasformazione etica in atto, incentrata sulla relazione soggetto-mondo. Seguendo questa suggestione, allora, la poesia non sarà solo traccia e testimonianza di questo rapporto ma potrà permetterci di riconoscere ―dall‘inizio‖ una diversa collocazione dell‘umano all‘interno di un contesto al cui mutamento ha da sempre contribuito.
Proprio perché si avverte l‘urgenza di focalizzare le coordinate di un nuovo inizio, che riattivi il contatto ―ambientale‖ uomo-mondo, non ho potuto fare a meno di tornare alle origini, riattraversando alcuni testi di autori siciliani, come si diceva, in cui sembrerebbero emergere le stesse urgenze.
Dall’inizio – Ultima puntata sull’EstroVerso
Sull’EstroVerso l’ultima puntata della rubrica che ho curato per 2 anni e 8 mesi con Gabriel Del Sarto. È stato un viaggio lungo ma prezioso, così bello che non può finire qui. Ad maiora! Dall’inizio, sempre. Di seguito i nostri ringraziamenti e l’arrivederci ai lettori.
Il più grande abbraccio a Grazia Calanna perché non esiste ospitalità più ospitale della sua.
Attrazione, ancora
Ma dimmi, chi sono, questi girovaghi, questi anche un po’
più fuggitivi di noi…
Rilke
Giunti alla fine del viaggio, ci auguriamo che la riflessione aperta dalla rubrica “Dall’inizio” abbia stimolato e possa continuare a farlo, l’urgenza di riconciliazione tra parola della poesia e mondo. Se con “mondo” s’intende lo spazio liminare di cui il testo necessita per creare nuovi spiragli di senso, allora in gioco sarà la capacità ri-creativa sempre fondante della poesia. Per questo, speriamo che tra “apertura” e “chiusura”, inevitabili nello sforzo autointerpretativo degli autori coinvolti, sia trapelata l’urgenza di trasmissione della parola, la sua tradizione: la “consegna” originaria, cioè, della scelta, con tutto il carico di ambiguità che comporta fino al rischio estremo del tradimento del senso.
Mantenere alto il livello di attenzione e custodia, allora, perché questa consegna continui a essere sempre “dall’inizio” e perché, come ci suggerisce Carmen Gallo al termine del suo intervento, «occorre ridere o piangere, […] restare in movimento».
Ringraziamo tutti gli autori (Vito Bonito, Giovanna Frene, Maria Grazia Calandrone, Federico Italiano, Filippo Davoli, Andrea De Alberti, Vincenzo Frungillo, Laura Pugno, Luciano Neri, Marilena Renda, Italo Testa, Francesca Serragnoli, Tiziana Cera Rosco, Marco Giovenale, Francesca Matteoni, Gilda Policastro, Andrea Inglese, Massimo Gezzi, Azzurra D’Agostino, Tommaso Di Dio, Davide Brullo, Laura Liberale, Renata Morresi, Matteo Pelliti, Marco Simonelli, Lorenzo Mari, Davide Castiglione, Bernardo De Luca, Maria Borio, Carmen Gallo) che hanno partecipato alla rassegna e nel dire arrivederci ai lettori li ripresentiamo in ordine di apparizione, come viatico per quei “nuovi inizi” da loro raccontati che invitano a un ritorno, a «non fermarsi […] (non per sempre)».
Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto
Dall’inizio (Marilena Renda)

Marilena Renda
Su L’Estroverso Marilena Renda per la rubrica Dall’inizio. Di seguito un estratto.
Il battito d’ali del disastro
Anni fa c’era un’immagine che non voleva saperne di uscirmi dalla testa, un fotogramma da road movie in cui una donna parte per un viaggio insieme ad alcuni amici. La donna vuole trovare una ma’ara, in siciliano una maga, una di quelle figure della Sicilia arcaica che compivano azioni magiche tipo far innamorare un uomo o proteggere persone e bambini dagli spiriti o dalle fatture in cui la vittima dell’incantesimo è come “legata” da un intervento esterno e non riesce più ad agire liberamente.
