Nella spirale. Intervista a Gianluca D’Andrea – Satisfiction

Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) è il nuovo libro di Gianluca D’Andrea, uscito per Industria&Letteratura 2021 nella Collana Poetica diretta da Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto con la postfazione di Fabio Pusterla. Come già in passato, l’autore si confronta con l’estasi della scrittura che esce sempre fuori dai propri limiti narrativi e poetici e si fa saggio ma sui generis. Assaggio. Tentare il cammino nel territorio più sconosciuto e estraneo: quello che ci appartiene, l’ombra interiore che diventa paesaggio lunare di un’isola nelle retine dell’infanzia. Il libro articola le quattro stagioni in 40 componimenti suddivisi in gruppi da 10 e come la transizione della stagione in un’altra è un lento dividersi di cromatismi e suoni che pur unisce, allo stesso modo la scrittura stabilisce legami sottili e profondi tra una stagione e l’altra, tra una stasi e la successiva. Estasi, appunto. L’andamento è frattalico sempre in circolo attorno al buco nero, la caverna, l’abisso, la maschera che copre il buco-bocca, e sempre preciso nel servire l’appiglio, l’aiuto al mancamento: i padri, le madri, i testi in esergo e dentro al foglio dei maestri. La catastrofe sociale e ambientale subisce una metamorfosi: la fine è un mondo nuovo e la scrittura pare farsi protesi potenziante di un corpo bio-sociale in sfacelo. La quattro stagioni sono musica con catarsi finale. Quadrifarmaco del nuovo nulla post-pandemico.

Gianluca Garrapa

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«L’aria s’ispessiva in blocchi grigi sparpagliati tra le pareti cavernose.» È un estratto da Nelle profondità III dalla seconda sezione Estate. Qui come altrove, il buco e la spirale del titolo che evoca un abisso, un vortice. La lettura trascina da una materia scomposta fino a un nuovo modo e mondo di intendere il rapporto della parola con l’ambiente. Il titolo è anche un’evocazione dell’inferno, dell’interno, del buio di questa pandemia. Che rapporto esiste tra la tua scrittura e il meccanismo sociale e ambientale intorno?

Di scambio continuo. Ne parlavamo proprio insieme in un’altra intervista di un po’ di tempo fa (alla quale mi permetto di rimandare: Conversazione con Gianluca D’Andrea su “Forme del tempo”). In quel caso discorrevamo del segno linguistico e della possibilità o meno che esso possa restituire una referenza; adesso la tua domanda sembra confermare che un’occasione di contatto tra parola e mondo (traduco così il tuo “meccanismo sociale e ambientale”) esista, anzi, sembra proprio necessaria.

Nella spirale, nasce e si sviluppa durante il primo lockdown, in un’atmosfera di reclusione comunque coatta, per quanto giustificata dall’emergenza sanitaria. È una specie di diario del mutamento, perché se partiamo dal presupposto di una responsabilità dell’inclusività, cioè dell’«incontro tra la consistenza oggettiva del fenomeno e l’esperienza che il soggetto ne fa» (come dice Niccolò Scaffai in Letteratura e ecologia, riflettendo sull’opera del filosofo giapponese Watsuji Tetsurō), allora la tensione al contatto con “l’ambiente intorno”, ha sicuramente subito una battuta d’arresto. L’operazione del libro, e il titolo prova indicarlo, è una discesa nel territorio dello stesso mutamento che prova a scandagliare il “buio” di cui dici e la speranza di un miglioramento.

Come nell’Un-zuhause heideggeriana, si tratta di spingere sempre, nonostante l’angoscia, a una fuoriuscita, in primo luogo da sé, e dalla convinzione che «al buio non vi è […] “nulla” da vedere» perché, invece, a partire da quel nulla «proprio il mondo “ci” sia ancora in una modalità di maggiore urgenza» (M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano, 2006, p. 541)

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Intervista su “Nella spirale” per Radioquestasera

Podcast dell’intervista del 4 dicembre 2021 di Radioquestasera PuntoRadioFM Bernardo Cirillo: Gianluca Garrapa intervista il poeta Gianluca D’Andrea su Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) edito nel 2021 da Industria e Letteratura. Al libro l’autore abbina il brano musicale “Sonata prima” (from Sonate concertate in stil moderno per sonar, libro secondo) di Dorothee Oberlinger, Dario Castello.

Buon ascolto!

“Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)”. Gianluca D’Andrea e le “coordinate di una mappa sempre in divenire” (Intervista completa sull’EstroVerso)

Foto di Dino Ignani

Avanzare, “camminare scalzi”, passo dopo passo realizzare “il contatto pieno con ciò in cui ci troviamo”. Ritornare, e all’arrivo “una nuova attesa ad attenderci”. Desiderare, “un altrove”. Reinventare, fuori “dal commercio degli uomini”, fuori “dal dominio e dalla clausura”, dentro “il mistero dell’ambivalenza dell’essere”, dentro “il limite del nostro abitare”, dentro “l’atmosfera mutevole del profondo”, dentro questo “tempo inesistente”, (forse) ultima possibilità di “agganciarsi a qualcosa di concreto”, dentro “alle stagioni in cerca d’altro mare”. Suggestioni raccolte leggendo il volume “Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)” di Gianluca D’Andrea (nella foto di Dino Ignani), pubblicato da Industria&Letteratura, nella collana “Poetica”, a cura di Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto (in copertina illustrazione di Francesco Balsamo; all’interno disegni di Vito M. Bonito). Un libro complesso, prodigo di riferimenti, di interrogativi sottesi all’unico “vero accordo col mondo”, pensato in quaranta “scintille” che ci fanno (ri)percorrere un vertiginoso vortice, acceso da “un costante dialogo con una vasta galassia di autori”, scrive Fabio Pusterla nella postfazione.

La scrittura è forse “l’ultima possibilità di agganciarsi a qualcosa di concreto?”

