“Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)”. Gianluca D’Andrea e le “coordinate di una mappa sempre in divenire” (Intervista completa sull’EstroVerso)

Foto di Dino Ignani

Avanzare, “camminare scalzi”, passo dopo passo realizzare “il contatto pieno con ciò in cui ci troviamo”. Ritornare, e all’arrivo “una nuova attesa ad attenderci”. Desiderare, “un altrove”. Reinventare, fuori “dal commercio degli uomini”, fuori “dal dominio e dalla clausura”, dentro “il mistero dell’ambivalenza dell’essere”, dentro “il limite del nostro abitare”, dentro “l’atmosfera mutevole del profondo”, dentro questo “tempo inesistente”, (forse) ultima possibilità di “agganciarsi a qualcosa di concreto”, dentro “alle stagioni in cerca d’altro mare”. Suggestioni raccolte leggendo il volume “Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)” di Gianluca D’Andrea (nella foto di Dino Ignani), pubblicato da Industria&Letteratura, nella collana “Poetica”, a cura di Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto (in copertina illustrazione di Francesco Balsamo; all’interno disegni di Vito M. Bonito). Un libro complesso, prodigo di riferimenti, di interrogativi sottesi all’unico “vero accordo col mondo”, pensato in quaranta “scintille” che ci fanno (ri)percorrere un vertiginoso vortice, acceso da “un costante dialogo con una vasta galassia di autori”, scrive Fabio Pusterla nella postfazione.

La scrittura è forse “l’ultima possibilità di agganciarsi a qualcosa di concreto?”

No, non credo. La scrittura per come la conosciamo è a un punto di svolta epocale. Non è solo la preponderanza dell’immagine legata alla rete a far slittare i significati, ma l’apertura di un nuovo “reale” derivante dalla connettività associata.
La scrittura, in questo contesto rinnovato, funge da monito o promemoria, ci ricorda che un cammino esiste, che il linguaggio è la proiezione di una soglia e, di conseguenza, della scelta. Il progresso dell’umanità da due secoli a oggi sta riducendo il margine stesso di questa scelta, per tale motivo ritengo che alla scrittura spetti sempre più un ruolo secondario, per niente concreto (se con il termine intendiamo qualcosa di chiaramente individuabile), anzi totalmente affabulatorio. D’altronde, la citazione interna alla tua domanda è all’inizio di Nella spirale, dove ci si riferisce al tempo inesistente e circolare del mito, non a quello lineare e “progressivo” della storia. Eppure, non è dato sapere se questo vivere sul bordo del significato, della scrittura e specialmente della poesia, non possa essere un modo per resistere a una scomparsa e immaginare un nuovo inizio. Non è la scrittura ma è un’epoca che si dissolve a far intravedere una nuova individuazione, un nuovo mondo. La scrittura si limita a sentire il transito. Più avanti nel libro, saranno le parole di Stephen Watts a fissarlo: «Sono le cose ai margini / remoti che stanno al cuore del nostro / mondo, e ci staranno sempre, quando / ogni altra cosa sarà andata distrutta».

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Dall’inizio – Ultima puntata sull’EstroVerso

Sull’EstroVerso l’ultima puntata della rubrica che ho curato per 2 anni e 8 mesi con Gabriel Del Sarto. È stato un viaggio lungo ma prezioso, così bello che non può finire qui. Ad maiora! Dall’inizio, sempre. Di seguito i nostri ringraziamenti e l’arrivederci ai lettori.

Il più grande abbraccio a Grazia Calanna perché non esiste ospitalità più ospitale della sua.