La donna del mio fotogramma ha intenzione di chiedere alla ma’ara di aiutarla ad avere un bambino, e gli amici sono lì per sostenerla. Tuttavia, ognuno di loro nasconde un difetto originario; il luogo da cui provengono è stato colpito molti anni prima da un evento traumatico di cui, come in un libro di Krasznahorkai, non sappiamo nulla: un evento che ha fatto sì che questi amici si trasformassero, ognuno in modo diverso, in creature incapaci di trovare una direzione.
Nel 2007 ho scritto un libro che rievocava il trauma della mia famiglia, ovvero il terremoto del Belìce del 1968; da allora sono passati diversi anni, ma la metafora della terra che si spacca e inghiotte le vite degli esseri umani – in generale, direi, la metafora del disastro (da qualche parte sento sempre la voce di Blanchot che sussurra: Il disastro si prende cura di tutto) – è ancora quella che mi contiene in modo più completo, nonostante la baraccopoli non esista più e il terreno sia apparentemente solido sotto i miei piedi.
Nel frattempo, la nostalgia non ha fatto che espandersi invece che ridursi; con gli anni ho capito che l’isola è una madre con cui ho un conto in sospeso, e per pagare questo conto ho fatto il giusto spazio per infilarci sia la nostalgia per un luogo dell’immaginazione che quella per una madre abbracciata troppo poco. L’isola è al tempo stesso una cattiva madre che ti nutre poco e male, lasciandoti insoddisfatta a elemosinare nutrimento per il mondo, e un miraggio dalla forma e dai contorni incerti, un miraggio che immagini debba essere bellissimo, una volta raggiunto, e non dubiti che prima o poi lo raggiungerai. In alcuni romanzi di scrittori siciliani (Bonaviri, a cui è dedicato il testo che segue, Consolo, Vittorini) è ben presente il topos dell’attraversamento del paesaggio; i personaggi viaggiano per arrivare da qualche parte, come i pastori di Vittorini, o per portare a termine un compito metafisico (i viandanti di Bonaviri, per esempio, che attraversano le campagne attorno a Mineo per innestare il corpo di un neonato in un albero, sperando così di ridare vita al corpo morto del padre del protagonista). Il paesaggio siciliano, nella realtà, è composito, antropizzato sulle coste, quasi deserto al suo interno. È una madre dal passato mitico che è stata molto maltrattata nei secoli; aveva molti doni da offrire, e adesso i suoi figli lamentano una povertà che possono addebitare solo a se stessi. In un codice del 1390 circa è raffigurata una pianta di mandragora dalla forma di bambino. È un homunculus, radice dalla forma vagamente umana che nel Medioevo si credeva avesse dei poteri magici e potesse, tra le altre cose, sconfiggere il malocchio e la sterilità. Questo bambino-pianta, potente e notturno, possiede un doppio segno, potendo essere utilizzato sia per la magia bianca che per quella nera, ma rappresenta ogni madre e ogni bambino, perché madre e bambino desiderano sia la simbiosi che la separazione.
Quando iniziai a pensare a un libro di viaggio in Sicilia, il bambino-pianta rappresentava l’ambivalenza della terra in cui può germinare ogni sorta di creatura: è il dominio dell’indifferenziato, in cui può nascere letteralmente tutto, per questo il personaggio di Notti sull’altura di Bonaviri si illude che la forza che l’ha generato possa rinascere ancora:
Raccontami di nuovo la storia del bambino
che al tramonto strapparono alla madre
per innestare il suo corpo nel carrubo,
perché dalla circolazione di linfe e succhi
gli uomini ricavassero nuovo nutrimento.
È il padre che deve cibarsi dei frutti di questa pianta,
mangiare carne giovane mescolata a foglie,
in modo da tornare dalla morte al figlio che lo cerca.