No, non credo. La scrittura per come la conosciamo è a un punto di svolta epocale. Non è solo la preponderanza dell’immagine legata alla rete a far slittare i significati, ma l’apertura di un nuovo “reale” derivante dalla connettività associata.
La scrittura, in questo contesto rinnovato, funge da monito o promemoria, ci ricorda che un cammino esiste, che il linguaggio è la proiezione di una soglia e, di conseguenza, della scelta. Il progresso dell’umanità da due secoli a oggi sta riducendo il margine stesso di questa scelta, per tale motivo ritengo che alla scrittura spetti sempre più un ruolo secondario, per niente concreto (se con il termine intendiamo qualcosa di chiaramente individuabile), anzi totalmente affabulatorio. D’altronde, la citazione interna alla tua domanda è all’inizio di Nella spirale, dove ci si riferisce al tempo inesistente e circolare del mito, non a quello lineare e “progressivo” della storia. Eppure, non è dato sapere se questo vivere sul bordo del significato, della scrittura e specialmente della poesia, non possa essere un modo per resistere a una scomparsa e immaginare un nuovo inizio. Non è la scrittura ma è un’epoca che si dissolve a far intravedere una nuova individuazione, un nuovo mondo. La scrittura si limita a sentire il transito. Più avanti nel libro, saranno le parole di Stephen Watts a fissarlo: «Sono le cose ai margini / remoti che stanno al cuore del nostro / mondo, e ci staranno sempre, quando / ogni altra cosa sarà andata distrutta».

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“Nella spirale” su La Sicilia

Nella spirale

su La Sicilia del 31 ottobre, a cura di Grazia Calanna per la sua rubrica Ridenti e fuggitivi

Visite allo zoo/8: Gianluca D’Andrea

Oggi su LE PAROLE E LE COSE² Massimo Gezzi mi fa alcune domande su insegnamento e poesia, insegnamento della poesia con tutte le difficoltà (e la bellezza) che comporta.


a cura di Massimo Gezzi

[Ottava apparizione per “Visite allo zoo”, la rubrica a cura di Massimo Gezzi costituita da una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione. Dopo Fabio Pusterla, Francesco TarghettaMarco Balzano, Marilena RendaGian Mario Villalta, Paolo Febbraro e Tommaso Di Dio, oggi risponde Gianluca D’Andrea].

1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?

Ho un contratto a tempo indeterminato dal 2014, dopo l’iter, per la mia generazione tristemente convenzionale, del precariato, durato 10 anni in giro per la penisola (nello specifico Sicilia e Lombardia, con una tappa intermedia a Firenze). Ho sempre lavorato alle scuole medie alternando Lettere e Sostegno. Adesso insegno stabilmente Lettere in una scuola media a Treviglio in provincia di Bergamo.

2) Ho intitolato un contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in un zoo?

Inizio dalla fine: l’immagine dello zoo per me è “limitante”, fa pensare a gabbie, recinti, zone di clausura. Vero, esiste la questione dell’obbligo, della burocrazia, delle programmazioni, eppure ho sempre percepito la scuola come un passaggio, un attraversamento. Mantenendo una certa aderenza con la tua metafora, allora penserei a un safari, in cui ognuno di noi, senza troppe distinzioni tra alunni e docenti, può accumulare istantanee e provare a elaborare un percorso di crescita. Io, poi, parto da esperienze diverse rispetto alla maggior parte degli autori che hanno già risposto a queste domande (solo Marilena Renda, ha avuto esperienze simili durante gli anni di precariato). Insegnando alle medie, la poesia non ha un ruolo preponderante come nelle programmazioni liceali, anche se in prima con l’Epica e in seconda e terza con i primi approcci alla Letteratura, chiaramente affrontiamo la questione. La dominante con i ragazzini dai 10-11 ai 13-14 anni che si avvicinano alla poesia dopo le esperienze per lo più mnemoniche delle filastrocche elementari, è quella emozionale e questa, per quanto mi riguarda, è una fortuna. In prima media, siamo ancora abbastanza liberi dai pregiudizi sul genere, quindi è relativamente facile impostare il lavoro sulla poesia partendo dalle sensazioni prodotte dal testo nudo e crudo e solo dopo arrivare anche agli aspetti tecnici e alla storia dell’autore che l’ha composto. Quando parlo di emozione, parto da ciò che vedo, le reazioni dei ragazzi, che vivono l’esperienza come un movimento che li porta verso l’esterno, un’alterità inesplorata che la prosa non riesce a suscitare, perché, a detta loro, li “immedesima” nella storia, in qualcosa che riconoscono. In poche parole, la poesia li disorienta e li sorprende (solo due generi che affrontiamo in Antologia hanno questa capacità estraniante e “tensiva”: l’horror e la fantascienza). Chiaramente è una constatazione di massima, è ovvio, infatti, che non tutti possono avere la stessa attenzione o sensibilità, per motivi che esulano la didattica e spesso sono  dettati da disagio sociale, psicologico, ecc. La maggior parte del mio precariato l’ho vissuto in scuole di “frontiera”, in periferie urbane dissestate, al sud e al nord del paese senza distinzione, probabilmente ho imparato in questi ambienti la grande necessità di relazione e trasmissione che condiziona ogni linguaggio, poesia compresa.

Forse ho un po’ travisato il senso della tua domanda, credo però che la custodia cui ti riferisci non sia sufficiente, non salvaguardiamo semplicemente una tradizione ma la rimettiamo in circolo, provando a indirizzarne il flusso. Mi sembra necessario correre questo rischio.

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Intervista sull’EstroVerso a cura di Marco Sonzogni e Rossella Pretto

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Foto di Dino Ignani

Oggi per Chiedimi ancora, a cura di Marco Sonzogni e Rossella Pretto, un’intervista in cui parlo di poesia, immaginazione, sovversione. Si ringrazia l’EstroVerso (Grazia Calanna) per l’ospitalità.


La poesia come demone moraleggiante e condominio solitario: Gianluca D’Andrea e Alessandro Canzian

La poesia è urgenza di comprendere il mondo e restituirlo in immagini, vite vissute che si innestino tra le pagine.
Se Gianluca D’Andrea scandaglia il mondo attraverso strumenti sociologico-filosofici che rimettono poi in gioco la capacità immaginifica della parola, Alessandro Canzian cerca di rendere la distanza volontaria e inconsapevole tra le persone partendo da un vissuto intimo per allargare lo sguardo a una più vasta porzione di realtà.
Camminano dunque entrambi in quel solco che da individuale si fa condiviso.
Buona lettura!

