Paesaggi di poesia – Dialoghi

Venerdì 09 settembre 2022: CostArena – Bologna, letture da Nella spirale in dialogo Marilena Renda e il suo Fuoco degli occhi.

Dall’inizio – Ultima puntata sull’EstroVerso

Sull’EstroVerso l’ultima puntata della rubrica che ho curato per 2 anni e 8 mesi con Gabriel Del Sarto. È stato un viaggio lungo ma prezioso, così bello che non può finire qui. Ad maiora! Dall’inizio, sempre. Di seguito i nostri ringraziamenti e l’arrivederci ai lettori.

Il più grande abbraccio a Grazia Calanna perché non esiste ospitalità più ospitale della sua.


Attrazione, ancora

Ma dimmi, chi sono, questi girovaghi, questi anche un po’
più fuggitivi di noi…

Rilke

Giunti alla fine del viaggio, ci auguriamo che la riflessione aperta dalla rubrica “Dall’inizio” abbia stimolato e possa continuare a farlo, l’urgenza di riconciliazione tra parola della poesia e mondo. Se con “mondo” s’intende lo spazio liminare di cui il testo necessita per creare nuovi spiragli di senso, allora in gioco sarà la capacità ri-creativa sempre fondante della poesia. Per questo, speriamo che tra “apertura” e “chiusura”, inevitabili nello sforzo autointerpretativo degli autori coinvolti, sia trapelata l’urgenza di trasmissione della parola, la sua tradizione: la “consegna” originaria, cioè, della scelta, con tutto il carico di ambiguità che comporta fino al rischio estremo del tradimento del senso.
Mantenere alto il livello di attenzione e custodia, allora, perché questa consegna continui a essere sempre “dall’inizio” e perché, come ci suggerisce Carmen Gallo al termine del suo intervento, «occorre ridere o piangere, […] restare in movimento».
Ringraziamo tutti gli autori (Vito BonitoGiovanna FreneMaria Grazia CalandroneFederico ItalianoFilippo DavoliAndrea De AlbertiVincenzo FrungilloLaura PugnoLuciano NeriMarilena RendaItalo TestaFrancesca SerragnoliTiziana Cera RoscoMarco GiovenaleFrancesca MatteoniGilda PolicastroAndrea IngleseMassimo GezziAzzurra D’AgostinoTommaso Di DioDavide BrulloLaura LiberaleRenata MorresiMatteo PellitiMarco SimonelliLorenzo MariDavide Castiglione, Bernardo De LucaMaria Borio, Carmen Gallo) che hanno partecipato alla rassegna e nel dire arrivederci ai lettori li ripresentiamo in ordine di apparizione, come viatico per quei “nuovi inizi” da loro raccontati che invitano a un ritorno, a «non fermarsi […] (non per sempre)».

Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto

Pitture rupestri e visioni di poetica in Bortolotti, D’Andrea, Di Dio, Mari

Oggi su Poetarum Silva un articolo di Andrea Accardi (che qui ringrazio) parla di pitture rupestri e visioni, analizzando opere recenti di Bortolotti, Di Dio, Mari e il sottoscritto (nello specifico Nuovo Inizio). Qui di seguito l’estratto che mi riguarda e il rimando all’intero articolo. Buona lettura.