Raccontami ancora come il figlio si illuse
di riportare il padre sulla terra e ribaltare le leggi di natura,
di come la madre si trovò perduta, in mezzo alla terra,
perduta, e poi che trovò il figlio-pianta sul punto della morte,
lo abbracciò dimenticandosi tutta l’altra vita.
Exit alla Libreria Popolare di Via Tadino – Antologia di poesia siciliana
con Francis Catalano, Marilena Renda, Luciano Mazziotta, Diego Conticello, Rosemary Ann Liedl
Exit alla Libreria Popolare di Via Tadino
Exit numéro 92
Poésie sicilienne : la parole peut alarmer la cible
Dossier préparé par Francis Catalano
avec la collaboration de Gianluca D’Andrea et de Diego Conticello avec des poèmes de Franca Alaimo, Maria Attanasio, Francesco Balsamo, Diego Conticello, Gianluca D’Andrea, Giampaolo De Pietro, Nino De Vita, Antonio Lanza, Luciano Mazziotta, Marilena Renda, Margherita Rimi, Pietro Russo, Patrizia Sardisco et Angelo Scandurra.
Un grazie a Francis, Antonella e alla redazione di Exit per questo splendido dossier.
Marilena Renda “La sottrazione”, Transeuropa, Massa 2015

Marilena Renda
SI AGGIUNGANO I BAMBINI: Marilena Renda, La sottrazione, Transeuropa, Massa 2015
Ci sono questi bambini, i padri estranei, le generazioni sfaldate e l’ombra che interviene spettralmente sulla storia e sul tempo. Perché La sottrazione di Marilena Renda vuole essere il resoconto “in levare” di un’epoca, la cancellatura graduale dei segni («Devi abbandonare le parole stanche», p. 10) che non dicono più il presente. Sembra crearsi uno spazio, un vuoto che, comunque, inclina al riempimento. Il libro si chiude su un racconto (Bambini, p. 70) dopo aver considerato la dissoluzione del senso.
Il desiderio di ritrovarsi «in mezzo alle cose/ che sono tutte nuove» (p. 11) non smette di rievocare la precarietà e lo straniamento che hanno portato a questa necessità. Così la sottrazione del titolo è una forma di sopravvivenza, un “repulisti” nel declino: «I paesi che hanno vissuto una catastrofe – scrive Olson -/ in particolare quelli che hanno perso una guerra/ sopravvivono meglio a ogni forma di declino» (p. 12).
Resistenza dei corpi in ombra, dell’immagine nella memoria, in un paesaggio che la mente cerca di assemblare e agguantare con uno sforzo di fantasia: «Ti ho preso a poco / e quando ti ho portato a casa / ho visto che sulla camicia / avevi una macchia / ma stavi appoggiato alla finestra / e tenevi dritta una sedia rotta» (p. 14).
Le azioni avvengono, dunque, nell’oscurità del presente («Ti spiegherei volentieri i segni del mondo, / ma al buio come siamo è facile sbagliarsi», p. 17) come in un’interrogazione continua, in cui anche la possibile sicurezza della dimora è ridotta a una visione scheletrica del paesaggio, una città fantasma: «Quando siamo arrivati qui / la città era uno scheletro» (p. 21).
La parola si dispiega nell’incertezza, ma una nuova forma di fiducia emerge dalle pagine, a tentoni. Per salti logici prova a ri-articolarsi una sintassi: l’ordine ricreato dalla perdita del soggetto.
La riflessione sulla “casa” immette nel mondo, quello che si vuole finito, «Arriva il giorno che il mondo scompare» (p. 33), e quello che avanza dalle macerie del primo: «Siamo la città che si getta nel mare, siamo / la spiaggia intatta dopo l’inondazione» (p. 37). La catastrofe si apre su altre trasformazioni, ibridi, «Maschio e femmina insieme, sulla soglia della capanna» (p. 27), che si auspicano ricondotti a una nuova unità (l’intatto di cui prima), «Di due fogli che si incollano, il risultato è: / si rompono o si attaccano, di due l’una» (p. 32).