Attrazione, ancora

Ma dimmi, chi sono, questi girovaghi, questi anche un po’
più fuggitivi di noi…

Rilke

Giunti alla fine del viaggio, ci auguriamo che la riflessione aperta dalla rubrica “Dall’inizio” abbia stimolato e possa continuare a farlo, l’urgenza di riconciliazione tra parola della poesia e mondo. Se con “mondo” s’intende lo spazio liminare di cui il testo necessita per creare nuovi spiragli di senso, allora in gioco sarà la capacità ri-creativa sempre fondante della poesia. Per questo, speriamo che tra “apertura” e “chiusura”, inevitabili nello sforzo autointerpretativo degli autori coinvolti, sia trapelata l’urgenza di trasmissione della parola, la sua tradizione: la “consegna” originaria, cioè, della scelta, con tutto il carico di ambiguità che comporta fino al rischio estremo del tradimento del senso.
Mantenere alto il livello di attenzione e custodia, allora, perché questa consegna continui a essere sempre “dall’inizio” e perché, come ci suggerisce Carmen Gallo al termine del suo intervento, «occorre ridere o piangere, […] restare in movimento».
Ringraziamo tutti gli autori (Vito BonitoGiovanna FreneMaria Grazia CalandroneFederico ItalianoFilippo DavoliAndrea De AlbertiVincenzo FrungilloLaura PugnoLuciano NeriMarilena RendaItalo TestaFrancesca SerragnoliTiziana Cera RoscoMarco GiovenaleFrancesca MatteoniGilda PolicastroAndrea IngleseMassimo GezziAzzurra D’AgostinoTommaso Di DioDavide BrulloLaura LiberaleRenata MorresiMatteo PellitiMarco SimonelliLorenzo MariDavide Castiglione, Bernardo De LucaMaria Borio, Carmen Gallo) che hanno partecipato alla rassegna e nel dire arrivederci ai lettori li ripresentiamo in ordine di apparizione, come viatico per quei “nuovi inizi” da loro raccontati che invitano a un ritorno, a «non fermarsi […] (non per sempre)».

Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto

“Nella spirale” su La Sicilia

Nella spirale

su La Sicilia del 31 ottobre, a cura di Grazia Calanna per la sua rubrica Ridenti e fuggitivi

Intervista sull’EstroVerso a cura di Marco Sonzogni e Rossella Pretto

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Foto di Dino Ignani

Oggi per Chiedimi ancora, a cura di Marco Sonzogni e Rossella Pretto, un’intervista in cui parlo di poesia, immaginazione, sovversione. Si ringrazia l’EstroVerso (Grazia Calanna) per l’ospitalità.


La poesia come demone moraleggiante e condominio solitario: Gianluca D’Andrea e Alessandro Canzian

La poesia è urgenza di comprendere il mondo e restituirlo in immagini, vite vissute che si innestino tra le pagine.
Se Gianluca D’Andrea scandaglia il mondo attraverso strumenti sociologico-filosofici che rimettono poi in gioco la capacità immaginifica della parola, Alessandro Canzian cerca di rendere la distanza volontaria e inconsapevole tra le persone partendo da un vissuto intimo per allargare lo sguardo a una più vasta porzione di realtà.
Camminano dunque entrambi in quel solco che da individuale si fa condiviso.
Buona lettura!

Rossella Pretto e Marco Sonzogni

L’ultimo lavoro di Gianluca D’Andrea è Forme del tempo – (Letture 2016-2018) (Arcipelago Itaca 2019). In Postille (tempi, luoghi e modi del contatto) (L’arcolaio 2017) ha raccolto i commenti a singoli testi di poesia moderna e contemporanea, elaborati dal 2015 al 2017 in vari siti letterari. L’ultimo libro di Alessandro Canzian è Il colore dell’acqua (Samuele Editore, 2016). Condominio S.I.M. uscirà per i tipi di Stampa 2009.