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Concludo con Gianluca D’Andrea e con il suo Nuovo inizio, che non è materialmente un libro, ma un poema ipermediale in due parti, che mischia versi, prosa, immagini, video, un progetto molto ambizioso e suggestivo, fruibile per intero sul sito dell’autore. Anche qui troviamo una sorta di cornice fantascientifica, la strana situazione in cui si trova l’io lirico protagonista: «Nella capsula, l’aria viziata/ non era stata ancora incanalata/ nel tubo di espulsione./ Guardavo in apprensione/ eppure con distacco/ l’acqua intoccabile dopo/ che l’ultimo strato si era dissolto./ Fuori dalla piccola sfera/ non avrei sopportato l’aria/ se non per qualche ora» (I, I). Molti frammenti dopo, scopriamo però che si era trattato piuttosto di un qualche esperimento psichico: «Al risveglio non mi sentivo frastornato, perché il ciclo di ottanta minuti, se non disturbato da imprevisti esterni, come nella fase REM, si conclude senza traumi. Lo psicologo è subito pronto a riattivare il dialogo che, nella percezione del soggetto, sembra interrotto da anni» (I, XL). Il tutto si configura come uno sprofondamento nella mente e nella memoria, dove ricordi, associazioni, visioni personali emergono comunque da una dimensione collettiva stridente e totalizzante, che va dalle tragedie della Storia al pop più scanzonato. Durante il tragitto incrociamo quindi il record di Ben Johnson, l’architettura razionalista, il Trittico delle delizie e l’incubo di Füssli, MasterChef, IKEA, le ombre di Hiroshima stampate sui muri dal flash dell’esplosione, le canzoni di Fiordaliso che accompagnano tramonti che uniscono «la luce aranciata […] allo strato fuligginoso dell’atmosfera» (I, XIV), e poi il discorso di Martin Luther King e la dichiarazione di guerra di Mussolini, Sinéad O’Connor, David Bowie, il secondo tragico Fantozzi, la visita di Primo Levi ad Auschwitz, e molto altro ancora. Nella seconda parte, con il ritorno a casa, il protagonista ha come un’allucinazione nel salotto, che si riempie di pitture rupestri: «Riflettevo su realtà e rappresentazione perché le ombre sulle pareti assumevano forme sempre meno vaghe. Immaginavo o vedevo animali stilizzati? Scene di caccia preistoriche, come in quei graffiti negli anfratti antichi delle grotte. I predecessori sono il baratro in cui sono risucchiati gli orrori, le ferite e i traumi, i sogni morbosi di ombre che vengono incontro, le forze esterne pronte ad annientarci. La paura di essere niente ha prodotto ogni macchinazione. Cadevo dalla superficie delle pareti dentro le ombre» (II, IV). È come se ogni avvenimento del passato nella memoria si rapprendesse in una scena violenta, incontrollata e misteriosa, come se queste immagini stilizzate non fossero che il precipitato nella mente di tutte quelle altre, senza un centro, un asse che le organizzi insieme («tutti i mostri sfilano/ da epoche numerose, da crepe spalancate», II, XL). Da quel momento in poi attraversiamo un incubo più tradizionale, senza mediazione, dentro spazi aperti, «un lago viscoso […] dentro cui sciamavano/ frotte di moscerini a stento visibili» (II, V), una donna enorme che «avanzava guidando un enorme triciclo» (II, VI), una porta di calcio «disegnata su una parete ricoperta di edera e crepe» e un bambino che incide il pallone «con un falcetto» (II, XVI), la casa di una vecchia zoppa, le alghe del lago appese ai cembri di un sentiero, e la sensazione che ogni evento della vita non abbia «alcuna connessione con ciò che ci ostiniamo a chiamare reale» (II, XXXVI). Questa strana opera ci dice molto insomma sulla nostra mente all’epoca della medialità esplosa, e lo fa in modo mimetico, si fa essa stessa capsula ridondante, scorribanda di immagini, e continua come un percorso in levare verso il proprio sé, che risulta però schermato, fino all’ultimo, perfino negli affetti privati, contro «la paura di essere niente» (chiude infatti la traccia audio di Senza Fine, Gino Paoli, come l’ennesimo contrappunto ironico).