Le forme del libro riflettono il mutamento e l’ibridazione: prose e endecasillabi, versi lunghi liberi di franare ed espandere o contrarre il testo, una trama difforme, tra l’incertezza e il mostruoso. La fiducia traspare da una retorica dell’errore («Il giorno che fu aperto il mare Noè/ – no, non fu Noè, fu Mosè», p. 29) che viene accettato e predisposto a una conversione del senso: dal male la rinascita, il riscatto della parola nelle sue capacità plastiche di aderire alle deformazioni del reale (ecco la fiducia di cui si parlava). Quindi regressioni (epanodo giustificativo o “confusivo” nell’episodio di Noè/Mosè prima accennato, per evidenziare l’errore), adynaton, «Devo stare fermo tutto il giorno/ ma a un certo punto – forse – potrò muovermi» (p. 43), senza subordinazione tra i fatti, ma apertura alla possibilità come all’impossibilità degli stessi.
La sottrazione del significato e l’accostamento per errore fanno migrare l’operazione verso un paradosso oscillatorio, forse anche manierato, e nell’indecisione – almeno all’altezza dei testi centrali, tra la prima e la seconda parte – tra apertura e chiusura al mondo. Non fosse per l’ironia che permette al lettore di partecipare alla favola buffa dei bambini senza storia che vogliono sposare i cani (vedi p. 46), rischieremmo di vivere nell’attesa perenne di uno scarto o di una fuoriuscita dal niente che il passato (il Novecento) ha spalancato. Potrebbe non sembrare, ma l’esercizio quasi rieducativo compiuto dal soggetto per entrare in relazione con la fragile alterità dell’infanzia, annulla il sarcasmo e apre alla descrizione, per quanto metaforica – non sobria ma più umile – delle esperienze: «Se mi tagli in due, metà è della mamma / e metà di papà, che è morto e non lo sa. / Una parte andrà a Messina, l’altra a Tirana…», esempio in cui pare intravedersi un fatto accaduto, referenza – cioè maggiore confidenza – col reale, compartecipazione della finzione.
Il rinvio a qualcosa d’altro, che non sia l’incapacità di dire del dire, è lo spiraglio che il libro dischiude come ci mostra esemplarmente la prosa finale di cui parlavamo all’inizio. Bambini, in cui appaiono la vita e un tu che si muove in essa, quindi un noi che è sentimento d’appartenenza.
Dalla lingua ridotta e perduta, in cerca della rinascita, all’affabulazione, a un racconto che può ritrovarsi aprendo gli occhi sui dati esperenziali, sugli indizi che l’esistenza, con le sue fatiche e devastazioni, può ancora essere in grado di offrire.
Gianluca D’Andrea
(Settembre 2015)

Mel Bochner, Language is not transparent (1969)
ESTRATTI
Lascia cadere, tra le altre cose,
il bene degli altri.
Gettalo a manate
quello che ti vollero,
il detto non più.
Le correnti d’aria
muovono in levare
e in avanti
(ma verso il basso, poi)
*
Ti ho trovato al buio
al cimitero dei mercanti,
dalla parte dei ceceni,
dove vendono le posate,
le monete spaiate,
le tazze che nessuno vuole.
Ti ho preso a poco
e quando ti ho portato a casa
ho visto che sulla camicia
avevi una macchia
ma stavi appoggiato alla finestra
e tenevi dritta una sedia rotta.
*
Arriva il giorno che il mondo scompare –
fossi un uccello, non vedrei più il cielo.
Ciò che di me si sveglia, degli oggetti
vede frammenti, come se la notte
li avesse esacerbati. Un silenzio
a cui non serve nulla, non uno iota,
non un ghiaccio su cui camminare.
Se fossi te, chiamerei questo scorno
del mondo velatura, partenza, perfezione.
Invece sono la bambina scomparsa,
la volpe della sera che guarda in controluce
il niente che si apre sotto il suo passaggio.