Rossella Pretto e Marco Sonzogni

L’ultimo lavoro di Gianluca D’Andrea è Forme del tempo – (Letture 2016-2018) (Arcipelago Itaca 2019). In Postille (tempi, luoghi e modi del contatto) (L’arcolaio 2017) ha raccolto i commenti a singoli testi di poesia moderna e contemporanea, elaborati dal 2015 al 2017 in vari siti letterari. L’ultimo libro di Alessandro Canzian è Il colore dell’acqua (Samuele Editore, 2016). Condominio S.I.M. uscirà per i tipi di Stampa 2009.

CINQUE DOMANDE AI POETI: GIANLUCA D’ANDREA (1976)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Mi piace partire, per provare a rispondere a questa tua prima domanda, da un’espressione di Andrea Zanzotto, rintracciabile all’inizio di Fosfeni. Si tratta di «coagulo sacro» che, nel testo d’appartenenza (Come ultime cene), indica la transustanziazione, meglio la «materializzazione» e, quindi, l’umiliazione di qualcosa di inviolabile, separato. Ecco, per me, quel «segno» che «s’innerva» è la poesia, che arriva sempre dal basso e nel tentativo di agganciarsi al reale, se ne trova irrimediabilmente separata. S’intuisce un’urgenza, che veramente scorre nelle «mie vene» e poi defluisce nella mia scrittura: il tentativo costante di rimediare a un’assenza di fondo (anche il mottetto di Montale da te citato parla un po’ di questo). Più di cosa o chi, allora, a essere decisivo è come affrontare la relazione presenza/assenza, la scissione cardine, direi, del gesto poetico. Nel mio caso, ne sono più consapevole adesso che ho superato i quarant’anni, a diventare decisiva è una spinta agonistica. Ho proprio difficoltà ad accettare il reale per ‘quel che è’, a considerare «la trasparenza del male» (per citare un titolo celebre di Jean Baudrillard) e restare indifferente. Fu Magrelli il primo a intuire nella mia scrittura un demone moraleggiante e, quindi, una visione austera del mondo, che ne rifiuta la «perdita di realtà» (ancora Baudrillard), pur tenendo in considerazione il suo versante oscuro.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Riallacciandomi alla risposta precedente e ridefinendone il finale: non vedo oscurità, perché siamo già dentro quello «spilling dark» evocata dal grande poeta scozzese Robin Robertson. Insomma un’ombra ci è già caduta addosso, quel “rivolgimento” (Zukehr) di heideggeriana memoria, che è anche “esser-volto-verso” una costante caduta. Da quando, cioè, «la metafisica è realizzata nella fisica, adagiata nella tecno-scienza» (come diceva già nel 1988 Lyotard), ogni visuale è stravolta, schermata e, quindi, esposta nella «trasparenza totale dell’informazione» (Baudrillard). Siamo in un’oscurità totale, appunto, per eccesso di “illuminazione”, non è certo una novità. Per non sprofondare completamente nell’interfaccia che annulla definitivamente l’Altro, avverto la necessità di una fuoriuscita. A essere centrale nella mia riflessione è ancora il “come”: a mio avviso, la vera urgenza in poesia risiede nel rimettere in gioco la capacità immaginifica della parola, per ri-creare ininterrottamente il reale. Il «passaggio dallo stadio storico a uno stadio mitico», la definizione è ancora di Baudrillard, è il cruccio della mia scrittura attuale. Ne ho scritto in Transito all’ombra, libro che riconsidera la mia storia personale dentro il quadro più ampio della storia collettiva. Ora, però, la mia scrittura tenta di trasformare la necessità di ricostruzione storica in racconto immaginifico. Per entrare nuovamente in quella che Rilke definisce «la mitica miniera delle anime» (der Seelen wunderliches Bergwerk) occorre considerare il mondo nella sua caduta e riscoprire le «arterie nella sua oscurità» (als Adern durch sein Dunkel). Mi permetto di riportare un mio inedito recente, forse il modo migliore per riassumere quanto finora esposto:

Mentre la pioggerellina sorda

«In pochi anni un lago», disse l’uomo.
Il fiato in nuvole di vapore,
mentre il faggio, che ne accompagnava gli argini,
radicava dentro una pianura
alluvionale. Lo raggiunse
un ticchettio, una voce, un raggio
grigio e vecchio di quarant’anni.
Nel duemilaqualcosa calcolarono
nel duemilaqualcosa arcipelaghi,
corolle alpine e sopra cembri
e alghe dai cembri.
Torbiere, schizzi fossili,
riflessi sul thread dell’acqua e della luce.
L’uomo pregò il dio dell’acqua e della luce
ma il lago non era più lì. C’erano lappole
e faggiole cristallizzate nelle fauci del cinghiale
e nel sangue. Mentre una pioggerellina
sorda attutiva la preghiera, dentro,
sempre più simili a barricate, i primi
tre acri d’informazione.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Ne ho parlato anche in altre occasioni: il poeta che mi trasmette solidità (almeno così interpreto la «permanenza» evocata da Dylan) e, allo stesso tempo, apre vertigini di senso che danno i brividi, è Wallace Stevens. Lo rileggo per i motivi appena esposti, perché la stabilità («il mero essere») si abbina costantemente ad aperture inedite: «The leaves cry… One holds off and merely hears the cry. / It is a busy cry, concerning someone else. / And though one says that one is part of everything, // There is a conflict, there is a resistance involved; / And being part is an exertion that declines: / One feels the life of that which gives life as it is». Avverto sempre in Stevens una spinta a una nuova percezione e, infine, alla trasformazione. Allo stesso tempo, la sua poesia mi dà la consapevolezza di appartenere a un mondo unico e banale, anzi unico proprio per la sua banalità, il che implica un’accettazione dello stesso che definirei sacrale, di un’umiltà sconcertante: «The leaves cry…», «until, at last, the cry concerns no one at all», eppure continua a riguardare tutti.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Per me il poeta è sempre un sovversivo o non è. Non si tratta di comportamento o posa ma, appunto, di “energia verbale”, utilizzo “trasformativo” dello strumento linguistico. Trasformazione che investe ogni referenza, compreso il soggetto che scrive. Basti pensare a poeti che certo non ebbero una vita “movimentata”, ma non per questo meno inquieta: «E quando vicino gli passo, / al legno che trema e che canta, mi sento / mutato d’un tratto / nel sonoro strumento: / in corde metalliche tese / cambiata ogni fibra, / il corpo, percorso da brividi, / in fascio di nervi che vibra» (Camillo Sbarbaro).