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Poeta in cammino. Gianluca D’Andrea, o dell’orizzonte futuro della stasi – Riflessione di Lorenzo Mari su alcuni miei inediti – Argo

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Poeta in cammino. In via del tutto provvisoria, si potrebbe definire così il percorso di Gianluca D’Andrea, e non soltanto, banalmente, a partire dall’hashtag che l’autore stesso utilizza nella comunicazione social. È la sua scrittura a camminare, senza cadere nelle stucchevoli retoriche che sono spesso appiccicate al mantra del ‘camminare’ e tentando invece di delineare un percorso che da individuale si faccia condiviso. Tenendo bene a mente, anche, ed esercitando il respiro – momento fondante, al di là di ogni mistica, della scrittura poetica – insieme alle facoltà motorie. Una fase particolare del suo percorso si può adesso facilmente tracciare in un percorso che va dal Transito all’ombra, pubblicato per Marcos y Marcos nel 2016, alla stasi che emerge con grande frequenza nelle sue sequenze inedite (non solo qui, ma anche qui e qui). Anche in Present – testo d’apertura di questa sequenza, dove il presente riverbera nella presenza, ma anche nella necessità di mostrare, tramite l’apocope, una mutilazione, o sopraggiunta mancanza, di entrambi i termini – si può leggere: “Contiamo ogni vent’anni e siamo nella stasi”, un verso che rivela un’ulteriore direzione presa dalla scrittura di D’Andrea. Come hanno rilevato sia Stefano Modeo sia Antonio Devicienti nelle loro precedenti letture, infatti, la poesia di Gianluca D’Andrea si sta sempre di più confrontando con il suo poter fare e disfare la storia, senza per questo indulgere in semplificazioni cronachistiche o nella gergalità ideologico-politica della denuncia più spicciola. A questo proposito, si è parlato di un confronto con il mito, ad esempio in questo carteggio che ha coinvolto D’Andrea, Tommaso Di Dio e anche chi scrive; in questa sequenza, tuttavia, è presente anche un testo, Dentro l’abisso, che si chiude con la parola “reversibile”, quasi a rammentare, a contrappunto, la Reversibilità fortiniana, e la sua nota domanda: “Ma per noi, / per noi che poco da vivere ci resta, / che cosa sono l’Asia immensa, il tuono / dei popoli e i meravigliosi nomi / degli eventi, se non figure, simboli /dei desideri immutabili, dolorosi?”.

Continua a leggere…


*foto dell’autore della serie #incammino

Per il fine settimana – Lorenzo Mari suggerisce José María Gómez Valero

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Joseph Decker (1853-1924), Scoiattolo

JOSÉ MARÍA GÓMEZ VALERO

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José María Gómez Valero

Nato a Siviglia nel 1976, José María Gómez Valero ha pubblicato le seguenti raccolte: Miénteme (Qüásyeditorial, Coria del Río, 1997), El libro de los simulacros (Ayuntamiento de Lepe, Lepe, 1999), Travesía encendida (Vitruvio, Madrid, 2005; Premio Internacional Ciudad de Mérida), Lenguajes (Imagoforum, Siviglia, 2007) e Los augurios (Icaria, Barcellona, 2011; Premio Internacional Alegría).
Inoltre, ha collaborato con David Eloy Rodríguez e Miguel Ángel García Argüez nella scrittura dei libri illustrati di racconti per l’infanzia Este loco mundo (Cambalache, Oviedo, 2010) e Cosas que sucedieron (o no) (Cambalache, Oviedo, 2013).
Con gli stessi autori e poeti, Gómez Valero ha dato vita alla compagnia teatrale e poetica La Palabra Itinerante, matrice di alcuni progetti artistici interdisciplinari, che miscelano teatro, musica e poesia, tra i quali si possono ricordare:
Todo se entiende sólo a medias (www.soloamedias.net) e Su mal espanta (www.sumalespanta.blogspot.com) e le collaborazioni con artisti come María Cerón e Patricio Hidalgo Morán, tra le quali si annovera l’opera audiovisuale Un mundo en palabras, X Premio Migraciones della Junta de Andalucía).
Lo stesso collettivo fa parte della redazione della casa editrice sivigliana Libros de la Herida (www.librosdelaherida.blogspot.com) e della rivista Mordisco (www.revistamordisco.wordpress.com).

