Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto X) – di Andrea Ponso

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Giovanni Di Paolo, Canto X, miniatura del codice alla British Library, Londra (Fonte: Wikipedia)

di Andrea Ponso

Canto X

La simultaneità e l’immediatezza delle percezioni sono sottolineate fin da subito in questo canto: “… ma del salire / non m’accors’io, se non com’uom s’accorge, anzi ‘l primo pensier, del suo venire”. Ciò che così letteralmente accade è fuori dalla linearizzazione spazio-temporale e può essere ricostruito solo dopo – non potendo essere anticipato dalla mente: infatti è nel corpo e nei sensi che avviene questa anticipazione, questo sentire che solo a posteriori può trasformarsi in coscienza e pensiero, in scrittura e narrazione. Ancora una volta, quindi, quell’immediato che ci porterebbe a vedere il viaggio dantesco come il massimo dello “spirituale”, ci conduce invece all’immediatezza senza tempo del corpo e delle sue percezioni, dove si viene anticipati senza motivo e senza sapere, senza previsione e senza ricordo che non sia ricostruzione e mediazione: ed è così che, precisamente, agisce la grazia; ed è in questo modo che si è nella “materia” paradisiaca, “quella materia ond’io son fatto scriba”. Tanto addentro in questa materia che Dante non percepisce i “colori” ma solamente l’intensità dell’azione delle “anime” che sono nel cielo del Sole: “Quant’esser convenia da sé lucente / quel ch’era dentro al sol dov’io entra’mi, non per color, ma per lume parvente!”. Siamo sempre nella stessa dinamica ergo-emotiva che scavalca nella sua immediatezza la ricostruzione razionale e narrativa che verrà solo dopo – una mediazione, questa, che, tuttavia, è vera solo in quanto ci riporta all’immediato e ce lo fa esperire attraverso strategie testuali che, coerentemente, si muovono al di sopra e al di sotto della semplice visione razionale, come abbiamo mostrato nel canto precedente.
La “famiglia” dei beati di questo cielo, cioè dei sapienti, partecipa anch’essa di un’azione e di un movimento, più che di un insieme di concetti o di visioni intellettuali: essa, infatti, è coinvolta nella dinamica trinitaria, in quel motore di tutto che già all’inizio di questo canto ci veniva proposto (Guardando nel suo Figlio con l’Amore / che l’uno e l’altro etternalmente spira …”): “Tal era quivi la quarta famiglia / de l’alto Padre, che sempre la sazia, / mostrando come spira e come figlia”. Questo “mostrare”, ormai lo sappiamo bene, è sinestetico e partecipativo: i beati sono dentro a questa dinamica e ne godono, ne vedono lo “spirare”, il soffio e il respiro, il ritmo e il suo nascere e far nascere continuo: in poche parole, si scoprono creati e in relazione con esso, come lo è ogni creatura, anche se non ha la forza o l’umiltà di sentirlo. E sono dei “sapienti”, nel senso profondo del termine: sono finalmente capaci di gustare il sapore di questa azione creazionale che da sempre crea e tiene insieme ogni cosa. E Dante stesso vi si immerge misticamente, tanto da dimenticare la stessa Beatrice, la stessa guida teologica: “e sì tutto ‘l mio amore in lui si mise, / che Beatrice eclissò ne l’oblio”. Ma se Beatrice è anche immagine della teologia, questo “oblio” e questo “eclissarsi” di lei è in realtà la sua pienezza, il suo compimento – poiché la vera teologia è viva e piena proprio nel momento in cui sa dimenticare se stessa e le sue pretese per farsi esperienza viva e totale; e, infatti, “Non le dispiacque, ma sì se ne rise, / che lo splendor de li occhi suoi ridenti / mia mente unita in più cose divise”. E la “mente”, unita pericolosamente solo a Dio, felicemente e positivamente si “divide”, cioè torna a contemplare la vera totalità dell’azione divina, non fermandosi all’oggettivazione immobile di Dio: è un altro segno del movimento trinitario, che è tale solo in quanto mai si chiude in se stesso, ma rimane eternamente aperto alla relazione e alla creazione. Stare in Dio e dimenticare completamente la sua azione e creazione è una contraddizione in termini che non può avere luogo.
Il resto del canto, come spesso accade, altro non è che la didascalia di questa pratica d’ascolto e d’immedesimazione. I grandi spiriti che vengono visti da Dante con l’aiuto di Tommaso d’Aquino, altro non sono che punti ritmici dentro a questo movimento, partecipanti a questa danza e a questo canto. Ciò che il grande Tommaso richiama per nome, da Ugo di S. Vittore a Gregorio Magno, altro non è che musica e azione: note “non da ballo sciolte”. La Scolastica e tutta la riflessione logica del tempo è finalmente incarnata dentro al suo oggetto di ricerca e tutte le speculazioni teologiche si sciolgono in questa pratica in atto. Tommaso ne partecipa con gli altri, e così lo stesso Dante – ma il modello sembra ancora una volta essere quello mistagogico dove le parole esplicative vengono solo dopo il vissuto concreto di ciò che designano, come mediazioni che rimandano all’immediatezza di una teologia che è vita, preghiera e pratica. Quando Dante scrive, descrivendo l’impossibilità del dire ciò che vede e sta vivendo, “dal muto aspetti quindi le novelle”, ci sta forse indicando non l’ineffabile in assoluto, ma solo relativamente al linguaggio: il Mistero, infatti, è fare silenzio nel linguaggio, per uscire dal linguaggio, tramite il linguaggio, ed entrare nella pratica dell’azione e dei sensi, per iniziare finalmente ad essere quella “danza”.

IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – Per una auto-critica radicale: Elia scanna i profeti di Baal

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Gaspard Dughet, Il sacrificio di Elia sul Monte Carmelo contro i falsi profeti di Baal – Vita dei profeti Elia ed Eliseo (affresco delle navate della Basilica di Ss. Silvestro e Martino ai Monti, 1646-1651)

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – Per una auto-critica radicale: Elia scanna i profeti di Baal

C’è un luogo comune, frequentato e promosso anche all’interno della religione cristiana, che andrebbe sempre riletto e criticato: è quello del “distacco” e del “silenzio”, del “ritiro” dal mondo e dai contesti in cui si opera. E dove operiamo, in fondo, anche quando siamo ben dentro la nostra quotidianità di vita e di lavoro, di opera e di creazione, se non in un immenso testo narrativo con le sue regole, i suoi blocchi identitari e le sue coordinate spazio-temporali? Sono i nostri luoghi familiari, le nostre convinzioni, le nostre relazioni con gli altri e con il tessuto-textus che ci costituiscono in gran parte – un luogo domestico, certamente, ma che non può mai essere addomesticato fino in fondo e, soprattutto, non può esserne addomesticata l’alterità che accade, volenti o nolenti, al suo interno.
In una prospettiva biblica tutto questo viene ampiamente confermato: sono i contesti familiari e generazionali, feriali e di lavoro, i luoghi dove passa e abita insieme l’alterità divina incarnata. Non c’è nessuna “purezza” come distacco nel senso consueto e riduttivo del termine in questa presenza: essa, piuttosto, pur abitando fino in fondo la nostra consuetudine di vita, ne diventa, a volte anche con violenza, una istanza estremamente critica – fatta di un estremismo tanto forte, a volte, proprio nella difficoltà di essere percepito. Eppure, fin dal principio della creazione, noi troviamo che il maggior aiuto donato all’uomo è qualcosa o qualcuno che gli sta di fronte e contro come alterità: mi riferisco in particolare a Genesi 2, 18 che, letteralmente dall’ebraico, suonerebbe “non è bene che l’uomo sia solo: gli farò un aiuto contro” – ma già molte traduzioni cancellano questa alterità e questo paradosso dell’aiuto contro, in nome di una “similarità” che spesso ha causato false visioni di uguaglianza, del tutto diverse dalla vera relazione, proprio invocando la retorica dell’alterità.
Da questa giusta prospettiva biblica viene la forza e il travaglio di una trascendenza che agisce, se la si lascia agire e non la si imbavaglia con il moralismo e la finta bontà, anche dentro le consuetudini di tutti i giorni e, aggiungiamo noi, di tutti i testi e di tutte le opere. L’opera, in questo senso, sarebbe precisamente lo spazio in cui lasciare che l’alterità sia davvero un aiuto contro, e così la critica, sia essa interna al fare stesso della creazione estetica, sia essa esterna e proveniente da un altro. È interessante notare che anche una delle primissime definizioni di “allegoria” come metodo esegetico in transito dalla cultura greca pagana a quella dei padri della chiesa, va in questa direzione di comparsa dell’alterità dentro un contesto di opinione dato o già compreso:

«La definizione di allēgoría […] parte dalla forma verbale da cui […] proviene la parola allēgoría cioè: állo-agoreúō. Questo permette di accostare il verbo a un campo semantico che richiama un’assemblea, un luogo di adunanza, una piazza pubblica (agorá). C’è perciò, nella radice del termine, una nota spiccata di pubblicità da contrapporre a qualche altra cosa (állo) dai connotati completamente diversi […] In questa definizione, il verbo sēmaínō diventa necessariamente un indice puntato verso l’alterità. Cosicché l’espressione hétera dè sēmaínōn potrebbe essere tradotta “dando nascostamente il segnale dell’alterità”. Il significato ultimo dell’intera frase potrebbe allora essere reso così: Si chiama propriamente allēgoría un trópos che implica un segnale nascosto di alterità di senso, rispetto alle cose che va dicendo in piazza o pubblicamente» (G. I. Gargano, Il sapore dei Padri della chiesa nell’esegesi biblica. Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Cinisello 2009, p. 100).

In fondo, è quello che accade anche nello spazio operativo e pubblico del rito come messa in crisi continua di tutte le acquisizioni religiose e anche di fede: esso non consolida i segni e i dogmi se non attraverso una loro continua e vivificante destrutturazione il cui motore è, in fin dei conti, quello che la teologia chiama “riserva escatologica”, vale a dire quell’impossibilità di catturare in un significato, in un dogma o in un segno la pienezza del senso della rivelazione.
Una lettura troppo spiritualizzata delle dinamiche di fede rischia sempre di perdere la concretezza grumosa e a volte anche violenta di tale alterità che si dovrebbe lasciar parlare nell’opera e nella fede. Ci si rifugia in un silenzio che pare accettare ogni cosa senza giudicare; la famosa “sospensione del giudizio”, in questo senso, è un puro e impossibile idealismo, che non fa bene a nessuno, né in campo estetico né in quello della fede.
L’esempio più significativo, tra i molti che si potrebbero citare dalle Scritture, mi pare quello legato alla storia del profeta Elia e al suo udire quella “voce di silenzio sottile” che sarebbe il dire e la relazione con il Signore. Elia è la figura del profeta radicale, capace di contrapporsi a tutto e a tutti, creando tensioni e sangue, tanto da essere bandito dal regno d’Israele; è il profeta che sfida i finti profeti di Baal vincendo, e che poi li massacra in un mare di violenza e di sangue … eppure, come molti esegeti hanno notato, Elia è un personaggio tragicamente “avvolto dall’ironia di Dio” perché poi lui stesso si lascerà convertire dal silenzio. Dopo la lotta contro gli idoli di Baal che, nella sfida, rimangono muti, l’ironia paradossale di Dio spinge Elia, nel momento in cui è abbandonato e disperato, fuggiasco e senza terra, “sotto a un ginepro isolato”, soccorso da un corvo, disperato non solo per se stesso, ma anche per il suo popolo e le sue opere – “io non sono migliore” (1Re 19, 4) – , a comprendere proprio attraverso il silenzio, per certi aspetti simile alla non risposta degli idoli di Baal, il senso e Dio che parla e si manifesta: “qol demamàh daqqàh“.
Se proviamo ad analizzare questa frase nel testo ebraico, ci rendiamo conto che non è niente di “spirituale” e privo di attrito, e che il suo “rumore” ci è quasi impercettibile perché interrompe ogni nostra rappresentazione, anche la più buona, non solo quelle violente e impregnate di sangue del profeta. Le parole ebraiche dicono: “qol demamàh daqqàh“. Daqqàh, che di solito è tradotto con “sottile”, deriva dal verbo daqàq che significa ridurre in grumi, frantumare; inoltre, lo stesso termine sembra unire insieme demamàh e qol, la voce e il silenzio. In questo ironico e concretissimo paradosso l’opera di Elia e la sua stessa vita mutano profondamente.