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Tengo molto a un testo contenuto in Transito all’ombra. Mi è sempre piaciuto lo scarto tra il titolo altisonante e il contenuto “umile” e quotidiano. Già in questo credo risieda la vera necessità della poesia, nel suo tentativo di cambiare il contesto, anche di pochissimo, aprendolo alla relazione. Meglio, però, far parlare i versi:

Aspettavo la storia di un quadro millenario

Vedevo lo spettro nell’immagine
lenta, che rallentava gradualmente;
per un istante le figure si muovono appena:
case sullo sfondo, in un parco
bambini e famiglie, madri in maggioranza,
compiono le loro azioni.
In un pomeriggio di aprile –
dentro il quadro mia figlia e mia moglie
nel loro angolo, sedute sulla ghiaia.
Aspetto ancora un po’ prima di entrare,
ho il tempo di sperare che qualcuno
colga da un altro spiraglio il quadro,
che il tempo senza tempo si ricordi
in molti modi, senza nostalgia,
senza la mia stessa speranza,
nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato,
nella compassione lontana
di chi non ne sa parlare.

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Zest Letteratura Sostenibile: Intervista a Gianluca D’Andrea – Sulla Poesia

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Gianluca D’Andrea (Foto di Dino Ignani)

Si è tentato più volte anche da queste pagine di fornire una definizione di Poesia, qual è la sua?

Dare una definizione di poesia mi è impossibile. Per provare a rispondere, partirei piuttosto dall’opposto di una definizione, da uno sconfinamento. In un’intervista di qualche mese fa provavo a riflettere sulla consistenza di “traccia” del segno poetico e sull’irrimediabile arbitrarietà che ne caratterizza il limite più evidente. Ecco, ora aggiungerei che il rischio di arbitrarietà è il giusto contrappeso di una forza d’animazione del reale che la poesia rende attiva attraverso la parola, la sua disposizione nel mondo. Lo sconfinamento, cui facevo riferimento, penso faccia i conti con un esubero di senso che la poesia a volte contiene e, altre volte, trasforma in un più scabro lasciare spazio: al reale, al mondo, all’altro. Secondo un adagio, che estrapolo da un verso di Wallace Stevens, «la sua mera selvaggia presenza anima il mondo che abita», ecco la poesia anima il mondo del linguaggio (quello che “abita”, appunto), di un linguaggio che sta, però, al margine del mondo, non nell’appariscenza della comunicazione informativa, bensì in quell’intercapedine tra il rumore e il silenzio, sempre sul bordo del fallimento. In un recente saggio, uscito per Sellerio lo scorso aprile, Ben Lerner scrive: «La poesia è sempre la testimonianza di un fallimento», io non credo che essa sia sempre una tale testimonianza, però ritengo cha abbia il compito di comprendere l’evenienza del fallimento, se così non fosse, non risponderebbe a un altro dei suoi compiti, forse il principale, quello della veridicità e della sua, appunto, fallibilità.

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L’arte come Avvenimento – Alla scoperta di Giotto: Intervista al Professor Roberto Filippetti (di Enrico Marcucci)

filippetti

Roberto Filippetti

L’arte come Avvenimento

Alla scoperta di Giotto attraverso la voce e lo sguardo del Professor Roberto Filippetti

a cura di Enrico Marcucci

La mattina dello scorso venerdì 17 aprile, i ragazzi della lista universitaria “Obiettivo studenti” dell’Ateneo di Macerata, hanno invitato all’Antica Biblioteca di Piaggia dell’Università, situata all’interno della facoltà di Giurisprudenza, uno dei maggiori specialisti, se non il più esperto, di Giotto e dei più grandi capolavori dei maestri della tradizione artistica italiana, Roberto Filippetti, per accompagnare i numerosi presenti in aula in un per-corso intitolato “Giotto e i giotteschi marchigiani”.

Avvinti e incuriositi dalle sue incredibili capacità comunicative, abbiamo deciso di incontrarlo al termine dell’evento, convinti che ce ne saremmo andati ancora più ricchi e rinnovati da questo nostro incontro; ed è stato proprio così. Di seguito riportiamo alcuni quesiti ai quali il professor Filippetti ha gentilmente voluto rispondere prima di recarsi a Corridonia dove ha spiegato in serata la sua mostra digitale delle principali opere caravaggesche.


EM: Professor Filippetti. Prima di tutto la ringraziamo per aver accettato di rispondere ad alcuni brevi quesiti e per aprirci ogni volta lo sguardo sui capolavori della tradizione artistica italiana con le sue preziose ed avvincenti decifrazioni. Ci tolga una curiosità, quando e come è sorta la sua attività di critico e studioso dell’arte e, in particolare, da cosa è nato il suo interesse per i capolavori di Giotto?

RF: Direi che la forte attrazione che nutro per l’arte è germogliata in me proprio nei primi mesi d’insegnamento, nel lontano autunno 1977. Avevo appena compiuto ventiquattro anni e l’Istituto superiore in cui insegnavo, a Padova, si affacciava sulla piazza da cui partiva via Giotto, e in soli cinque minuti a piedi portava dritti ne La Cappella Scrovegni, affrescata da questo grande maestro.