Tutte le traduzioni sono apparse sulla rivista ALI, diretta da Gian Ruggero Manzoni, che ringrazio per la gentile concessione dei testi, e nell’antologia “Canto e demolizione. Otto poeti spagnoli contemporanei” (Thauma, 2013) a cura di Alessandro Drenaggi, Luca Salvi e Lorenzo Mari.

Da Travesìa encendida (2007)

Contemplas la tragedia
como el bosque el incendio.
Sin comprender.
Contemplas la tragedia
igual que ves morir una canción
o escuchas una vela que se apaga.
Igual que una ardilla observa un reloj.
Sin comprender.

*

Contempli la tragedia
come il bosco l’incendio.
Senza capire.
Contempli la tragedia
nello stesso modo in cui vedi una canzone morire
o ascolti una candela spegnersi.
Nello stesso modo in cui uno scoiattolo osserva un orologio.
Senza capire.


HOGAR

Edificaste tu casa
con tan sólo un ladrillo.
Tenía puertas y ventanas,
paredes y trampas.
Incluso un ladrillo
al que te abrazabas
en las noches más frías.

FOCOLARE

Usando solo un mattone
ti fabbricasti la casa.
Aveva porte e finestre,
pareti e trappole.
Un mattone, anche,
che abbracciavi
nelle notti più fredde.

Da Los augurios (2011)

APUNTES PARA UNA BIOGRAFÍA CUALQUIERA

Nacer,
memorizar los signos,
ocupar una celda
en la intemperie.

Reconocer a tientas
el rigor de los límites,
los contornos del orden.

Asistir cada día
a lo pactado.

Mirar el agua,
saciarse en su sabor,
convivir con la sed.

Acatar los dictados de la norma,
eludir los dictados de la norma.

Jugar a cosas serias.
Mentir de corazón.
Arroparse sin sueño.

La noche,
los velos, los desvelos,
la voz
de la sólida sombra.

Despertar,
abrir los ojos,
ansiar el tiempo
en el que nada se derrumba.

*

APPUNTI PER UNA BIOGRAFIA QUALSIASI

Nascere,
memorizzare i segni,
occupare una cella
nell’intemperie.

Riconoscere a tentoni
il rigore dei limiti,
i contorni dell’ordine.

Assecondare ogni giorno
ciò che è stato stabilito.

Guardare l’acqua,
saziarsi con il suo sapore,
convivere con la sete.

Ossequiare i dettati della norma,
eludere i dettati della norma.

Giocare alle cose serie.
Mentire di cuore.
Coprirsi nell’insonnia.

La notte,
ciò che vela, ciò che sveglia[1] ,
la voce
dell’ombra solida.

Svegliarsi,
aprire gli occhi,
trepidare il tempo
in cui niente crolla.

(Inedito)

APUNTES PARA UNA ESTRATEGIA

Ellos,
quienesquiera que seamos,
siempre serán más.

Nosotros,
quienesquiera que sean,
siempre seremos menos.

Una vez dicho esto,
pasemos a la acción.

*

APPUNTI PER UNA STRATEGIA

Loro,
chiunque siamo,
saranno sempre di più.

Noi,
chiunque siano,
saremo sempre di meno.

Detto questo
passiamo all’azione.


[1] Con questa scelta di traduzione s’intende rendere, almeno parzialmente, la ricca polisemia dell’accostamento tra ‘velos’ y desvelos’ presente nel testo originale: mentre ‘velos’ rimanda ai ‘veli’, a ciò che copre la vista, ‘desvelos’ si può tradurre sia come ‘svelamenti’ che come ‘veglie’ [n.d.T.].

Spazio Inediti (14): Stefano Pini – di Gianluca D’Andrea

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Stefano Pini

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (14): Stefano Pini

Cucivamo un debito irrisolto
il trasudare delle risorgive
nei canali del secolo.
La terrina di pianura ci teneva gli occhi
come per caso: “Nessuna prosa”
dicevamo al compiersi delle tele,
primo sguardo di uomo,
il profilo delle cose in una serratura.
Niente era nostro del tutto
ma per caso.


