Carteggio XXXVII: Dalla pura superficie alle sfumature dell’ombra – In dialogo con Guido Mazzoni per una nuova percezione di presenza

l'attesa

Attesa (Foto di Gianluca D’Andrea)

Carteggio XXXVII: Dalla pura superficie alle sfumature dell’ombra – In dialogo con Guido Mazzoni per una nuova percezione di presenza
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Penso che ne La pura superficie ci sia più cattiveria esposta, l’atmosfera è condotta a temperature bassissime proprio quando si racconta tanto; il testo diventa davvero il contraltare del reale, della possibilità che quest’ultimo emerga nel suo calore.
Come ultima speranza, in tutta la potenziale scomparsa della presenza, c’è Stevens, ovvero la plausibilità oscillatoria che tutto possa ancora accadere, un pensiero che giganteggia dove il resto è clima: più o meno freddo, più o meno caldo.
La suprema finzione è la poesia cui spetta il solito, estremo – perché sempre ultimo – compito di ricomporre una nuova mitologia. «Negate tutte le grandi realtà, viviamo oggi in un groviglio di mitologie nuove e particolari […], proclamate con un’incoerenza sempre più diffusa», è proprio Stevens a chiarire nelle riflessioni contenute ne L’Angelo necessario, ed è per questo che Mazzoni sceglie questo poeta immane nella sua “coerenza” oscillatoria, per sviluppare una cornice di possibilità nel quadro desolante della nostra contemporaneità, nel suo raddoppiamento spettrale, in cui ancora può fare “eccezione” «chi dice io», cioè «il soggetto». Un soggetto che può, miracolosamente, accompagnarsi a un essere «felici di esserci ancora» e proprio nel momento più buio dell’assenza (che Mazzoni sembra voler ritardare o di cui non riesce ancora a leggere la trasformazione), quando «le parole non contano» e riappaiono in lontananza i fatti, i racconti di una nuova presenza, una resa.
Gianluca D’Andrea
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CADUTA E SCOMPARSA NELLA LEGGE

La poesia, madame, è la finzione suprema.
Prenda la legge morale e ne faccia una navata
E da questa costruisca un cielo di fantasmi.

(Wallace Stevens, Una vecchia cristiana arcigna, da Armonium, 1922)

Perché forse i princìpi sono i fantasmi delle vere responsabilità. Cioè il sogno che non può fissarsi perché è solo la soglia di una dimensione troppo intima per poter dire alcunché di generale. La cateratta dell’assoluto è il sogno di una responsabilità senza principio. Non parte e non arriva nulla quando si attraversano soglie, si è solo indirizzati a un altro piano, dislocati in altre dimensioni, più semplicemente traslocati. Un “cielo di fantasmi” sovrasta l’opera e a noi non dovrebbe restare che prendere atto della falsificazione continua cui sottoponiamo il mondo con la nostra presenza. Soltanto che il mondo non sarebbe senza questa stessa presenza. Ecco perché non è procrastinabile ri-presentarsi al mondo e dare scacco alla sua presunta verità (e un po’ alla nostra impresentabilità).
«Come un’isola avvistata in fondo a un sogno» (P. Jaccottet, Libretto, 1995, p. 29) la legge, l’accumulo immane e angosciante di tutte le norme che hanno tentato di regolare la vita sociale, puntando alla definizione della civiltà. Ma come definire, rifinire, qualcosa che si vorrebbe perfetto, lo status – l’habitus – di una convivenza irraggiungibile. Già, perché la legge rappresenta, come ingrandita, la nostra caduta nella “definizione”. Come definire la “relazione” in relazione ad azioni estemporanee, impulsive, native? Come, se non bloccando ogni transito in favore di una stasi normativa? Ecco, la legge è il fissarsi del monito, di un’attenzione, di un ricordo, dell’avvertimento che c’è qualcosa di nocivo nelle azioni, che occorre il controllo del fluire attraverso la fermezza della norma statuaria, del modello.
La più grande idea dell’uomo – che risiede ancora “in fondo a un sogno” -, almeno dell’uomo occidentale, è che di condivisibile c’è la nostra separazione all’interno di una cornice collettiva, riscritta sulla paura causata dal ricordo lontano di un primo dolore.

