
Paolo Lanaro
C’è una morale in tutto questo?
Probabilmente no.
P. Lanaro
L’appartenenza a una stagione passata, il nucleo della recente raccolta di Paolo Lanaro potrebbe, a una prima lettura, essere la nostalgia. In effetti, la prima sezione del libro, Vetri appannati, potrebbe indurre a pensare di trovarci dentro una poesia di nominazione nostalgica – vedi le datazioni precise, 1981-2011 – nomi, soprattutto botanici e animali, ancora più definiti, precisi, apparentemente tesi a «tenere le cose in piedi» (Vetri appannati, p. 12, v. 1), a constatare il “nulla” incipiente.
Le prime pagine di Rubrica degli inverni, così, imprimono la strana sensazione di un risentimento contrito, facendo sorgere il timore di essere davanti a un’opera che tenti di “ritrovare” i tempi andati, trascurando il presente-futuro, tempo nefando e inappropriabile, nefando perché inappropriabile da chi ha vissuto ben altre stagioni.
A soccorrerci e liberarci da questa sensazione è la lettura complessiva e l’impostazione “ascendente” della struttura del libro, la sua “volontà” di fuoriuscita. Così, ritornando alla prima serie, dopo aver attraversato tutto, possiamo rintracciare in due testi abbastanza vicini un’incrinatura, una scissione o, meglio, una velatura percettiva: «Tutto è passato / e per questo ormai così strano» (Una volta, p. 13, vv. 2-3) e «Quel tempo è ora un lichene da considerare / finché ha nutrito ogni lineamento» (Ci fu un deserto, p. 17, vv. 9-10). Questi due passaggi rappresenterebbero il passaggio a uno straniamento nella percezione del tempo, aliena ai parametri di lettura del mondo acquisiti dal soggetto, la caduta di ogni rassicurazione del passato, il tentativo di revisione imposto al tempo stesso. Si fa breccia la speranza che, in un’atmosfera quasi estinta, possa ancora baluginare un percorso. Esiste una tensione non rassegnata nell’«omuncolo solitario» (Esercizi di ballo, p. 23, v. 9) che vaga nella neve, metafora semplice e raggelante della cancellazione della storia, che segue la direzione del “niente” e prova a riaprire gli occhi.
Per realizzare questa nuova apertura, occorre che il soggetto smussi gli spigoli di un’apparente “centralità”, occorre, appunto, una caduta: «Sapere che dopo un giorno ne verranno / mille altri o che dopo un eone / spunterà ancora l’alba su un campo di trifoglio / mi fa sentire un verme» (Eternità, p. 24, vv. 7-10), occorre la giusta dose di autoironia che “banalizza” il soggetto, lo spinge ai margini dell’opera:
Come back
Non si può tornare indietro.
Quell’espressione che pare una tagliola,
‘come back’, è un invito al nulla.
una volta deve averlo detto anche Thomas Wolfe,
riferendosi a una polpetta lasciata
un secondo di troppo sulla griglia.
Non è possibile riavere le carezze
che non ci sono state date.
E neanche si può tornare a quel giorno
in cui ci colse l’idea esatta e semplice del bello.
Né si può fare in modo che piova
per tutti i mesi in cui restammo all’asciutto.
Purtroppo l’acqua che vedi cadere sta sciupando
l’elicriso e i lillà, come temevo.
(p. 30)
Dall’indecisione iniziale, il libro compie il tragitto di una crescita, una consapevolezza che non si ferma sulla stessa autoironia, non corre il rischio di un minimalismo arreso, ma mantiene un equilibrio di accensioni di senso calibrando le dosi di straniamento:
Sulla statua della beata Giovanna Maria Bonomo tra le rovine di Asiago
Nella cartolina, in mezzo alle rovine
causate dalla ‘furia distruggitrice austriaca’,
spicca la statua intatta
della beata Giovanna Maria Bonomo.
Un episodio così è davvero raro,
come quando ci càpita di evitare un disastro
solo perché eravamo al telefono
o eravamo fuori a fumare.
Quando ne parlai con alcuni amici mi trovavo
dalle parti dello Stadio del Ghiaccio.
Tirava un vento fortissimo che piegava
le cime degli abeti e spazzava violento le strade.
All’improvviso da un tetto piovve una tegola
che ci mancò per un niente.
In seguito discutemmo a lungo del fatto.
Di come la morte giochi a rimpiattino,
del perché ci servano parole pacate,
di cosa credere e cosa non credere,
di un inverno che ci colse duro e farraginoso.