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Fiume di risorgiva Stella presso Udine

Lavoro d’intreccio che si fa desiderio, questo messaggio traspira l’inedito di Stefano Pini. L’atmosfera rarefatta annuncia, è in attesa di un avvento che risponda al negativo, forse una distrazione, forse la distrazione che conduce fuori dall’ossessione.
Il componimento attraversa, nonostante la negazione, un tragitto che non si percepisce lineare – “Nessuna prosa” – pur partendo da un sostrato riconoscibile, identificabile in un territorio di “risorgive” e “terrine”, l’umile nord residuo novecentesco di tradizione popolare e memoria per il poeta che con quel secolo sembra volersi confrontare, iniziando a captare le proprie radici. Di tessitura si parla – “Cucivamo un debito irrisolto” – e sembra già una risposta al Novecento (vedi questo attacco dell’ultimo Fortini: «Allora comincerò con un altro disegno», Il custode in Composita solvantur, 1994 o, ancora, il titolo di un libro recente di Lorenzo Mari, coetaneo di Pini, Nel debito di affiliazione, 2013), ricucitura con la tradizione come dovere da compiere, da pagare al passato per riattivare il futuro e tentare l’accesso a quel “primo sguardo di uomo” che è l’aspirazione a una nuova sorpresa, “l’altro disegno” di Fortini. Eppure si avverte l’impossibilità di un ritorno effettivo, la visuale non focalizza se non attraverso filtri, non può essere frontale, al massimo ri-accenna a una sensualità passibile di dispersione voyeuristica che il primo scorcio del nuovo secolo propone nella “socializzazione” virtuale delle esperienze (“primo sguardo di uomo,/ il profilo delle cose in una serratura”). A insinuarsi è la casualità che è impossibilità di ristabilire la simmetria con le cose, sia il passato o il futuro non resta che accertare, ancora una volta, la nostra non totale appartenenza al mondo. In un linguaggio piano ma trivellato di crepe (le “risorgive”) Pini finisce per ricordarci, come un monito, che “Niente era nostro del tutto, ma per caso”.

(Aprile 2015)


Stefano Pini è nato a Treviglio, in provincia di Bergamo, il 13 febbraio del 1983, e lì risiede. Laureato in Lettere e Filosofia, ha pubblicato Anatomia della fame (La Vita Felice, 2012 – Premio Camaiore Opera Prima). Sue poesie sono apparse nell’antologia di Subway Letteratura (2010) e su diversi siti internet. Fa parte della direzione artistica di TreviglioPoesia – Festival di poesia e video/poesia.

Debito degli Ecosistemi (11/04/14)

Gianfri, Gianluca

Gianfri, Gianluca, Lorenzo

Gianfri, Gianluca, Lorenzo

Paolo, Gianluca, Lorenzo

Paolo, Gianluca, Lorenzo

Forlimpopoli

Forlimpopoli

Spazio Inediti (2): Lorenzo Mari – di Gianluca D’Andrea

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Lorenzo Mari

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (2): Lorenzo Mari

Di questo breve poema, […] pubblico ora una parte, almeno come protesta contro certe teoriche, le quali in nome della verità e della libertà vorrebbero condannare la poesia ai lavori forzati della descrizione a vita del reale odierno e chiuderle i territori della storia, della leggenda, del mito. Ma al poeta è lecito, se vuole e può, andare in Persia e in India non che in Grecia e nel medio evo: gl’ignoranti e gli svogliati hanno il diritto di non seguitarlo [1879].

