
Paradiso, Canto VI. Giustiniano, anime e Romeo (Fonte: Bodleian Library – University of Oxford ©)
di Andrea Ponso
CANTO VI
Ed ecco l’epico, e l’imperiale; la retorica altissima e ampia fino ai limiti sopportabili di un canto che, per intero, è dilatato all’inverosimile da un unico discorso, quello dell’imperatore Giustiniano e che, tra le altre cose, sembra quasi dimenticare le domande di Dante cadute in questo dal canto precedente. È il solo canto in cui il discorso unico del personaggio copre per intero il silenzio e la letizia con le sue indicazioni storiche, con la sua visione provvidenziale, con i colpi attualissimi sulle lotte interne e sulle guerre esterne; un canto per certi aspetti aberrante, anche per le accuse rivolte al popolo ebraico e la giustificazione della distruzione di Gerusalemme.
Eppure, in fondo, le dimensioni di tutto questo contrastano e stridono in “questa picciola stella” che è il cielo di Mercurio, il più piccolo fra i pianeti nella geografia teologica dantesca. E, certo, esso è il ricettacolo “de’ buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda”: buoni, sicuramente, secondo Dante, ma i cui “disiri”, “quando […] poggian quivi, / sí disvïando, pur convien che i raggi / del vero amore in sú poggin men vivi”. Ecco allora che la “correzione” di tale ricerca della fama, seppure non vista negativamente, viene ridimensionata non attraverso la negazione delle azioni e dei significati raccontati e incarnati nella storia, ma attraverso la forma, potremmo dire, e lo spazio geografico-simbolico. Questa “spaziatura” redime ma non cancella, abbraccia propriamente a volo d’uccello – l’aquila imperiale come “uccello di Dio” – liberando anche i grandi spiriti dai loro nomi di “Cesari” e dalle inevitabili dispute e contraddizioni del potere, trasformandoli in umili “baiuli” (facchini, insomma, o semplici portatori); un abbraccio che, in qualche modo, stringe e quasi soffoca, se guardiamo all’ampiezza e alla maestà storica che contiene, ma che in questo modo libera: “Cesare fui e son Iustinïano”.
E così, e solo così, da una prospettiva concreta e spaziale, e teologica ad un tempo,
Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote.
L’armonia e le “diverse voci” sono tali in quanto elidono parte della durezza e della spigolosità insita nella volontà dei nomi che, pur necessari nella prospettiva politica dantesca, coprono l’uomo nella sua finitezza: questo recupero del nome, al di là delle sue insegne politiche, è il recupero di qualcosa che esce puro e pieno d’amore dalla bocca materna, è il primo nome, a cui si torna, nell’armonia paradisiaca, addolciti. Non possiamo non ricordare, a tale riguardo, il cambiamento del nome dell’Apostolo: da Saulo, nome regale, a Paolo, nome che dice il “poco” e la finitezza, dove passa davvero la storia e la sua redenzione.
Storia e redenzione attraversano le nervature e la carne nei punti meno evidenti, anche quando si tratta dell’impero, soprattutto quando si tratta dell’impero e del potere: ed è in quel restringimento, in quelle vene, che si dilata la grazia e che l’universale visione del paradiso ci conduce in un movimento di diastole e sistole continuo; un unico discorso, di un unico personaggio, davvero a volo d’aquila, altissimo, ci porta nella strettura infinita dove lavora segretamente la grazia. Dante dilata i suoi sensi, affina il suo stile in grande stile, per arrivare a questo, per stare e diventare nel paradiso con un paradosso, come al solito, che non è fatto per nascondere il mistero ma per abitarlo davvero.
L’intero movimento epico si conclude dunque, coerentemente, con la presentazione di una figura quasi sconosciuta ai grandi regesti della storia come quel “Romeo”, Romieu de Villeneuve, che può, nella visione appena accennata, stare alla stessa altezza e nella stessa armonia di un imperatore. La sua figura coerente, “umile e peregrina”, di uomo colpito dalla storia e apparentemente nell’abbandono di quel peregrinare “povero e vetusto”, viene salvata e abbracciata proprio nella sua umiltà, nel suo essere paulos, come l’Apostolo:
e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe.
Ed è sempre l’unica voce dell’imperatore a lodare e a ricordare questo oscuro personaggio della storia in cui lo stesso Dante si può identificare, e anche noi lettori: in quel quasi niente che è sempre e in ogni momento il tutto kairologico e messianico dove la storia umana e quella della salvezza s’incontrano e s’illuminano di lampo in lampo, di presente in presente.