«Una volta ero giovane e impaziente di vivere. Che cosa è successo? Eppure mangio lo yogurt naturale, compro uova biologiche. Smisto i rifiuti. Mi tengo al corrente su cosa accade nel mondo. Cos’altro mi serve?
Mia figlia vuole che riparta da zero, che cambi radicalmente il mio modo di vivere, le mie abitudini. Dice che è un mio dovere. Dice che lo devo alle giovani generazioni. E che devo scrivere per salvare il mondo. So che ha ragione. Ma più leggo articoli d’attualità, più mi sembra che il mio compito diventi più vasto, la mia responsabilità più grave. È più facile vivere abbassando lo sguardo. L’ignoranza ti rende libero, la conoscenza ti imprigiona nelle catene della responsabilità».
Jón Kalman Stefánsson – Storia di Ásta (Iperborea, Milano, 2018, p. 262)
«Solo il suo nome, e ovviamente le date, 1900-1978: un’intera esistenza concentrata in un trattino».
(Jón Kalman Stefánsson, Grande come l’universo, 2016, p. 61)
Mentre aspetto di rileggere Pasolini, per scoprire come “dall’assenza di ogni distinzione” possano riformularsi “nuovi miti”, m’imbatto ancora una volta in Stefánsson, dopo I pesci non hanno gambe eccomi a leggere la seconda parte, Grande come l’universo, di una “banale”, cioè splendidamente comune, epopea isolana. Certo un’isola del Nord Europa con poche assonanze con la “mia” isola, un’isola del sud, mediterranea. Storia diversa, eppure liminare in entrambi i casi, vulcani e natura, terremoti e invasioni – fiordi e insenature? – ma, ripensandoci, veramente sono così diverse Islanda e Sicilia? Non so, il fatto di sentire dentro – leggendo – una storia di orientamento in uno spazio lasciato e ritrovato, ma senza nostalgia, più per necessità, in un tempo che è il “mio” tempo (anni ’80 e presente che si mescolano), ha scatenato una riflessione sulla “perdizione”, un cortocircuito:
Che ci fai, Pollicino, in questo cimitero?
Altro che le molliche: fuoco e fiamme!
Che ci fai qua?, gli chiedo,
come ci sei finito?
Possibile che tu ti perda sempre?
Cerchi di ritornare, ma ti perdi.
Tu ti perdi. Non so,
ti perdi sempre.
(Valerio Magrelli, Guida allo smarrimento dei perplessi, 2016, p. 17)
Provare a raccontare il nostro passato perduto è sempre il solo modo di riattivare il presente, in una trasformazione che si desidera sia un nuovo orientamento. Ma il presente è la risultanza di un passato-prossimo-perduto? P.P.P.
Aspettando Pasolini, “solo il suo nome”, le date, 1922-1975, e “un’intera esistenza concentrata in un trattino”.