(p. 32)
Allora saranno gli eventi quotidiani ad assumere un ruolo necessario per una fuoriuscita dal sé, per un’espansione della visuale («Perché la poesia è un modo di vedere, / prima che di parlare», Ciao, mamma, p. 80, vv. 41-42) che, partendo da una nominazione precisa, pare arrendersi al mondo, per capire che oltre la nostra prospettiva «Qualcosa al di là succede» (Festa notturna, p. 41, v. 3).
Non una visione pacificata ma una diversa tensione, lo dicevamo, appare a partire dalla seconda sezione, Vasi di Pandora, e si estende alle ultime due, sicuramente le più belle del libro. La parola che esprime la tendenza alla riduzione del sé a cui accennavamo è “comune”. Comune è la scelta di un linguaggio piano, comprensibile, comuni le idiosincrasie: «In realtà a nessuno piace il mondo com’è, / con tutti quei mascalzoni nei posti-chiave, / telecamere dappertutto, una checklist per i fiori, / i formaggi, i donatori di organi» (Come un avviso, p. 45, vv. 7-10). Ma la “banalizzazione” degli eventi manifesta il legame relazionale, affettivo, di chi ha finalmente rinunciato alla sua centralità e si dedica con occhio nuovo alla responsabilità dell’accoglienza, con una fiducia certo disillusa nella potenzialità delle parole:
Dove ambientare i versi?
Dove ambientare i versi?
Sotto una cupola di rame
in mezzo a silfidi e amorini?
In un’aula magna, tra seggiole
di velluto e scaffali di vocabolari?
In un mattatoio dismesso, trasformato
in un garage per auto d’epoca?
Nel millenovecentocinquantaquattro
quando Marilyn sposò Joe DiMaggio?
in un quaderno proibito?
In una vaporiera con patate,
cicoria e peperoni?
Supini, per terra, tra briciole
di pane e fogli di giornale?
Su Nettuno? Su Andromeda?
Sopra un cornicione, tra metope
annerite e cacche di piccione?
Vicino al water-closet sulla striscia
che pende dal distributore?
In un campo di festuche morenti?
Oppure? Oppure?
Dove ambientare dei versi per adoperarli
davvero, invece di ammirarli estasiati
come si trattasse di haute couture?
Ma soprattutto dove cercarli se non sono
da nessuna parte, non forniscono prove e hanno
scarse probabilità come il bel tempo?
(pp. 53-54)
La registrazione dei fatti, la “rubricazione” di eventi minimi che cozzano pervicacemente con le potenzialità della nominazione (niente di evenemenziale, epifanie stinte, invernali appunto), i tempi ridotti, diluiscono la necessità del poco che è esposto «per bruciare meglio» (Registrazione di alcuni fatti all’inizio dell’inverno, III, p. 59, v. 10) ed estorcere un po’ di speranza al «buio secolare» (ibid., p. 59, v. 14).
Nel poemetto al centro della raccolta, Registrazione di alcuni fatti all’inizio dell’inverno, assistiamo alla maturazione dello sguardo, allo svelamento del disincanto, alla trasformazione del tempo della storia in presenza:
IV
Leggo i fatti crudeli, come le enfumades
dei ribelli algerini ordinate dai francesi.
La storia è fatta così: soldataglie
che massacrano soldataglie.
Non saprei chi sia stato il peggiore.
Lo penso avvolto in un plaid di lana,
sotto una luce rosa, vicino a una madia chiara.
Come ci sia qualcuno disposto a morire
perché noi possiamo arrotolarci nei plaid,
leggere libri di storia, addormentarci dolcemente,
riflettendo sull’essere.
(p. 60)
X
Cosa mai ne saprà Marina, la nostra
domestica venuta da Chișinău?
Cosa mai farà di domenica, lei come tutte
le altre ragazze di Chișinău?
Vestite da festa, camminano su e giù
per la città come avveniva
duecento anni fa.
Marina pensa ai giovani moldavi, ai gaugazi
dai capelli neri, ai piccoli orti di ciliegi,
a Mateo Muriano e a Hieronimo da Cesena,
a quanti anelli d’oro andarono perduti
lungo le strade per Roma e Venezia.
La storia è una china pericolosa.
Lassù un refe sottile congiunge i cieli.