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Cappella Scrovegni a Padova

Essendo marchigiano, nato a Fano, e avendo svolto i miei studi in Lettere ad Urbino, avevo già avuto modo di frequentare le opere di Raffaello, Piero della Francesca, del Lotto, di cui il mio professore tra l’altro, Pietro Zampetti, era fra i maggiori specialisti. Giotto era stato comunque lontano dai miei interessi giovanili. In quanto professore di Letteratura Italiana, ero più che altro innamorato di Ungaretti e Leopardi, piuttosto che di Michelangelo, Caravaggio, del Beato Angelico o degli altri di cui poi mi sono appassionato in seguito. Ricordo ancora come fosse ieri quel mio primo anno di insegnamento. Fu anno difficile per l’Italia intera. Un anno violento. Fu l’anno dell’assassinio di Aldo Moro per mano delle “BR”. Io stesso mi trovavo ad insegnare a classi in cui vi erano aderenti ad “Autonomia Operaia”, alle stesse “Brigate Rosse” o ad altri movimenti estremisti dell’epoca. Eppure ho bene a mente che fu proprio in quell’anno, trovandomi a portare frequentemente in visita i miei alunni alla Cappella Scrovegni, che mi resi conto di quanto fascino e stupore generasse negli occhi lucidi dei miei alunni la comunicazione dei capolavori di Giotto, di questo grande pittore con il quale nel frattempo avevo avuto modo di familiarizzare. Spesso e volentieri mi trovavo a parlare oltre che ai miei alunni anche ad altre comitive di visitatori provenienti da tante altre parti d’Italia che incuriositi si univano a noi. Era per me motivo di grande soddisfazione vedere tanta gente avvinta e profondamente colpita dalla profondità espressiva di Giotto e dal mio modo di ridonarlo dal centro dell’opera. La scuola in cui al tempo insegnavo era un Istituto di Ragioneria, e dovendo preparare le classi per gite scolastiche o quant’altro, ho iniziato prima con la presentazione di Giotto, poi con quella di altri pittori imprescindibili. Per almeno un ventennio, dal ’77 al ‘97 circa, l’approfondimento e la comunicazione dell’arte fu per me soltanto una forte passione, sebbene notassi come sempre più spesso mi capitava di entrare in Cappella Scrovegni seguito da venti persone per poi uscirne con quaranta esterrefatte che mi tempestavano di domande e curiosità. In molti si aggregavano ed altrettanti venivano a domandarmi in quale università insegnassi: ”alle superiori!”- rispondevo lusingato. Con il passare degli anni un continuo numero di persone, comitive di amici prima e poi gente qualsiasi, iniziarono a chiedermi di accompagnarli in Cappella. Ricordo ancora che nel gennaio del 1998 arrivarono a Padova tre autobus da Ascoli Piceno. Fu perciò un avvenimento spontaneo far arrivare Giotto a quanti, attratti dall’arte, ancora non avevano avuto modo di guardare più da vicino le sue eccellenze.

 

EM: Quando è sorto invece il desiderio di farne una vera e propria mostra itinerante?

RF: Nell’anno Duemila, l’anno dell’ultimo Giubileo, ebbi l’idea di far ricostruire le opere del Giotto presenti in Cappella Scrovegni in scala “uno a due”, grazie al finanziamento del Vicesindaco di Venezia, e della Banca di Credito Cooperativo che ha pagato il catalogo e la stampa del volume. L’anno successivo, nel Duemilauno, questa mostra da me progettata, è stata esposta al meraviglioso evento interculturale del Meeting di Rimini. Devo dire che quest’invito mi ha in un certo senso cambiato la vita. Quell’anno infatti mi comunicarono che la mia mostra era stata la prima al Meeting sia per presenze ottenute che per vendita dei cataloghi. Si rese subito chiaro che per questa via Giotto era arrivato in un punto da cui sarebbe presto ripartito per spingersi molto, come direbbe Montale, più in là. Da quell’anno in poi infatti feci tra i diciassette e i diciotto allestimenti con questa mostra alta cinque metri. In poco tempo decisi allora di riprodurla in versione un po’ ridotta, in scala “uno a quattro”, con tutte le immagini ad alta definizione, fotografate dopo i restauri del 2001-2002. La mostra raggiunse davvero gli antipodi del Pianeta. Dal Sud America a Taiwan, dal Parlamento Europeo a Gerusalemme, dalle grandi città ai piccoli borghi d’Italia. Ogni volta mi trovo personalmente a preparare le persone che al mio posto si troveranno a fare da guide. Spesso ci ritroviamo insieme a discutere e approfondire per settimane; in alcuni casi addirittura mesi. Uno degli ultimi allestimenti lo abbiamo fatto in un paese di ventottomila abitanti circa ed ha ricevuto quattromila presenze. Circa settecentomila persone in tutto il mondo hanno potuto godere di questa bellezza lungo questi ultimi quindici anni. Essendo le mostre itineranti solitamente composte da pannelli, non era necessaria la mia presenza. Spesso e volentieri bastavano le guide da me preparate. In questi casi l’interlocutore si trovava ogni volta di fronte all’integrale ricostruzione delle quattro pareti della Cappella. Presto però, sulla sua scia ne nacquero altre sulla Basilica superiore di Assisi, sui capolavori di Caravaggio e una quarta su Van Gogh nel 2010. In alcuni casi come dicevo poc’anzi, è la mostra ad andare “sola”, senza di me.

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Assisi, prospettiva navata centrale della Basilica Superiore

In altri invece, sono io ad andare senza la mostra, servendomi unicamente di un proiettore e del mio computer personale. Con l’aiuto di esperti e ricercatori delle più avanzate tecnologie di resa fotografica sono riuscito ad acquisire le immagini direttamente dalle opere attraverso la più alta definizione di zoom attualmente esistente al mondo; una definizione che rende in maniera nitida e dettagliata le tre dimensioni effettive dell’opera. Oltre alla riproduzione attraverso questa tecnica che riflette gli stessi soggetti delle mostre itineranti precedentemente elencate, sono riuscito a realizzarne ulteriori sui maggiori capolavori presenti a Ravenna, su quelli del Beato Angelico, su tutti i più grandi capolavori di Duccio di Boninsegna, di Ambrogio Lorenzetti, di Raffaello ne La Stanza della Segnatura, e di molti altri ancora.

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Stanza della Segnatura

Dopo aver minuziosamente acquisito le immagini, le abbiamo digitalizzate e con questa tecnica di zoom appositamente studiata, stiamo portando questa meraviglia dove il Mistero ci chiama.

EM: Guardando ancora a Giotto. E’ in Cappella Scrovegni a Padova che possiamo osservare un esempio di prospettiva rovesciata, ad esempio nel lunettone dell’arco trionfale, dove è il Creatore a mirare all’uomo con lo sguardo, mentre fino ad allora era più facile trovarsi di fronte al contrario. Potrebbe parlarci meglio degli usi specifici che fa Giotto di questa tecnica e, se presenti, quali le sue innovazioni a riguardo?