Caduta e scomparsa.

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UN GROVIGLIO DI MITI (estratto)

«Negate tutte le grandi realtà, viviamo oggi in un groviglio di mitologie nuove e particolari […], proclamate con un’incoerenza sempre più diffusa».

(Wallace Stevens)

Che poi è un mistero che attrae e inghiotte la scrittura. Cos’è la fine di “tutte le grandi realtà” se non la scomparsa di vecchie infrastrutture al cui posto s’innalzano i contrafforti di una possibile prospettiva sul mondo? E se sono terminate per sempre – nel senso che è continua la negazione di qualsiasi “grandeur”, si chiami anche ideologia – le grandi visioni, allora è necessario spiare lo scarto, la figura che emerge indistinta dalle macerie di una negazione.
Dal “groviglio di mitologie” emergono le figure che si fanno strada in un nuovo quadro, dipende, però, dall’immaginazione che scorge queste immagini. Si tratta di setacciare forme, interpretare concetti, tessere parole per provare a esprimere ciò che si presenta indefinito. La poesia è in cerca di una definizione irraggiungibile, per questo manifesta tracce, sagome di un reale inappropriabile.
La poesia giunge quando si arrende alla visione, per quanto molteplice, “aggrovigliata”, e prova a sondarne la coerenza. Il poeta cade dentro la visione e allora la poesia si trasforma in un mondo, il che comporta la scomparsa del soggetto, a prescindere dalla presenza o meno della prima persona, con buona pace di Aristotele.
«The dreadful sundry of this world» e non un altro (ancora Stevens), da cui non resta che cogliere “figure” per una nuova mitologia.

Nessun uomo è impossibile quando si ha a che fare con figure e parole, conta però non perdere il contatto con il reale. Non sono figure fantastiche a prodursi da uno sforzo d’immaginazione ma forme che, nel tentativo di cogliere l’attuale, transitano nella trasformazione. La scrittura poetica compone e scompone le fattezze, tenta di riattivare il senso decretandone la scomparsa.
È una specie di caduta nell’ineffabile proprio quando più forte si fa la necessità di un contatto. Una disperazione che continua a sperare nonostante l’assenza di un fine.

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INDIZI DI PRESENZE (estratto)

L’ombra (o la luce abbagliante, che non ha funzione troppo diversa) in cui sfuma il soggetto, ne definisce l’identità. Così la poesia sembra restare un intrico di tracce che prova a rispondere a quella che Wallace Stevens definì come «immane accozzaglia di questo mondo». Non si tratta semplicemente di dare un ordine al caos – azione sfasata e reazionaria rispetto ai tempi e non solo – quanto piuttosto di restituire la complessità del mondo attraverso indizi di presenza. Se il mondo è delle immagini è perché la tensione a una semplificazione del linguaggio sottende una necessità di comunicazione complessa – “relazionale” – che l’ultimo trentennio almeno (anche se il percorso ha origini sicuramente più antiche e s’intreccia al concetto di omologazione) ha, invece, appiattito sulla mera informazione. Così la comunicazione per immagini sembra essere il segnale di un tentativo di riapertura, un nuovo codice di rappresentazione, con i rischi incombenti di una pseudo-presenza, o meglio, di una presenza auto-manipolata. Lo spettro di Narciso si aggira tra stanze sempre più solitarie e rimbalza tra gli schermi contagiando e, allo stesso tempo, provocando la necessità di una fuoriuscita.

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RESA AL MONDO

«mentre la luce acceca, l’ombra rigenera».

«Il suggerimento finale, la dichiarazione finale non deve essere un’affermazione, ma piuttosto una resa».