*
Questo bambino grasso dalla felpa nera,
che vuole sposare un cane, e il cane è suo figlio,
questo bambino che arriva sempre tardi
e piange la morte degli insetti e delle rane,
che realtà lo dissuade da noi,
cosa lo porta tanto lontano,
lontano che non ci passa un’ombra?
*
Se mi tagli in due, metà è della mamma
e metà di papà, che è morto e non lo sa.
Una parte andrà a Messina, l’altra a Tirana,
dove mi aspettano cugini in groppa a capre
e cerimonie con gonne bianche. Devo diventare
bella entro il dieci maggio, mi devo cresimare
e sono pronta a tutto, anche a digiunare.
Sono un nome che passa di bocca in bocca, ora.
Sono vicina a Dio, alla vendetta e alla verità,
sono ferita per intero, e mio padre lo sa.
*
L’immagine ha pochi tratti.
La visione, per ingrandirsi,
ha eliminato cardini e coltelli.
Il quadro non sarà innocente,
una volta finita la sottrazione.
Quando lo guarderai a fondo,
vedrai che per sbaglio
hai tolto pure le cose vive.
Restano una sedia di schiena
e il contorno da riempire
di un’ombra,
e poco altro per dirti
l’operazione che adesso
puoi fare.
*
Bambini
Quando comincia la scuola, nessuno pensa alla sua fine. Durerà in eterno, sembra certo. Quando la scuola finisce, non sembra possibile che debba ricominciare, prima o poi. In ogni caso, serve che tu sia capace di entrare e uscire all’ora che devi, e il giorno che finisci spiega brevemente ad alunni e genitori la natura poco sentimentale dei contratti a tempo determinato.
[…]
Quando hai l’impressione che non puoi fare niente di utile, di buono e produttivo, forse è davvero così. Una volta eri la salvatrice dei momenti difficili, ora non salvi più nessuno. Ti limiti a chiedere il silenzio, ad alzare le mani come per calmare le acque, a mettere il dito davanti alla bocca nei momenti più critici, più confidenziali.
[…]
I momenti migliori non sono quelli in cui dimentichi dove sei, ma quando ti giri verso la finestra per qualche secondo guardi gli alberi, le macchine, i panettieri con i sacchi in spalla. Di solito succede tra le dieci e le dieci e un quarto del mattino: sono gli attimi che respiri, e a modo tuo sei perfino efficiente.
[…]
più passano gli anni, più i bambini diventano fragili. Hanno braccia da rondinelle e pelli da piccoli animali in mutazione, dita pulite o dita sporche, lingue blu per le troppe caramelle, tatuaggi a penna nera e rossa sulle mani e gli avambracci, sorelle e fratelli che stanno per nascere, febbri misteriose, dolori nel traghetto da un’ora all’altra. Tra le cose che mancano, sicuramente le aspirine. E una grande stanza in cui calmarsi, prendere fiato, far passare la nebbia nella testa.
[…]
I bambini molto poveri sanno spesso cos’è giusto. Se chiedi a Sara se è giusto che lei viva in uno scantinato e non abbia i soldi per i libri, lei ti dice che non è giusto. Lei ha molto bisogno del mare o, in alternativa, della campagna albanese, dell’estate, i cugini, la nonna. Ahhh – dice allargando il petto – io in campagna rinasco.
Marilena Renda: due testi da “Arrenditi Dorothy!”

Turdus merula (fonte, JuzaPhoto)
A febbraio è uscito per L’orma editore Arrenditi Dorothy!, il nuovo libro di Marilena Renda. Si propongono due testi.
In bilico tra attrazione e repulsione relazionale i due testi scelti da Marilena Renda dal suo ultimo libro, Arrenditi Dorothy! (L’orma, 2015). Il primo è in cerca di un nuovo orizzonte di lettura del mondo, attraverso la fluidità immaginifica del mare, le prospettive si confondono, si sfumano e la dimensione percettiva, pur aspirando alla simmetria delle linee, sfalda la visuale e il soggetto perde nuovamente l’orientamento, deludendo l’illusione di essere giunto a un approdo.