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Particolare dell’arco trionfale presente in Cappella Scrovegni a Padova

RF: Bene. Giotto vede la Roma davvero “romana”, per così dire, quella di settecento anni fa, e non la Roma rinascimentale e barocca che vediamo noi oggi. Giotto vede a Roma ciò che noi vediamo ai giorni nostri a Pompei o ad Ercolano grazie agli scavi; vede cioè come veniva utilizzata la prospettiva nei mosaici e soprattutto negli affreschi, o a fresco o a encausto, come voleva la tradizione antica. E mira ad agevolare al massimo l’immedesimazione dell’interlocutore, mira a facilitare al massimo l’interesse, inter-esse appunto (essere al centro, partecipare), di colui che entra in questi templi intramontabili: nella Basilica di Assisi, o nelle cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce a Firenze o nella Cappella degli Scrovegni, ma anche in S.Francesco a Rimini, in Santa Chiara a Napoli, e potrei continuare… con altri monumenti affrescati da Giotto.

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Cappella Bardi in Santa Croce a Firenze

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Chiesa di Santa Chiara a Napoli. Prospettiva della navata centrale

In questi luoghi Giotto, strutturalmente francescano, è riuscito a curare al massimo grado l’immedesimazione. Si è accorto che è più facile entrare in un edificio dipinto in tre dimensioni – non è certo un caso se oggi esiste questo tipo di cinema, come ad esempio Avatar -, che non nella piatta pittura bidimensionale bizantina, molto affascinante ed efficace ad educarci alla trasfigurazione. La pittura da Giotto in poi iniziò a preoccuparsi della raffigurazione, cioè di dire la realtà nel modo più mimetico possibile ed anche più capace di lanciarci verso l’oltre, verso la trascendenza. Questo è il modo comune che tutti gli artisti conoscono di concepire la prospettiva, denominato “occidentale”, cominciato allora da Giotto, perfezionato da Brunelleschi e da Masaccio e definito in modo impeccabile da Piero della Francesca centocinquanta anni dopo.

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Bozzetto raffigurante linee guida e punti di fuga delle tre dimensioni della prospettiva “accidentale”

Questo geniale pittore ad esempio, e ciò è un episodio meno noto ai più, in Cappella Scrovegni, nelle due finestre ai lati dell’arco trionfale, non ha dipinto semplicemente i due famosi coretti in prospettiva con i due lampadari, ma ha dipinto anche quattro loggette aggettanti che incorniciano da una parte l’angelo annunciante e dall’altra la Madonna annunciata, raffigurandoli visti da una prospettiva rovesciata, quella che allora era la prospettiva tipica dell’arte bizantina. Chi oggi ha modo di andare in Russia, può vedere uno dei maggiori capolavori di Andrej Rublev, La Trinità, dipinto in prospettiva rovesciata appunto.

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Coretto sx

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Coretto dx

 

 

 

 

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Prospetto frontale arco trionfale con rispettivi coretti sx e dx

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Andrej Rublev, Trinità. Chiaro esempio di prospettiva rovesciata

C’è un bellissimo libro di Pavel Florenskij intitolato proprio La prospettiva rovesciata e altri scritti sull’arte. Le icone russe ancora oggi sono considerate dei sacramentali come lo sono per noi l’acquasanta o la cenere del “Mercoledì delle ceneri”. Attraverso l’arte irrompe il Mistero, si insinua l’al di là nell’al di qua.

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Visione dei troni celesti in Assisi. L’altare di fronte al quale sta Francesco genuflesso è dipinto in prospettiva rovesciata

Il rischio della prospettiva usata in occidente rispetto a quella russa delle icone, è quello di procedere verso l’uomo ad un’unica dimensione, come se egli fosse proteso in una tensione drammatica che non è mai in grado di arrivare pienamente a raggiungere l’ideale. Invece al nostro ad-tendere corrisponde il Suo ad-venire: l’irruzione del Mistero eterno che s’incarna nel tempo e nello spazio. Proprio come nella prospettiva russa, dove troviamo questa passività (l’uomo viene incontrato da Dio) da cui inizia la nostra attività, l’incontro di due dinamiche – attendere e avvenire – che si corrispondono. Si parla di Avvento, avvenimento appunto.

EM: Data l’influenza di Giotto nel Rinascimento e nei pittori contemporanei, da Van Gogh a Salvador Dalì, quale crede che siano le peculiarità che fanno sì che Giotto sia stato così tanto a lungo singolarmente considerato e ammirato?

RF: C’è da premettere che accanto a questa sua modernità, che potrebbe anche considerarsi un difetto, tenendo presente che l’arte moderna comincerà di lì a poco a giocare “a chi è più moderno” approdando in pochi secoli agli effimeri trascorsi degli sperimentalismi, delle avanguardie e delle neoavanguardie. Invece Giotto è stato capace di resa della realtà, e non parlo di realismo, non amo affatto gli –ismi, quanto piuttosto di resa mimetica della realtà. Letteralmente Giotto è capace di far emergere la realtà fisicamente descritta e insieme attraversata in prospettiva metafisica. Egli è stato inoltre capace di dare luce ai moti dell’animo, di dare forma e colore a sentimenti o espressioni come l’ira, l’angoscia, l’attesa, il turbamento o il corrugarsi della fronte. Addirittura un volto dipinto di giallo come nel dettaglio presente ad Assisi di Pietro di Bernardone colpito improvvisamente da un attacco di itterizia, o per un “travaso di bile” come si diceva all’epoca, nel momento in cui suo figlio Francesco si spogliò di tutte le sue vesti pubblicamente.