(Jasper Johns)

La lunga riflessione sull’etica della parola nei decenni della mia formazione non interrompe il dialogo ancora dialettico tra un soggetto, talvolta ben disposto, talaltra oppositivo, e l’oggetto che cade nel suo campo d’azione. La questione dell’immersione o meno in un paesaggio che non è più tale – non è più per definizione porzione territoriale e prospettica – di un soggetto dentro un contesto (che non sia più campo d’azione), ci conduce a considerare quel «lavoro di depsicologizzazione – e anche di desoggettivazione» di cui parla François Jullien (F. Jullien, Vivere di paesaggio o l’impensato della ragione, Mimesis, Milano-Udine, 2017, p. 60).
Un’umbratile risonanza d’interiorità parrebbe scaturire dall’immersione nel contesto, dalla resa al mondo per come arriva. Un po’ come nella poesia (e forse nella creazione artistica tout court): si crea l’attesa che maturerà un prodotto una volta dimenticata tale attesa (una volta dimenticato il soggetto di percezione), quando l’io è stato inghiottito dal contesto e dalle azioni di risposta allo stesso, ecco arrivare il frutto del sentire. Non siamo esseri d’emozione, per cui è necessario accontentare ogni impulso, siamo più che altro esseri nell’emozione, immersi in una «co-originarietà» (ancora Jullien) col mondo che ci annienta in esso, e la cui ombra, l’angolo-attimo di percezione, ha l’unica valenza di rigenerare il desiderio del contatto. Una vibrazione familiare:

«La fanghiglia delle strade, con i suoi umidi barbagli nell’oscurità nebbiosa e con il contrappunto che prometteva […] formava un’armonia che egli in un certo senso conosceva a memoria. I limpidi rintocchi degli orologi delle torri, che ora incombevano sulla città, ora si sovrapponevano echeggiando in lontananza, si mescolavano alle grida acute dei giornalai in un modo strano, profondamente familiare».

(Vladimir Nabokov, La vera vita di Sebastian Knight, Adelphi, Milano, 1992, p. 51)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (46): RESA AL MONDO

nathan walsh

Nathan Walsh, NYC6AM, 2014 (Seven Bridges Foundation) – Fonte: nathanwalsh.net

di Gianluca D’Andrea

«mentre la luce acceca, l’ombra rigenera».

«Il suggerimento finale, la dichiarazione finale non deve essere un’affermazione, ma piuttosto una resa».

(Jasper Johns)

La lunga riflessione sull’etica della parola nei decenni della mia formazione non interrompe il dialogo ancora dialettico tra un soggetto, talvolta ben disposto, talaltra oppositivo, e l’oggetto che cade nel suo campo d’azione. La questione dell’immersione o meno in un paesaggio che non è più tale – non è più per definizione porzione territoriale e prospettica – di un soggetto dentro un contesto (che non sia più campo d’azione), ci conduce a considerare quel «lavoro di depsicologizzazione – e anche di desoggettivazione» di cui parla François Jullien (F. Jullien, Vivere di paesaggio o l’impensato della ragione, Mimesis, Milano-Udine, 2017, p. 60).
Un’umbratile risonanza d’interiorità parrebbe scaturire dall’immersione nel contesto, dalla resa al mondo per come arriva. Un po’ come nella poesia (e forse nella creazione artistica tout court): si crea l’attesa che maturerà un prodotto una volta dimenticata tale attesa (una volta dimenticato il soggetto di percezione), quando l’io è stato inghiottito dal contesto e dalle azioni di risposta allo stesso, ecco arrivare il frutto del sentire. Non siamo esseri d’emozione, per cui è necessario accontentare ogni impulso, siamo più che altro esseri nell’emozione, immersi in una «co-originarietà» (ancora Jullien) col mondo che ci annienta in esso, e la cui ombra, l’angolo-attimo di percezione, ha l’unica valenza di rigenerare il desiderio del contatto. Una vibrazione familiare:

«La fanghiglia delle strade, con i suoi umidi barbagli nell’oscurità nebbiosa e con il contrappunto che prometteva […] formava un’armonia che egli in un certo senso conosceva a memoria. I limpidi rintocchi degli orologi delle torri, che ora incombevano sulla città, ora si sovrapponevano echeggiando in lontananza, si mescolavano alle grida acute dei giornalai in un modo strano, profondamente familiare».

