Poeti italiani (13) – Spazio inediti: Gabriel Del Sarto

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Gabriel Del Sarto

di Gianluca D’Andrea

Poeti italiani (13) – Spazio inediti: Gabriel Del Sarto

Il tempo e la vita

Quando di nuovo abbiamo parlato di quel giorno
l’acqua mista al sangue – ti ascoltavo
e immaginavo il ferro e l’ossigeno
nelle emoglobine, il destino cambiare – e il dolore
che niente ha cancellato, ho saputo
come la natura si concentri nel tempo
di ciascuno: un’assoluta
ed armonica compossibilità di volti
e sofferenza.
…………   (Esiste quasi
da sempre anche l’Anticlinale,
…………………………è una piega
delle rocce, una struttura
dove gli strati sono convessi
verso l’alto e puoi trovare, dicono,
dal basso a salire, l’acqua
che satura tutti i pori, gli idrocarburi liquidi, il gas
che si accumula all’apice della piega. Ancora
azioni e parole. La contraddizione
che governa ogni cosa.)

Ogni tanto ancora un cenno. Fa parte
di noi, di questa storia ricordata.
Può bastare un articolo o un post
in rete letto a voce alta dentro
le stanze che abitiamo, il silenzio
dopo, uno sguardo al posto di ogni cosa,
leggere contrazioni, siamo noi,
è la vita, quando la prima morte
è quella della parola che manca.

(da Il grande innocente, Aragno, Torino, 2017)


È subito in scena un dialogo in questo testo d’esordio dell’ultima raccolta di Gabriel Del Sarto. In tutto Il grande innocente – ho avuto modo di parlarne in maniera più diffusa qui – il pathos del linguaggio si scontra con la «compossibilità» di relazioni non più mediate da alcuna sovrastruttura, per cui l’Io (il soggetto, il “primo rispetto ai concetti”, nell’interpretazione deleuziana di Benveniste), linguisticamente si pone come intermediario del rapporto e, quindi, strategicamente “dentro” un senso. Tale posizione del soggetto non è più marginale ma interrelata e in “ascolto”: «ti ascoltavo / e immaginavo».
Sin da questo punto testuale s’intravede una rinnovata fiducia, perché l’ascolto dell’altro (reale, cioè dentro il piano dove scorre il linguaggio, in un avvallamento) “cambia” il destino – particolare – dell’interlocutore, suscitando un percorso immaginifico. Ognuno è qualcosa (aliquid, il banale che non poggia su alcuna infrastruttura che non sia il linguaggio) con un senso. La forzatura che intromette questa diversa dimensione del tempo testuale è strategica, dicevamo, in funzione di una poetica, non so quanto consapevole, dell’accostamento. Accostamento che, però, non colma il “mancamento” del senso, ma si lascia trasportare dalla necessità del racconto, senza affabulare, senza fingere una mitologia che blocchi nuovamente la parola alla sola ricezione passiva, ma, al contrario, riattivi costantemente «la vita, quando la prima morte / è quella della parola che manca».


Tema della voce

Ecco il mondo, e questa è una città, questa una bambola
che soffre il mal di gola. Potremmo insieme
offrirle della gommose alla menta, che poi
finirai tu, sul divano o nel letto
di quella camera d’albergo davanti alla stazione.

Può bastare il cammino che abbiamo percorso
fra le calli di Venezia dopo Natale
per osservare i volti, alcuni acuti, e capirne in silenzio
le pedagogie assolute. Le parli
e la bambola smette di tossire. Ecco un’altra
città, un mondo già diverso, proprio quando scende
la sera.
———-– Ricordo il dolore di portarti sulle spalle
e poi te sotto al letto con un libro.

Possiamo farlo: l’esercizio
di un’estensione della luna, a due voci,
su un mondo scollato, un puzzle
senza ribellione – e poi tornare
al nostro abbraccio, al calore della spalla
solo tua, a te, sotto il letto, con un libro,
che disegni quello che siamo
nella tua mente contorni
di alberi, rami di queste parole.

(Inedito)


Il dialogo, con l’acquisizione della prima persona plurale, il noi che emerge come una neo-formazione dal testo pubblicato, manifesta un accostamento più profondo in questo inedito.
Intanto, la voce narrante è uguale a quella che nel precedente componimento stava in ascolto (l’Io è ancora «primo, perché fa iniziare la parola», direbbe Deleuze). Questa stessa voce presenta adesso il suo racconto a un essere (nessuna entità, ma «l’essere come verbo “essere”» seguendo Nancy) evidentemente più “piccolo”, in fase di crescita (i referenti sono evidenti e non nascondono, semmai velano di pudore: «bambola», «gommose alla menta», ecc.). Quella che viene raccontata è la storia di «un mondo già diverso», un mondo in trasformazione nel suo essere la stessa trasformazione, senza trascendenze, ma nell’evidenza che si può essere «insieme» in un’offerta di sé che arricchisce il soggetto che si dis-pone all’altro.
Sul piano del linguaggio, però, questa commistione (la «compossibilità» del testo precedente “concretata” in questo inedito) ha bisogno – ancora necessità, e, quindi, evento puro – di uno slittamento di senso (nel caso specifico del testo, il soggetto delega al suo oggetto, il “tu” rimpicciolito – quasi forma desiderante del soggetto stesso – la scoperta di un nuovo linguaggio). Per questo dall’«abbraccio» l’essere si distanzia, per ritrovare quella “vacanza” di senso, appunto, che permette di disegnare “nuovamente” «quello che siamo»: «contorni / di alberi, rami di queste parole», cioè un’altra lingua rinnovata nella continuità che, incessantemente, si sviluppa.