G. Carducci

Da lasse della malora (inediti)

Stringi l’asse, appena appena – con un
cacciavite o altro: basta che s’imprima
al mondo uno sbaglio, o uno scarto, un
soffio: la rotazione prende abbrivio

e la rivoluzione più non giunge
per moto di conserva – resta segno
soltanto l’eclisse, e già s’espunge
dalla crisi l’apocalisse – almeno

nel buio posso dirti, se la palla
non gira a dovere: si può fuggire,
infine, senza sfuggirci.

(Una sezione di lasse della malora, comprendente questo testo, si è classificata terza alla XVI edizione del concorso Licenze Poetiche, svoltosi a Macerata nel dicembre 2013).


Il richiamo al Carducci della Canzone di Legnano, nella nota dello stesso autore versiliese qui scelta come epigrafe, ci induce a riflettere sulla scelta formale di questo componimento di Mari. Occorre ricordare che la “lassa” come forma di strofe in Italia ha una storia pluricentenaria che, dal Ritmo laurenziano (fine XII o inizio XIII sec., scritta da un anonimo giullare), giunge alle scelte innovative del Carducci, appunto, e di D’Annunzio. Un aggancio alla tradizione che la scelta testuale suggerisce ma che il titolo ribalta perché l’ora delle forme chiuse della nostra letteratura è bella che passata, essendosi queste disciolte, ormai, in logorree pseudo-realistiche, in iper-commistioni di prosucole concettose e vaghe nelle generazioni appena precedenti il nostro.
Andiamo al testo: l’ironia, espressa da figure d’inversione per cui gli enunciati sembrano alternarsi repentinamente in tesi e antitesi senza uno scarto accomodante, blocca ogni via di fuga, dal nostro essere qui e ora, sull’orlo di una catastrofe. Infatti, è del marchingegno-pianeta-terra che si parla ma solo sullo sfondo di un uso delle parole che sono il vero marchingegno che costituisce il suo referente all’interno di questa tessitura per verba: «Stringi l’asse» azione che richiede una pressione, di contro «appena appena», iterazione ironica che dice la delicatezza dello stesso atto. I due impulsi sono opposti come «il moto di conserva» al v. 6 sembra suggerirci, leggi fisiche d’opposizione che consentono la conservazione nella sparizione, l«’eclisse» del v. 7 lo manifesta. L’ironia si fa costatazione, però, perché questa presunta dissoluzione restando «segno» elimina dal testo (con un altro segno, l’espunzione richiamata subito dopo) e dalla scelta (κρίσις) ogni rivelazione (ἀποκάλυψις) sui destini ultimi. Ancora una volta è confermato il dovere di essere presenti, perché da questa presunta fine sorge un nuovo inizio e, con un gioco che richiama sul piano concettuale l’hysteron proteron retorico (per cui l’ordine naturale delle azioni è invertito), la chiusura ne è conferma: «si può fuggire,/ infine, senza sfuggirci», in cui l’annominazione, pur rischiando il calembour, ci indica la vera direzione da percorrere, perché il vero cambiamento è nella nostra permanenza.

(Gennaio 2014)


Lorenzo Mari (Mantova, 1984) è dottorando in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali presso l’Università di Bologna. Ha pubblicato le raccolte di poesia Libere sequele (Gazebo, 2004), Pellegrinaggio senza Endimione (Inventario Senese, 2007), Minuta di silenzio (L’Arcolaio, 2009) e Nel debito di affiliazione (L’Arcolaio, 2013). Traduce dall’inglese (Bless Me Father, Compagnia delle Lettere, 2011, in collaborazione con Raphael d’Abdon) e dallo spagnolo (Canto e demolizione. Otto poeti spagnoli contemporanei, Thauma, 2013, con Alessandro Drenaggi e Luca Salvi). Insieme a Luigi Bosco, Davide Castiglione e Michele Ortore coordina il sito letterario “In Realtà, La Poesia” (www.inrealtalapoesia.com).