Il secondo s’innesta sulle apparizioni “affabulatorie” di un protagonista, il merlo, che funge da vettore simbolico di nuove prospettive. Uno sguardo altro, un rinnovamento che solo il desiderio porta per un attimo a compimento.
Gianluca D’Andrea
La democrazia del mare
Mentre stiamo in acqua siamo due corpi che navigano allo stesso livello; guardandoci da lontano non si vedrebbe nessuna differenza tra me e te. Nuotiamo appaiati su una linea che comincia e finisce solo dove ci fermiamo; lì dove c’è la fatica c’è anche il limite della nostra corsa, e tanto basta. Questa simmetria sei tu che me l’hai insegnata, il giorno che mi hai fatto capire con i gesti e con le parole, e con gli occhi soprattutto, che una qualche forma di uguaglianza, per te, nel mondo, si dava solo nel mare, quando uno era in acqua e a guardarlo non era diverso dagli altri, né nano né gigante, né grasso né magro.
Galleggiavi senza sforzo, anche tu. Nuotavi più o meno elegantemente, come tutti. Io invece ho violato la democrazia del mare. Un giorno, con questa mania degli scogli. Alti dovevano essere, sempre più alti. Adesso non dire che sono stata io per prima ad avere l’idea, lo sai benissimo che sei stato tu a spingermi, tu mi hai detto: Tuffati, e io mi sono issata sullo scoglio (non c’era ancora vento, il tempo era magnifico, almeno questo te lo ricorderai), ho preso equilibrio sui piedi, messo le mani avanti e dopo qualche incertezza mi sono buttata.
La tua versione dei fatti è che ho voluto innalzarmi sullo scoglio nonostante la tua preoccupazione; sostieni addirittura che siccome lo scoglio era troppo alto la gente in spiaggia mi guardava con curiosità e una vaga apprensione, ma questo non è sicuramente vero. Ricordo perfettamente che lo scoglio era molto basso, che ci ho messo del tempo a decidere di lanciarmi, e che tu mi incoraggiavi dicendo che mi avresti sostenuto. E salvato anche, se necessario.
Quell’estate ho continuato a buttarmi ogni giorno, da scogli sempre più alti. Sei rimasto sempre giù a guardarmi, senza provare nessuna animosità. In fondo eri tu quello a cui piacevano i tuffi e io facevo quello che tu avresti voluto fare. Pensavo che sarebbe stato naturale da parte tua avercela con me, dopo tutto avevo preso in prestito un tuo desiderio e ne facevo quello che mi pareva: di pancia, di culo, di testa, un abbraccio col mare in tutte le sue variazioni e direzioni mentre ridevi e ridevi con solo un’ombra d’invidia negli occhi.
È stato allora che ho capito. Io non ero solo io, ma ero anche l’ipotenusa del triangolo; senza di me, i cateti non potevano mai arrivare a toccarsi.
Tutto quello che volevo quell’estate era spingerti giù da uno scoglio, dimostrare che ero capace di portarti dove volevo io, e dove però volevi arrivare pure tu: nel punto in cui uno combacia con se stesso e guarda il fondale del mare senza spaventarsi dell’ombra che lui stesso proietta giù, sulla sabbia, oppure senza paura di cadere in un punto troppo basso, talmente basso da farsi male alle ginocchia.
Invece, quando eravamo tutti e due allo stesso livello, ci sbucciavamo la pelle sì, ma inutilmente. Sbattevamo contro gli scogli per ritornare a riva, urtavamo contro spuntoni e muschi morbidi solo in apparenza, inciampavamo contro pietre di cui non ci eravamo accorti.
Con me che pensavo: non funziona questo meccanismo, è da un’altra parte che ti volevo portare, in un posto dove davvero non sei mai stato.