(p. 67)
L’ultima sezione, Ascendenti, ribalta totalmente l’assunto iniziale del ricordo nostalgico a favore di un successivo svelamento. Il soggetto disilluso si scopre nello spazio della sensazione e rifugge la mera registrazione dei fatti. Il tempo ridotto nel ricordo imprime una necessità che resiste alla scomparsa, per quanto inevitabile: «… era restato poco tempo. Quello necessario / ad aprire una porta, a percorrere un corridoio, / a bollire il latte, a preparare un letto» (Poco tempo, p. 84, vv. 8-10). Così è il ricordo a far sorgere rivelazioni come nella bellissima Ciao, mamma:
Ciao, mamma
Ciao, mamma. Metto per iscritto le parole
che ti ho detto quella sera, quando l’infermiera
asciugandoti un batuffolo bianco sulla bocca,
mi ha sussurrato: “Guardi che non c’è più”.
Non sono stato capace di dirti altro,
come i ciclisti dopo la vittoria di tappa
o come un marmocchio alla sua prima foto
da scolaro, mentre cerca i suoi nella folla
che si accalca dietro una Polaroid.
Ecco: il lampo del magnesio e poi un buio fitto.
Chissà dov’eri finché ti salutavo.
Eri in quel buio naturalmente,
con le tue scorte di cipria e il tuo
finissimo scialle rosa sulle spalle,
con i tuoi occhi grigi che, ho capito finalmente,
mi restavano in eredità.
Sono contento di avere i tuoi occhi.
Mi sa che perforavano un sacco di cose,
forse anche i muri di oblio che gli anni
ti avevano piazzato accanto a tua insaputa.
“Ciao, mamma” ho balbettato guardandomi intorno,
preoccupato che le tue compagne di camera
mi prendessero per scemo. E mi sentivo
per davvero scemo, un po’ stranito,
come se la tua morte fosse colpa mia
e, mentre le orecchie mi fischiavano,
come se un rimbombo oscuro
si stesse frantumando in mille suoni orribili.
Intanto si era alzato il vento. Dal finestrone
vicino al tuo letto vedevo le cime dei castagni
piegarsi. È lì che ho pensato che il vento
è la cosa più simile alla felicità: nessuno sa
dove nasca e neanche quando finisce.
Come quel brusco vento garbino
di sessant’anni fa quando, seduto sul sellino
della tua bici con una girandola in pugno,
salutavo un mondo di vetro che correva via.
E tu che sussurravi: sembra una poesia.
Devo averti presa sul serio. Per questo
quella sera non ho spiccicato altro.
Perché la poesia è un modo di vedere,
prima che di parlare. E basta molto poco
per riempire il silenzio fino all’orlo.
Mentre dottori e suore e infermiere
andavano e venivano, io e te ci siamo messi
a guardare quella girandola rossa fiammante
che loro non potevano neanche immaginare
e che girava all’impazzata come un tempo.
Ripensandoci, credo che ‘ciao’
fosse proprio la parola giusta.
(pp. 79-81)
La contrazione del senso nel dolore e nel ricordo suscitato dal momento della scomparsa, la compresenza del soggetto con un’alterità spiazzante ma vissuta, negli ultimi testi del libro raggiunge i suoi esiti più alti. Il ricordo è epifania che non si fissa ma ritorna costantemente alla fluidità dell’esistenza: «… Era come essere sul ciglio / del tempo, invasi da un’acqua inaudita» (Liber usualis, p. 82, vv. 10-11).
“Essere sul ciglio del tempo”, vale a dire riscoprire la storia (il flusso) nella “non-storia” dell’esperienza personale:
Non-storia
Mio padre che canticchiava radendosi,
era non-storia.
Mia madre che a Carnevale
con uova, burro e limone faceva dei riccioli
da leccarsi le dita, era non-storia.
Mio fratello che da bambino
era istrionico come Gesù nel tempio,
era non-storia.
Io che allora avevo la bronchite asmatica,
ero non-storia.
La storia è soltanto l’accumulo
di tante, fugaci, non-storie.
(p. 87)
La consapevolezza di essere niente e tutto, l’astrazione del ricordo che permette di aderire alla dimensione materica del mondo consente di raggiungere la vita con tutte le “stranezze” percepite da un soggetto in deficit, ma presente e conscio di una scomparsa sempre imminente. Se «la vita è strana. È una pioggia di ricordi / perfino sciocchi…» (Bloom, p. 89, vv. 12-13), noi siamo per testimoniare fugacemente il mondo, sempre prima, sempre spostati verso qualcos’altro da noi, «un’acqua grigia che ci porta via…» (Una fredda domenica di giugno, p. 93, v. 15).
Gianluca D’Andrea
(Luglio 2016)
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