NUOVI INIZI – IL SISTEMA ALLEGORICO DELLA TRASMISSIONE: “Nel debito di affiliazione” di Lorenzo Mari

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Lorenzo Mari

NUOVI INIZI – IL SISTEMA ALLEGORICO DELLA TRASMISSIONE: Nel debito di affiliazione di Lorenzo Mari, L’arcolaio, Forlì 2013

nel_debitoFuori dalle canonizzazioni “mimetiche” o sperimentali (neo-, trans-, post- e via discorrendo) si muovono alcuni autori nati negli anni ’80 del secolo scorso, penso, oltre a Mari, a Davide Castiglione o a Francesco Maria Tipaldi. Le loro operazioni, nelle relative diversità stilistiche, hanno la forza di scavare in quella tradizione apparentemente disillusa rappresentata da tutto il secolo breve (nella sua intera estensione, non concentrando l’attenzione solo sulle strade logore di un classicismo imposto, sul Montale delle prime raccolte, sui lombardi e sulle avanguardie che hanno sempre sospinto astrattamente un nuovo linguaggio nel tentativo, forzato, di frantumare il soggetto lirico). La necessità desiderante di ri-costruire un rapporto di fiducia con la parola e il testo, che non sia banalmente “realistico” o forzosamente dissacratorio, ma che riesca a esprimere trasporto verso l’inedito, l’ignoto, che riconsideri “fabulisticamente” il mondo, allusivamente, ri-tentando il tragitto che conduce alla condivisione di un messaggio in cui il poeta abbia ancora il ruolo specifico di artefice e contenitore di cultura.
Il lavoro di Lorenzo Mari si muove proprio in questa direzione, solo chi vuol restare cieco può continuare a non vederlo, e, infatti, Nel debito di affiliazione, ci permette di fare i conti con un autore che, con perizia e conoscenza della poesia del passato, inizia, in un diverso orientamento etico, «a tirare linee/ sulla mappa» (Anche il nostro viso, p. 20, vv. 4-5), attraverso lo scandaglio archeologico dell’eredità dei padri: «Contribuire, infine, a/ piovere il niente – oppure/ a colmare la terra» (Nel debito di affiliazione, p. 15, vv. 8-10).
Scorrendo le pagine della raccolta emerge, all’interno di uno stile che appare pacato, sobrio, a volte sostenuto da una lucida ricerca formale, un certo sdegno di stampo espressionistico, come in questo componimento d’impatto anticlassico, sperimentale, sulla scia di un grande maestro di “forma” poetica, Chiabrera:

Dove va l’oca (nuova anacreontica)

Dove va l’oca al passo,
anche gallina e capra
vanno, che è poi al macero,
senza macello – niente

ormai conta la carne:
neanche lorda di sangue,
neanche vuota, al fuoco
non sconta. Sacro è il marchio,

ma è un buco a cielo aperto:
poi soltanto il fegato
incarna, poiché ingrassa
e si segna e si corrompe.

(Si nota in un secondo
momento come ancora
nel fegato risieda
amore, e nel punto

esatto – dove ancora
muove l’oca il suo passo)

(p. 38)

Sorge un richiamo a quella zona marginale, ma estremamente produttiva, della nostra letteratura, mi riferisco alla temperie “vociana”, infatti è come avvertibile una sorta di movimento oscillatorio per cui lo stile di Mari sembra estendersi plasticamente tra il Rebora di Voce di vedetta morta[1] e lo Sbarbaro dei versi: «La vicenda di gioja e di dolore/ non ci tocca. Perduta ha la sua voce/ la sirena del mondo, e il mondo è un grande/ deserto» (C. Sbarbaro, Taci, anima stanca di godere, vv. 19-22, in Pianissimo, 1914). Sbarbaro, dunque, al quale tanto deve Montale (anche l’ultimo, disilluso, Montale), in toni meno rassegnati, per cui «tutto è quello/ che è, soltanto quel che è» (C. Sbarbaro, ibid., vv. 17-18), può funzionare come rampa di lancio verso un nuovo da inventare partendo dai “trucioli” del nostro sdilinquito e flaccido presente “post”, risuscitando lievi movimenti allegorici che riscontrano riflessi in Mari:

Figlio di questo e di quella

Manto, Tiresia. Sei figlio di questo e di quella,
della storia e dell’incesto,
dell’impossibile piacere
di tutti, che è deserto
per chi resta. (O anche
un limbo tratto dall’inferno,
correggendo, lievi, la svista.)