*
L’uomo e il merlo
Ci sono un uomo e un merlo. Il merlo si è posato sulle finestre della casa dell’uomo un giorno che pioveva una pioggia sottile e appiccicaticcia e da dietro i vetri si vedeva una donna sdraiata, circondata da candele.
Solo lei non apre la bocca: attorno a lei la aprono tutti. La pioggia è grigia, e ognuno è separato dagli altri da un muro.
La padrona era bella, anche durante la malattia era rimasta bella. Portava la sua tosse come un cappello non intonato alle scarpe, e nella stanza di quel giorno ci sono persone che la ricorderanno per molto tempo ancora e ne parleranno a lungo. In un angolo c’è il ragazzo a cui lei un giorno aveva prestato un ombrello, e il ragazzo mormora agli altri: Ma io sto tanto male oggi, durerà a lungo questo male?, ma nessuno può dargli una risposta sicura. Chi dice: Settimane, chi: Anni.
Da quel momento in poi il padrone e il merlo portano il lutto per settimane, per mesi, per anni, senza smettere mai di piangere. La padrona con le sue labbra rosse abita nella loro mente e non ne esce mai.
Il padrone pensa che non smetterà mai di piangere questo dolore: quando piange si sente trasformato fino alla radice di se stesso, pensa che sta cambiando giù fino alle fibre, che non sarà più l’uomo che porgeva lo specchio, quello che mentre lei si metteva il rossetto le diceva: Le donne che si truccano rifanno ogni mattina il mondo.
Quando si sveglia la notte sente che tutte le sue cellule si sono trasformate o sono morte, e di quelle sopravvissute non ne resta nessuna che sia rimasta intatta o uguale in forma, spessore e colore a com’era prima.
Per distrarlo, il merlo si posa sulla scatola dei gioielli della donna, la becchetta, la apre, tira fuori una collana di finto corallo, degli orecchini smaltati, o in filigrana, li afferra col becco, li sparge per la casa, sul lavello, davanti alla finestra. Il merlo batte il becco sulla porta, vuole uscire, è deluso che nessuno dall’altra parte gli apra. Decide allora di tornare in salotto: in una scatola ci sono ancora oggetti della donna, di quelli che si comprano e poi si dimenticano: un nastro nero, delle calze marrone, una penna verde, delle monete, un portachiavi. Non si può dire fossero oggetti che lei adoperava spesso.
Il merlo disseppellisce gli oggetti e nessuno gli dà retta, il merlo e il padrone sono diversi nel portare il lutto, l’uomo piange, il merlo si agita, l’uomo sta fermo, il merlo vuole muoversi, partire. Finché un giorno il merlo si stanca di piangere e di essere addolorato. Non vuole più rubacchiare di qua e di là i ricordi, spargere nastri e cappelli per casa come se fossero scaglie di cenere: si è stufato di non cambiare mai umore, è stanco che per lui non arrivi mai il caldo e il bel tempo, mentre il tempo e la natura, loro cambiano eccome, arrivano, se ne vanno, portano cose che lui riesce solo a immaginare.
Il merlo fugge e il padrone, che si era abituato a lui e non ne può più fare a meno, piange e si dispera. La primavera arriva di nuovo. Il merlo torna, portando dei semi in bocca. Sono piccoli, di colore giallo: li depone nel portagioielli della moglie e ci si posa sopra. Passa una settimana e il merlo, che era stato tutto il tempo sopra la scatola, si sposta e la apre con il becco.
Dentro è spuntato un fiore rosso: il padrone lo vede e sorride.

Marilena Renda
Marilena Renda è nata a Erice, ha vissuto a Roma e Palermo e attualmente vive a Milano, dove insegna e scrive. Nel 2010 ha pubblicato per Gaffi la monografia: Bassani, Giorgio. Un ebreo italiano, nel 2012 per dot.com press il poema Ruggine. Nel febbraio del 2015 è uscito per l’Orma edizioni Arrenditi Dorothy!. Una nuova raccolta di versi, La sottrazione, è in corso di pubblicazione per Transeuropa.