CINQUE DOMANDE AI POETI: GIANLUCA D’ANDREA (1976)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Mi piace partire, per provare a rispondere a questa tua prima domanda, da un’espressione di Andrea Zanzotto, rintracciabile all’inizio di Fosfeni. Si tratta di «coagulo sacro» che, nel testo d’appartenenza (Come ultime cene), indica la transustanziazione, meglio la «materializzazione» e, quindi, l’umiliazione di qualcosa di inviolabile, separato. Ecco, per me, quel «segno» che «s’innerva» è la poesia, che arriva sempre dal basso e nel tentativo di agganciarsi al reale, se ne trova irrimediabilmente separata. S’intuisce un’urgenza, che veramente scorre nelle «mie vene» e poi defluisce nella mia scrittura: il tentativo costante di rimediare a un’assenza di fondo (anche il mottetto di Montale da te citato parla un po’ di questo). Più di cosa o chi, allora, a essere decisivo è come affrontare la relazione presenza/assenza, la scissione cardine, direi, del gesto poetico. Nel mio caso, ne sono più consapevole adesso che ho superato i quarant’anni, a diventare decisiva è una spinta agonistica. Ho proprio difficoltà ad accettare il reale per ‘quel che è’, a considerare «la trasparenza del male» (per citare un titolo celebre di Jean Baudrillard) e restare indifferente. Fu Magrelli il primo a intuire nella mia scrittura un demone moraleggiante e, quindi, una visione austera del mondo, che ne rifiuta la «perdita di realtà» (ancora Baudrillard), pur tenendo in considerazione il suo versante oscuro.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Riallacciandomi alla risposta precedente e ridefinendone il finale: non vedo oscurità, perché siamo già dentro quello «spilling dark» evocata dal grande poeta scozzese Robin Robertson. Insomma un’ombra ci è già caduta addosso, quel “rivolgimento” (Zukehr) di heideggeriana memoria, che è anche “esser-volto-verso” una costante caduta. Da quando, cioè, «la metafisica è realizzata nella fisica, adagiata nella tecno-scienza» (come diceva già nel 1988 Lyotard), ogni visuale è stravolta, schermata e, quindi, esposta nella «trasparenza totale dell’informazione» (Baudrillard). Siamo in un’oscurità totale, appunto, per eccesso di “illuminazione”, non è certo una novità. Per non sprofondare completamente nell’interfaccia che annulla definitivamente l’Altro, avverto la necessità di una fuoriuscita. A essere centrale nella mia riflessione è ancora il “come”: a mio avviso, la vera urgenza in poesia risiede nel rimettere in gioco la capacità immaginifica della parola, per ri-creare ininterrottamente il reale. Il «passaggio dallo stadio storico a uno stadio mitico», la definizione è ancora di Baudrillard, è il cruccio della mia scrittura attuale. Ne ho scritto in Transito all’ombra, libro che riconsidera la mia storia personale dentro il quadro più ampio della storia collettiva. Ora, però, la mia scrittura tenta di trasformare la necessità di ricostruzione storica in racconto immaginifico. Per entrare nuovamente in quella che Rilke definisce «la mitica miniera delle anime» (der Seelen wunderliches Bergwerk) occorre considerare il mondo nella sua caduta e riscoprire le «arterie nella sua oscurità» (als Adern durch sein Dunkel). Mi permetto di riportare un mio inedito recente, forse il modo migliore per riassumere quanto finora esposto:

Mentre la pioggerellina sorda

«In pochi anni un lago», disse l’uomo.
Il fiato in nuvole di vapore,
mentre il faggio, che ne accompagnava gli argini,
radicava dentro una pianura
alluvionale. Lo raggiunse
un ticchettio, una voce, un raggio
grigio e vecchio di quarant’anni.
Nel duemilaqualcosa calcolarono
nel duemilaqualcosa arcipelaghi,
corolle alpine e sopra cembri
e alghe dai cembri.
Torbiere, schizzi fossili,
riflessi sul thread dell’acqua e della luce.
L’uomo pregò il dio dell’acqua e della luce
ma il lago non era più lì. C’erano lappole
e faggiole cristallizzate nelle fauci del cinghiale
e nel sangue. Mentre una pioggerellina
sorda attutiva la preghiera, dentro,
sempre più simili a barricate, i primi
tre acri d’informazione.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Ne ho parlato anche in altre occasioni: il poeta che mi trasmette solidità (almeno così interpreto la «permanenza» evocata da Dylan) e, allo stesso tempo, apre vertigini di senso che danno i brividi, è Wallace Stevens. Lo rileggo per i motivi appena esposti, perché la stabilità («il mero essere») si abbina costantemente ad aperture inedite: «The leaves cry… One holds off and merely hears the cry. / It is a busy cry, concerning someone else. / And though one says that one is part of everything, // There is a conflict, there is a resistance involved; / And being part is an exertion that declines: / One feels the life of that which gives life as it is». Avverto sempre in Stevens una spinta a una nuova percezione e, infine, alla trasformazione. Allo stesso tempo, la sua poesia mi dà la consapevolezza di appartenere a un mondo unico e banale, anzi unico proprio per la sua banalità, il che implica un’accettazione dello stesso che definirei sacrale, di un’umiltà sconcertante: «The leaves cry…», «until, at last, the cry concerns no one at all», eppure continua a riguardare tutti.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Per me il poeta è sempre un sovversivo o non è. Non si tratta di comportamento o posa ma, appunto, di “energia verbale”, utilizzo “trasformativo” dello strumento linguistico. Trasformazione che investe ogni referenza, compreso il soggetto che scrive. Basti pensare a poeti che certo non ebbero una vita “movimentata”, ma non per questo meno inquieta: «E quando vicino gli passo, / al legno che trema e che canta, mi sento / mutato d’un tratto / nel sonoro strumento: / in corde metalliche tese / cambiata ogni fibra, / il corpo, percorso da brividi, / in fascio di nervi che vibra» (Camillo Sbarbaro).

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Tengo molto a un testo contenuto in Transito all’ombra. Mi è sempre piaciuto lo scarto tra il titolo altisonante e il contenuto “umile” e quotidiano. Già in questo credo risieda la vera necessità della poesia, nel suo tentativo di cambiare il contesto, anche di pochissimo, aprendolo alla relazione. Meglio, però, far parlare i versi:

Aspettavo la storia di un quadro millenario

Vedevo lo spettro nell’immagine
lenta, che rallentava gradualmente;
per un istante le figure si muovono appena:
case sullo sfondo, in un parco
bambini e famiglie, madri in maggioranza,
compiono le loro azioni.
In un pomeriggio di aprile –
dentro il quadro mia figlia e mia moglie
nel loro angolo, sedute sulla ghiaia.
Aspetto ancora un po’ prima di entrare,
ho il tempo di sperare che qualcuno
colga da un altro spiraglio il quadro,
che il tempo senza tempo si ricordi
in molti modi, senza nostalgia,
senza la mia stessa speranza,
nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato,
nella compassione lontana
di chi non ne sa parlare.

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L’EstroVerso 2018 – L’ora presente

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È uscito l’ultimo numero dell’EstroVerso: L’ora presente (Anno XII, 2018) che ospita alcuni miei inediti. Ringraziando Grazia Calanna ne propongo alcuni insieme al link per lo sfogliabile dell’intera rivista.

H. B. – uno studio: È quindi il giardino?

Ai due angoli raggiungono le schiere
e un dito indica e indica e indica –
cosa fosse la strada triplicata, le fette
di corridoi e i cerchi paralleli
dei tre nell’unico mondo
del pannello centrale. Eppure la memoria
ritorna alle ante chiuse, alla bolla equorea,
alla gelida sfera, alla divisione grigia
e alla faccia buffa in alto,
al microbo che crea un mondo
piccolo e pronto a scompaginarsi.
Si squinterna nel brillio appariscente
dell’interno, la polpa sviscerata,
il nucleo striato di colori palpitanti…
eppure il tono freddo, l’antartide
dei primi passi è tutto un’euforia
erotica, un’orgia di posizioni
in cui fermenta il mondo.
La melma gelida indicata,
indicata, indicata
dal furbetto opposto alla figura buffa,
il creatore doppio,
l’artefice di un riflesso che guarda
per strati e rompe
la prospettiva prima di sfumare
risucchiato nel punto di fuga.