(p. 19)

Figure d’iterazione, anafore, anadiplosi, costellano i testi di Nel debito di affiliazione, come se la parola non riuscisse a essere proferita senza l’eco della memoria o, in extremis, per rinforzare le ossessioni intime, le trasposizioni potenziali e immaginifiche che, sole, possono riaprire al mondo e al senso (un po’ come accade al Campana, per restare in clima “vociano”, de Il canto della tenebra[2]): «luce che fascia fascia fascia» (Di cilecca, p. 21, v. 1), oppure: «sul fondo c’è chi stramazza/ sul fondo c’è chi chioccia/ sul fondo c’è chi sbatte le ali» (Come nelle favole (volpi e faine), pp. 43-44, vv. 22-24); «ci si getta in acqua, ci si getta a fondo» (ibid., vv. 18-19); «(non c’è più noi a tenere, così come/ non c’è più un corrimano da ghermire)» (ibid., vv. 16-17). Non c’è più presa, nessun appiglio, nessuna alterità? Scomparsi i punti di riferimento, è proprio dal fondo della caduta umana (che è sempre stata), in quello stesso fondo che ci contiene tutti, che si percepisce la differenza (“chi stramazza”, “chi chioccia”, “chi sbatte le ali”) che ci illustra la vita nelle sue diverse manifestazioni – e reazioni. La conclusione del libro fa trasparire, allora, anche grazie alle allegorie animali, il concetto di diversità e accoglienza della stessa, aprendo in questi termini la possibilità di un senso futuro.
Grazie al lavoro di Mari, e degli autori richiamati all’inizio dell’intervento, di cui si aspettano le prossime prove, possiamo ancora sperare nel contributo della parola poetica nel panorama aperto dalla nostra, più presunta che reale, posterità.

Gianluca D’Andrea
(Dicembre 2013)


[1] C. Rebora, «Voce di vedetta morta// C’è un corpo in poltiglia/
Con crespe di faccia, affiorante/
Sul lezzo dell’aria sbranata./
Frode la terra./
Forsennato non piango:/
Affar di chi può, e del fango./
Però se ritorni/
Tu uomo, di guerra/
A chi ignora non dire;/
Non dire la cosa, ove l’uomo/
E la vita s’intendono ancora./
Ma afferra la donna/
Una notte, dopo un gorgo di baci,/
Se tornare potrai;/
Sòffiale che nulla del mondo/
Redimerà ciò ch’è perso/
Di noi, i putrefatti di qui;/
Stringile il cuore a strozzarla:/
E se t’ama, lo capirai nella vita/
Più tardi, o giammai».

[2] D. Campana, «Il canto della tenebra// La luce del crepuscolo si attenua:/ Inquieti spiriti sia dolce la tenebra/ Al cuore che non ama più!/ Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,/ Sorgenti, sorgenti che sanno/ Sorgenti che sanno che spiriti stanno/ Che spiriti stanno a ascoltare/ Ascolta: la luce del crepuscolo attenua/ Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:/ Ascolta: ti ha vinto la Sorte:/ Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:/ Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte/ Più Più più/ Intendi chi ancora ti culla:/ Intendi la dolce fanciulla/ Che dice all’orecchio: Più più/ Ed ecco si leva e scompare/ Il vento: ecco torna dal mare/ Ed ecco sentiamo ansimare/ Il cuore che ci amò di più!/ Guardiamo: di già il paesaggio/ Degli alberi e l’acque è notturno/ Il fiume va via taciturno/ Pùm! Mamma quell’omo lassù!».