(Vladimir Nabokov, La vera vita di Sebastian Knight, Adelphi, Milano, 1992, p. 51)

11 settembre 2001 – 11 settembre 2017. Un’ombra

jasper johns d'andrea

Lettura #300, 27 agosto 2017, p. 30 (Foto ed elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea). In evidenza Jasper Johns, “Flag”, 1954-1955

11 settembre 2001 – 11 settembre 2017. Un’ombra

L’ombra del 2001

Inizia il terzo millennio e il primo
segnale che qualcosa di mostruoso
possa germogliare è il buio in mezzo
all’Asia. Ma occorreva risparmiare
e l’umiltà è la nostra forza, passavamo
dal tungsteno monocristallino, quale
ricchezza nelle parole, all’uranio
impoverito, meno costoso ma carico
di regali anche a gennaio. La Befana
ha nel sacco il ramo cadetto di un cespuglio
texano, un tipo particolare di gemmazione:
rancorosa, vendicativa, violenta.
Isteria, pazzia, velocità
dell’informazione. Wiki e MCD
e cloni e c’era Napster, musica gratis
in ogni dove, un paradiso. Poi
quest’anno malefico. Erika e Omar
fanno a pezzi la famiglia ma in Olanda
si festeggiano i primi matrimoni gay. Annus
horribilis dov’è il discrimine tra amore e odio,
tra la buona morte e la cattiva?
Da quale sasso cosmico il virus della vita?
Addio Carlo per un G8 andato a rotoli,
addio all’uomo, The Falling
Man che cerca la caduta, l’atto subalterno
alla disperazione – attaccamento
alla vita-morte-vita – rebus
di risposte, attentati preventivi
alla nostra salvaguardia, dissolta
in piagnistei multitasking. Perché dobbiamo
creare di più, pluriattivarci
nell’odio, nell’amore, nella commozione,
morte-vita-morte. Era solo
un undici settembre, martedì,
dies mirabilis, meraviglia dello scompiglio
mediatico, salto quantico dell’uomo
in caduta, vita-morte-vita? Morte.
Da allora, l’espulsione periodica
di linee spettrali che squilibrano
il sistema, una cascata d’ombre
che ci allena alla deriva, WTC.

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Il Presidente Barack Obama, con l’ex sindaco Michael Bloomberg, osserva le foto delle vittime (Official White House foto by Pete Souza)

Anthrocene (Nick Cave and the Bad Seed)

All the fine winds gone
And this sweet world is so much older
Animals pull the night around their shoulders
Flowers fall to their naked knees
Here I come now, here I come
I hear you been out there looking for something to love
The dark force that shifts at the edge of the tree
It’s alright, it’s alright
When you turn so long and lovely, it’s hard to believe
That we’re falling now in the name of the Anthrocene

All the things we love, we love, we love, we lose
It’s our bodies that fall when they try to rise
And I hear you been looking out for something to love

Sit down beside me and I’ll name it for you
Behold, behold
The heaven bound sea
The wind cast its shadow and moves for the tree
Behold the animals and the birds and the sky entire
I hear you been out there looking for something to set on fire
The head bow children fall to their knees
Humbled in the age of the Anthracene

Here they come now, here they come
Are pulling you away
There are powers at play more forceful than we
Come over here and sit down and say a short prayer
A prayer to the air, the air that we breathe
And the astonishing rise of the Anthrocene

Come on now, come on now
Hold your breath while you’re safe
It’s a long way back and I’m begging you please
To come home now, come home now

Well, I heard you been out looking for something to love
Close your eyes, little worm
And brace yourself