Ma questa “voce di silenzio sottile” era forse da sempre presente – solo che, nel frastuono e nelle dispute, viene dimenticata. Certi silenzi ci sfuggono, anche per lo zelo della propria critica giusta; e certi idoli li idolatriamo troppo, anche se in negativo, contrapponendoci ad essi senza comprendere il frastuono della nostra battaglia. Ma è una battaglia che va comunque affrontata, a costo di rimanere soli con un corvo e il niente della propria vita, a costo del fallimento e dell’abbandono di tutti quelli che formano il tuo “popolo”. Non è forse anche la critica estetica, come ogni altra, sempre pericolosamente viva solo in questo limite? Forse Elia, dopo tutta la sua vicenda, tornerebbe a lottare contro le torme immense dei profeti di Baal, ma con un punto di vista diverso, con un’azione più dura e dolce insieme. Se la critica non è radicale e non tocca in maniera bruciante anche la voce da cui proviene, non è critica e non è vita. Ed è una critica che mi assumo totalmente, nel mio piccolo, perché ogni critica è sempre prima di tutto rivolta a se stessi, è quell’aiuto contro di Genesi. Ricordo sempre queste parole di Gregorio Magno:

«Oh, come è duro per me questo che dico, perché parlando così colpisco me stesso. La parola di Dio mi costringe a parlare. Non posso tacere e parlando ho una grande paura di ferirmi. Parlerò, affinché la parola di Dio risuoni anche contro di me per mezzo mio» (Homiliae in Ezechielem prophetam).

IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – Esegesi

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Henry Rosseau il Doganiere. Paesaggio con bovini e filatrice. Dett. 1893. Filadelfia Museum of Art

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – Esegesi

Nel vangelo di Giovanni troviamo un’espressione che, nell’originale greco, è davvero illuminante: “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio lo ha rivelato” (Gv 1, 18). Illuminante perché il termine tradotto con “rivelato” è exeghèsato, da cui deriva il nostro “esegesi”. Ma che senso assume questo termine per l’evangelista? In greco non significa solo “spiegare”, ma anche “incontrare”: è il segno di una relazione singolare e incarnata, che può coinvolgere totalmente; è anche qualcosa che “esce fuori”, che muove verso l’esterno per modificarlo. Inoltre, se è il Figlio che diventa l’esegesi del Padre, allora significa che essa è fatta non di significati ma di gesti, parole, di uno stile e di un insieme di significanti incarnati che non possono essere ridotti a concetti o a oggetti da osservare acriticamente, senza esserne letteralmente toccati, scossi, e almeno un poco rivoluzionati.
La regola dell’israelita giusto comprende 613 precetti: questa cifra è formata dall’insieme delle membra del corpo umano e dai giorni dell’anno. Questa simbologia sta ad indicare che il testo deve avere la forza di coinvolgere totalmente, anche se solo per alcuni picchi di tempo e di spazio, la vita del lettore: esso deve avere la possibilità di immergersi totalmente in esso, mutando con esso e in esso. Gregorio Magno direbbe Scriptura crescit cum legente – e viceversa, naturalmente.
Sicuramente si chiede “troppo” con questi esempi – sia che si tratti di Scritture sacre sia che ci si riferisca al testo letterario in genere – ma chi è innamorato dalla parola, non può non chiedere “tutto”, non può non essere “geloso” come il Dio biblico infiammato dall’amore, senza vergogna e senza accontentarsi della mediocrità che lascia indifferenti o, al massimo, ci tocca in maniera tangente, per poco, per lasciarci poi immutati, come se il testo fosse niente: un trastullo momentaneo, come prendere un gelato o godersi una canzonetta – con tanto di critica a chi non si lascia andare, a chi non riesce a concepire anche la poesia e la scrittura alla pari di altri divertimenti. Contro questa tendenza estemporanea – e a noi tristemente contemporanea – i Padri ci vengono in aiuto affinché l’assimilazione diventi davvero tale, spesso attraverso l’esempio della ruminatio e della digestione come assimilazione e convergere della vita e del testo. Nelle parole di Agostino, ad esempio, mi pare di poter leggere un’attualità sconcertante, se riferita in particolare alla tendenza da fast-food di tanti eventi poetici:

«Vedo la vostra avidità. Siete sempre lì ad ascoltare. […] Che dico? Ruminate quel che mangiate. Così sarete animali puri, capaci di partecipare alla mensa divina. E inoltre preoccupatevi del frutto che si deve vedere nelle vostre opere. Digerisce male chi ascolta bene e non opera bene […] Tutti sanno che dovremo rendere conto del pane che riceviamo e che distribuiamo» (Agostino, Enarrationes in psalmos, 103, I, 19).

Quel “tutto” allora, non è una pretesa impossibile: è invece il bisogno che il testo deve saper ascoltare, costruire e condividere, di un momento, o di una serie di momenti, in cui tutto è accolto nelle proprie viscere, assimilato, fatto a pezzi e diluito attraverso gli acidi gastrici e “critici”, e messo in discussione. Pier Cesare Bori parla, a questo riguardo, di “impulso sincronico”, di “simultanea ispirazione”, di “cospirazione del testo e del lettore” (P. C. Bori, L’interpretazione infinita, Il Mulino, Bologna 1987); mentre Jean Leclercq dice che “per gli antichi meditare è leggere un testo e imparalo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica” (J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni, Firenze 1965).
Questa è davvero “critica” – del testo, dell’autore e del critico stesso. In questo tutto sarebbe bello poter dire, con Girolamo, che “una volta tese le vele”, non sappiamo mai con sicurezza “verso quali lidi approderemo”.
In una società dominata dall’immagine, la produzione testuale e la fruizione dei testi medesimi rischia di cadere non nell’ascolto ma nel guardare: un’immagine ben fatta, una concatenazione narrativa e descrittiva riuscita, ecc. Ma, in questo, si dimentica propriamente l’ascolto radicale di ciò che nel testo accade, e la critica si riduce a sua volta alla stessa valutazione descrittiva e rappresentativa, senza mai toccare il cuore vivo da cui ogni iota del testo prende vita. La prima rivelazione, come sappiamo, è di tipo acustico e orale: ciò significa che essa non si ferma alla superficie dei significati e delle immagini, ma è generata dal continuo del ritmo e dei significanti. Qual è, allora, la voce che si ex-pone e che chiama dentro e oltre il testo? Riusciamo a raggiungerla e a percepirla “criticamente”? Quanti dei testi che ci capita di leggere e magari anche di commentare possiedono davvero la forza di questa voce, quanti hanno la capacità di farsi scatola di risonanza di questo ritmo?
Se la critica e l’esegesi di un testo sono anch’esse un atto poetico, allora, per essere fedeli al loro mandato, devono cercare in un testo quell’originario suono, oltre la rappresentazione ma dentro la loro forma e il loro stile come modalità dell’incarnazione di questa nascita. Stile e forma, come abbiamo visto all’inizio, non sono comunque riducibili a quello che di solito la critica letteraria ufficiale intende con questi termini: essi sono un continuo che lo scritto incarna ma non può contenere totalmente, poiché ne mostra anche l’origine extratestuale, orale, fisiologica, gestuale, sinestetica, esistenziale, contestuale, ecc. Proprio come accade nel rito.
L’incontro, credo, avviene a questa altezza e a questa profondità, dove c’è la possibilità di un co-nascere insieme al testo in una co-spirazione ampia e vibrante; altrimenti non è un vero incontro ma una sua simulazione rappresentativa. Scrive a tale proposito Cassiano:

«Il vivo ardore dell’anima del monaco lo rende simile a un cervo spirituale, che pascola sul monte dei profeti e degli apostoli, cioè si sazia dei loro più sublimi e misteriosi insegnamenti. Vivificato da questo nutrimento di cui continuamente si pasce, si compenetra a tal punto di tutti i sentimenti espressi nei salmi che ormai non li recita non come fosse stato il profeta a comporli, ma come se ne fosse egli stesso l’autore […] Le Scritture si svelano a noi più chiaramente e ci aprono il loro cuore e quasi il loro midollo, quando la nostra esperienza, non solo ci permette di conoscerle, ma fa si che preveniamo addirittura la conoscenza, e il senso delle parole non ci viene regalato da una qualche spiegazione, ma dalla viva esperienza che noi stessi ne abbiamo fatta. Non sono cose che apprendiamo per sentito dire, ma di cui palpiamo, per così dire, la realtà, per averne colto il senso profondo. Non abbiamo l’impressione di affidarle alla memoria, ma di partorirle dal profondo del cuore, come sentimenti naturali che fanno parte del nostro stesso essere. Non è la lettura che ce ne fa cogliere il senso, ma l’esperienza acquisita» (Cassiano, Conferenze, X, II).

E ci vuole pazienza e impazienza insieme per discernere questo originario della e nella voce testuale, per farsi “trafiggere il cuore” (At 2, 37). Molto spesso questo grembo originario che vive nel presente in atto dell’opera semplicemente non c’è. O, meglio, c’è ma non è percepito nemmeno dall’autore; oppure l’autore non ne è interessato o non è capace di condividerlo. La distrazione, il di-vertimento, non sono naturalmente censurabili e criticabili – ma sono altra cosa. Anche nei testi della tradizione “comica”, infatti, vive questa forza e questa spinta, forse più che in quelli che si pretendono “seri” e “impegnati”. Il fatto è, credo, che, come dice il monaco benedettino Semeraro, “riposare stanca”: rimanere in quella posizione sabbatica del riposo intenso dentro la creazione, in un atteggiamento di contemplazione che è anche azione (contempl-azione) costa grande fatica perché presuppone un’azione di lode e di ringraziamento, di benedizione … un atteggiamento che, quindi, lascia essere le cose senza il timbro autoriale che vorremmo sempre appiccicare loro addosso. Il “divertimento” che molti reclamano per la fruizione poetica e letteraria rischia spesso di diventare una sorta di devozionale e soggettiva ricreazione a cui imprimere la propria minuscola firma egotica; esso diventa la fuga dalla non proprietà dell’opera e della stessa creazione – un di-vergere e un allontanarsi da quella terribile e dolcissima consapevolezza che non siamo noi gli autori di niente; un fuggire dalle “trappole” fondamentali che ci porterebbero positivamente nell’intreccio testuale catturandoci, finalmente! Scrive Narsai di Nisibe, padre della tradizione siro-orientale: “con le parabole ci ha dato la caccia come fa il cacciatore con un uccello: ci ha fatto entrare all’interno delle parole del suo vangelo … Egli tese al nostro cuore, che ama errare, una trappola di parabole” (Narsai di Nisibe, Cinq homélies, p. 63). Quanto vorrei essere molte volte così catturato.