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Pietro di Bernardone particolare (a sx)

A quei tempi era viva nel popolo l’ idea dei “temperamenti”, che cioè i vari mescolamenti di liquidi all’interno del nostro corpo andassero ad influire sui nostri comportamenti e sulle nostre emozioni, motivo per cui se Caio aveva un comportamento passionale era perché il suo cuore pompava più sangue della norma; se Tizio era malinconico era perché aveva la bile scura. Melancolia vuol dire propriamente “bile nera”. Per questa eccezionale intersezione di talenti molteplici, tra allegorie bibliche e credenze popolari, Giotto per trecento anni è stato al centro dell’attenzione, capace di arrivare direttamente alla mente e al cuore dell’interlocutore ed essere eletto emblema di riferimento per le generazioni a venire. Così è stato per lo meno fino a quando non è approdato in scena un altro genio indiscusso dell’arte mondiale che è Caravaggio. Da qui in su ci saranno tutti i caravaggeschi del Seicento e non ci si potrà più non misurare con la sconfinata sensibilità creativa di un uomo che dipinge così come Caravaggio. Ecco, questo mi sembra particolarmente interessante. Mi pare tipico del genio. Genio non vuol dire appena un’eccezionalità, una alchemica combinazione di molecole nel “DNA” di un individuo, ma più precisamente l’espressione della voce e del sentimento di un popolo intero. Il genio allora è colui in grado, nel momento storico a cui è stato assegnato, di comunicare il cuore di un popolo e il suo ripartire. Perciò un artista, Giotto, all’altezza del Giubileo del Trecento, all’altezza di Dante o di Giovanni Pisano, l’altro, Caravaggio, all’altezza del celebre Concilio di Trento e del Giubileo del Seicento, agli albori di un mondo che riparte dopo la duplice vittoria sull’eresia luterana e calvinista da una parte e del fondamentalismo islamico dall’altra. Due periodi tanto simili, Trecento e Seicento, al nostro attuale Duemilaquindici.

EM: Secondo lei da dove scaturisce il genio? E’ forse più una questione di talento o di esercizio? Cosa rende un artista davvero geniale tanto da essere efficace espressione di un popolo intero?

RF: Non vi è dubbio che debba esservi un talento in origine, talento nel senso esplicito della parabola dei talenti. Se si ha un talento sarebbe un peccato, una miseria non spenderlo; sarebbe una terribile omissione privarsene o non coltivarlo. Credo allora ci sia un talento che si imbatte per caso, ma caso è la parola che di più ci avvicina a miracolo, diceva Giancarlo Cesana al Meeting di Rimini molti anni or sono. Caso è qualcosa che “cade”, ad-cade davanti a me e che io non posso fare a meno di cogliere al volo. Meglio: qualcosa che ob-cade: occasione. In greco si chiama kairos cioè “tempo favorevole” che viene dall’esterno. Caso è la risposta desiderata ad una domanda magari inconsapevole, ma che accade imprescindibilmente, come a Giotto è accaduto di incontrare Cimabue e a Cimabue di comprendere e dare fiducia al talento del giovanissimo Giotto. Cimabue aveva un temperamento da “numero uno” e quest’ultimo, come scrive Dante nell’undicesimo canto del Purgatorio, lo supera, e a noi non ce ne dispiace. Dunque per poterci trovare di fronte ad una personalità geniale dobbiamo trovarci di fronte ad un talento coltivato, educato; sebbene ciò ancora non basti. Il terzo passaggio è un talento naturale che si imbatte in una precisa circostanza storica, che di solito si presenta come momento di svolta epocale, di rinnovamento e anche di confusione se volgiamo, tale da far si che quell’uomo lì, l’artista o il genio, quello vero, sia capace di tracciare indelebilmente le sinopie della realtà del suo tempo. Un esempio: non vi è dubbio che Benigni sia un talento del teatro, come non vi è dubbio che non sia l’uomo più colto del mondo, poniamo il caso banale perché ha frequentato Ragioneria invece che il Liceo Classico, eppure ha capito Dante come in pochi riescono. Il padre di Benigni – uomo di umili condizioni – Dante lo recitava a memoria. Fino a pochi anni fa si era soliti imparare Dante a memoria in tante parti della Toscana, come Tasso fra i gondolieri di Venezia, come constatò Goethe duecento anni fa. Allora volgendo lo sguardo alla storia vediamo come ci sia una poeta nazionale veneto, Tasso, un poeta nazionale toscano, Dante, un poeta nazionale marchigiano, Leopardi, e via dicendo. Tutti uomini che genialmente hanno svelato carnalmente gli aspetti più umani dell’uomo attraverso le parole o attraverso il pennello, si da ricordare l’essenziale ad intere generazioni. Vedere un Papa come l’attuale inchinarsi commosso davanti ad un capolavoro di Caravaggio, di uno che fu a suo tempo pure assassino e malvivente, ci fa capire che ciò che conta non è essere coerenti, ma valorizzare il talento, la bellezza scaturita dal fatto che anche e forse in special modo uomini inquieti e tormentati, moralmente incoerenti con se stessi e con la società, sono stati capaci più d’altri di ridire in modo bello e nuovo il vero al mondo.

EM: Quale valore attribuisce alla tradizione e perché vale la pena fare ad essa costante ritorno?

RF: L’uomo medioevale è solito dipingere le Sette virtù, quattro virtù “cardinali” e tre “teologali”. La prudenza è sempre bifronte. Ha una faccia giovane davanti e una faccia anziana dietro. Così la raffigura Giotto in Basilica Inferiore ad Assisi e a Padova, così Giovanni di Balduccio Pisano nella tomba di San Pietro martire a Milano; in modo leggermente diverso Lorenzetti a Siena, dove la Prudenza sta ad indicare le tre fasi del tempo, presente passato e futuro. Si va davvero avanti (pro-gressus, pro, avanti e gressus, passo), si cammina davvero in avanti, solo se ricchi di una profonda tradizione, di ciò che c’era ieri. Questo ci salva, diciamo così, dal ritrovarci tra “la padella e la brace”. Ci evita la padella del tradizionalismo e la brace del progressismo. La “padella” di Epimeteo e la “brace” di Prometeo. Epi-meteo è colui che pensa indietro, Pro-meteo è colui che pensa in avanti. La schizofrenia che oppone nostalgia dell’età dell’oro ad utopia di un futuro radioso. Il mondo moderno in genere trasgredisce in forma utopistica e ammazza gli uomini concreti di oggi in nome dell’idolo di una futura umanità perfetta. Forti di un ricco passato, radicati, costanti, cioè consistenti per un ricco passato, possiamo davvero essere capaci di edificare un ricco futuro. Anche profit. Tutta la bellezza della natura, dell’enogastronomico e dell’arte nelle Marche e in Italia sono una grande risorsa per la nostra ripartenza nazionale. Non l’unica, di certo. Ma sicuramente almeno il settanta per cento del patrimonio dell’umanità presente Italia non ce lo possono togliere! Pensate a quanti “secoli” sono nascosti negli abissi dei fondali delle acque che circondano la nostra penisola.