Postilla:

Già da tempo occorreva dirlo: «la finzione è l’ultima speranza» (F. Fortini), inutile fingere di non saperlo.
Da giorni studio quei pannelli sullo schermo del computer, eppure non basta (ho comprato un libro che deve ancora arrivare). Alcuni dicono di paesaggi allegorici e simbologie ricostruibili, io penso che tutto questo velare e svelare sia secondario. Molto meglio reinterpretare, cogliere il timore sotteso alla nuova scoperta, anche se parlo di un mondo circoscritto, questo artefice poteva spalancare l’immagine. Artefice, un fingitore. In questa speranza di finzione si allarga un mondo, con buona pace del sistema che tenta di rilevare con chiarezza i dati d’esperienza. A crearsi è un’altra macchina che declina questa stessa chiarezza, ne fa un velo superficiale, ma la forma decade, appunto, e dalle chele scintillanti si muove oscillando una nuova forza che provoca una spaccatura. Non si tratta di un senso superficiale, di un equilibrio, dell’epifania dell’apparenza (o, peggio, di un’apparizione), ma di una ulteriore connessione tra elementi d’immaginazione. Dell’artefice al margine dell’opera. Ahimè, chi crea non è semplicemente immerso; si ritaglia uno spazio che è anche un privilegio, una topologia fantasmatica, una proiezione. Racconta o suggerisce il suo modo di agire, indica e indica e indica perché riflette e fa riflettere sull’artificio.

*

Landscapes IV

Sikka è Vertigo.
Ripetizione di un meccanismo
in corso da sempre.
L’eterno ritorno è un gioco figo
come mollare una puzzetta
mentre sei costretto a dormire
nella merda d’uomo.
La merda dell’uomo è nobile,
poteva andare peggio, come stare
in un vortice al buio con attorno
un blob di fantasmi in carne e ossa
pronti a mangiarti e dopo violentarti.
Tutto questo capogiro occorre immaginarlo
per sempre, da non avere neanche il tempo
di pensare che le tue lacrime sono il risultato
del risucchio gravitazionale
quando l’alchimia della mente
sgorga dal rubinetto dell’ipofisi
e per ridurre lo stress
occorrerebbe pensare alla vita
come un meccanismo di riempimento oceanico.

*

P. B. incontra A. H. – Il trionfo della morte

Come se la tenerezza del desiderio
potesse svincolarsi dal rapporto con la morte.
In questo saggio esporremo la tesi
del quadro senza cornice, meglio
dell’indifferenza tra quadro e cornice –
io sto qui, sono Gianluca e osservo.
Dicevamo: nel nome del padre il desiderio
della madre – qui parte la grossa falce
al centro e l’anima/animo dirupa –
lo sguardo si bea nascosto e s’inquieta
quando chi guarda è protagonista;
l’isteria è nel suo cubo psicologico.
Ma tornando al quadro, il piano rappresentativo
inscena la danza del coincidente:
lo scheletro è già nella carne,
potresti negarlo?
e allora rendiamolo evidente
manipolando il corpo e ribaltandolo
sul piano di una psiche anulare (direbbe un amico).
Marsia esposto a decantare ci guarda
fisso dal culo di Lucifero
dal cuore di una pulsione decorticata
dalla fine imbalsamata per monitorare
perennemente la propria mortificazione –
salvezza per la propria vanità.
Io muoio, trionfante finalmente
assente al mio richiamo,
depotenziato nel flusso e nella danza,
nell’orma titillante, negli angoli remoti.

 

L’origine di Domenico Cipriano su “La Sicilia” (11/03/2018)

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“Le Postille postume sulla poesia che muta”

Grazia Calanna parla di “Postille” nella rubrica “Ridenti e fuggitivi” del quotidiano “La Sicilia”

Postille su La Sicilia

Letture dallo stretto (18/08/2017)

poeti estate

Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea

Letture dallo stretto
Feltrinelli point, Messina, Via Ghibellina, 32

(18/08/2017, ore 18:00)

Grazia Calanna, Luigi Carotenuto, Diego Conticello, Gianluca D’Andrea, Vincenzo Galvagno, Antonio Lanza, Daniela Pericone, Pietro Russo, Caterina Scopelliti.

Ciclo di letture all’interno della rassegna messinese per la poesia

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