EM: In quanto studioso di Letteratura Italiana, molteplici e di prezioso valore sono i suoi studi e le sue pubblicazioni. Ad esempio ricordiamo Ungaretti Homo viator, L’uomo spezzato e la domanda di assoluto oppure Leopardi e Manzoni. Il viaggio verso l’infinito; ancora, Il per-corso e i percorsi. Da metà dell’Ottocento al 2000, e molti altri ancora. Quando e come è sorta la sua passione per Giacomo Leopardi e cosa porta quotidianamente con sé di questo grande autore?

RF: Su Leopardi nel 1972 feci l’esame di maturità. Sei mesi dopo, nel dicembre del ‘72 mi resi conto che forse di Leopardi non avevo capito nulla. Frequentando ad Urbino un gruppo di ragazzi che seguivano un prete brianzolo che parlava ai loro cuori attraverso Leopardi, iniziai a capire che Leopardi era un’altra cosa, era molto di più per questa gente. Loro avevano visto in Leopardi qualcosa che io non ero riuscito a vedere fino ad allora. Oggi non smetto di ripetermi ogni giorno Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Un anno e mezzo fa mi sono fermato nell’abbazia di Sesto di Reghena e ho imparato a memoria l’Inno alla sua donna, che non sapevo ancora e me ne dolevo. Conosco a fondo Leopardi e me lo ridico ogni giorno. Leopardi mi aiuta a tenere… il bicchiere girato in su, ovvero a ricordarmi che sono “capace” dell’infinito. Consapevolezza drammatica al limite del tragico se non ci si imbatte in un’acqua che plachi la sete del proprio cuore e lo soddisfi a pieno. Manzoni, Ungaretti, Dante, Giotto o Caravaggio, ci dicono che quest’acqua c’è, esiste. La samaritana del Purgatorio dantesco, la ”femminetta samaritana” ci dice che quest’acqua che soddisfa fino in fondo esiste. Allora non possiamo non essere grati a Leopardi che ci dice di che pasta è fatto il nostro cuore e alla tradizione cristiana che ci porta quest’ipotesi di soddisfazione piena e totale.


Roberto Filippetti è nato a Fano nel 1953. Laureatosi in Lettere con il massimo dei voti e dichiarazione di Lode, insegna dal 1977 nelle Scuole superiori, dapprima a Padova e poi a Dolo (VE). Studioso d’arte e letteratura, ha pubblicato circa una ventina di libri, a partire dalla monografia Ungaretti homo viator (1983).

È fra gli estensori dei commenti alla Divina Commedia di Dante Alighieri, Rizzoli BUR, 2001.

Questi alcuni dei volumi, editi e/o distribuiti da Itaca (www.itacalibri.it): Pirandello narratore e poeta. Ragione e mistero (1997); Il per-corso e i percorsi (2002); L’Avvenimento secondo Giotto, catalogo della mostra itinerante sulla Cappella degli Scrovegni, di cui Filippetti è ideatore e curatore (la seconda edizione, del 2002, in cinque lingue, presenta tutte le riproduzioni degli affreschi di Giotto dopo i restauri); Il Vangelo secondo Giotto, concepito come racconto della Cappella degli Scrovegni ai ragazzi, (2002); Antonio di Padova (2002); Fiabe d’identità (2003); Caravaggio: l’urlo e la luce. Una storia in cinque stanze (2005); La bellezza salverà il mondo? (Marietti, 2007); Educare con le fiabe (2008); Leopardi e Manzoni: il viaggio verso l’infinito (2008); Van Gogh: un grande fuoco nel cuore (2008); Pietro mi ami tu? Lo sguardo di Gesù secondo Giotto (2009); L’io spezzato e la domanda di assoluto (2012); Francesco secondo Giotto (2013). E’ stato chiamato a tenere conferenze di arte e letteratura nelle università di Bologna, Venezia, Padova, Bergamo, Milano (Cattolica, Statale, Bocconi, Politecnico Bicocca), Pavia, Palermo, Bari, Trieste, Cagliari, Sassari, Torino, Modena, Firenze, Chieti, L’Aquila. E’ stato cooptato per Corsi di aggiornamento da IRRE Lombardia e Sicilia. Tantissime le conversazioni nelle Scuole di ogni ordine e grado in tutte le principali città italiane. Ha tenuto cicli di conversazioni in Israele (Gerusalemme e Betlemme), Austria (Innsbruck, Neumarkt), Svizzera (Lugano, Locarno, Tesserete, Ginevra, Neuchatel, Bellinzona, Ascona), Spagna (Barcellona), Paraguay (Asunciòn); a Lima, in Perù, ha tenuto lezioni magistrali presso la Universidad Peruana de Ciencias Aplicadas, presso l’Università Cattolica Sedes Sapientiae e presso il “Museo del Arte Italiano”.

Ha collaborato con la redazione culturale del TG2 della Rai ed è stato intervistato in una serie di servizi di TG2 Mizar (visitabili nel sito www.filippetti.eu), rispettivamente su Pietro da Rimini, Caravaggio, Giotto (Padova, Assisi e Firenze). L’ultimo è del 26 aprile 2014.

Dal 2007 al 2015 è stato chiamato a tenere la docenza di “Iconografia e iconologia cristiana” nel Master Universitario di 2° livello in “Architettura, Arti Sacre e Liturgia”, nel Corso di Alta Formazione e nel corso di Formazione e Aggiornamento in “Arte Sacra Cristiana e Conservazione del Patrimonio Ecclesiastico” istituiti presso l’Università Europea di Roma con il Patrocino della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti.

Ha ideato e curato quattro mostre didattiche itineranti in sinergia con Itaca e ne ha scritto i relativi cataloghi: alla ricostruzione in scala dei cicli affrescati da Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova (2002) e nella Basilica superiore di Assisi (2006), si sono aggiunte nel 2010 le mostre dedicate ai capolavori di Caravaggio e di Van Gogh (si veda www.itacaeventi.it).

Suoi volumi e cataloghi delle mostre sono ordinabili in qualunque libreria, online o direttamente visitando il sito web www.filippetti.eu/Home/home.html.

Per chi fosse interessato a mostre o incontri, è possibile inoltre contattare il Professor Filippetti all’indirizzo roberto@filippetti.eu.