(Ottobre 2017)


Gabriel Del Sarto (1972) ha pubblicato le raccolte poetiche I viali (2003), Sul vuoto (2011, Premio Apuane 2015 e finalista Premio Carducci 2013), Il grande innocente (2017) ed è presente in diverse antologie fra cui L’opera comune (1999) e Nuovissima poesia italiana (2004). È autore di saggi sull’uso della narrazione nelle pratiche educative, fra cui Raccontare storie (con Federico Batini, 2007) e In un inizio di mattina (2012). Sue poesie sono tradotte in portoghese e spagnolo.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (3): FIGLI E NIPOTI DEL BENESSERE?

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Mario Martinelli, La danza dell’ombra (particolare, 1996) ©. (Fonte: mariomartinelli.it)

di Gianluca D’Andrea

La mia generazione è figlia di quel benessere, quella parentesi della storia che va dal secondo dopoguerra alla fine del XX secolo. 1976: l’anno dell’eutanasia, anno del drago – MAO -, Cina coinvolta nell’occidentalizzazione del mondo. Non esiste “occaso”, andiamo fuori dai nomi, esiste un segnale di distruzione – “distruzione della distruzione”, ancora Heidegger – un complotto, una “complicità” negli stessi interessi tra le nazioni del complotto. Dall’autodifesa al modello, lo “stile” di vita – quale “stile” di vita? quale “nuova” illusione? Questo ci ha lasciato la “guerra fredda”.
La mia generazione è passata da quest’infanzia “fredda” – ma poi gli anni ’90, dopo il disgelo si ri-produce un conflitto “caldo” nel seno dell’Europa, anzi a causa del “dis-gelo”. La Jugoslavia doveva frantumarsi, un piccolo dinosauro comunista, spartiacque necessario, meglio se sbriciolato, perché facilmente indirizzabile all’occaso. L’ideologia della caduta, occidente è l’occasione perduta dall’uomo per dimenticare la dimensione dialettica del superamento dell’Altro; la speranza dissolta di un adattamento irraggiungibile al contesto, alla terra – allora, costante ri-creazione nel mondo.
La mia generazione non si è mai svegliata dal sogno estivo di una pace che dirottava ogni conflitto fuori dall’occaso. L’occasione dell’abbraccio globale sotto la bandiera dell’occaso ha aperto il desiderio di un sonno artificiale, perpetuamente pacifico, poco prima di un “nuovo inizio” che prende avvio dalla “distruzione” del “vecchio” uomo (ancora Nietzsche, Kierkegaard, Heidegger).
Non ci sarà l’abbraccio di un contatto auspicato da alcuni – la carezza di Nancy – ma l’affermazione di un “dispositivo” della dimenticanza (Foucault, Deleuze, Agamben), una metafisica esponenziale, cioè un oblio nella presenza.
«La vita è una cosa pubblica» (J. Conrad, Con gli occhi dell’occidente), se è così – ed è così – occorre esercitarsi a comporre una strategia del nascondimento. Forse siamo impegnati in uno sdoppiamento – e anche più. Più identità che difendono un’intimità sempre più a rischio. L’identità pubblica esaspera la sua esposizione e lascia in ombra la zona, il nucleo intimo che gode nel suo essere nascosto, l’angolo riservato eppure ricco di finestre da cui affacciarsi a piacimento. Ma sappiamo che il tipo di voyerismo che ci illude dell’autonomia nella scelta, ricade nel controllo di chi costruisce comandi, in un gioco molteplice di scatole cinesi. Si è già consolidata una gerarchia di potere – non un panopticon, ma un intreccio di occhi: la visione è così ampia eppure ristretta al controllo e alla manipolazione dei dati, o meglio degli accessi, degli “affacci”. Capito questo, occorre fingere e manipolare la propria finzione. Dimensione frustrante ma unica per mantenere autocontrollo in un contesto di controllo rivestito di angoscia, attivata nello spaccio della sicurezza. L’applicazione della sicurezza.

Una nota su “Storia d’amore” di Daniele Mencarelli, Lietocolle, 2015

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Daniele Mencarelli

Storia d’amore (nota di Gianluca D’Andrea)

Il dispositivo ha sempre una funzione strategica concreta e si iscrive sempre in una relazione di potere.

Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo? (nottetempo, 2006)

mencarelli_storia_damoreA non funzionare nell’ultimo libro di Mencarelli è la cornice del racconto. La sensazione di finzione che scaturisce dall’apparato didascalico smorza il “sentimento” della realtà, la carica emotiva che aveva segnato le operazioni precedenti di Bambino Gesù e Figlio.
Probabilmente, la volontà unificante del racconto – la scansione per date ricorrenti che si sviluppano nel corso di due anni, con un’appendice più vicina al nostro presente – imprime una complessità “letteraria” che la poesia di Mencarelli non riesce a gestire fino in fondo. L’idea di “storia semplice” (su cui si basa la riflessione in quarta di copertina firmata da Gian Mario Villata) tradisce invece la “non ingenuità” del lavoro di Storia d’amore.
È una “storia” in cui l’elaborazione della storia collettiva non emerge, non si scava nell’archivio del passato e non si raggiunge l’attuale – per dirla in termini foucauldiani. È come se la microstoria del racconto chiedesse un privilegio che invece la storia collettiva non può concedere, visto il rischio che ogni operazione corre adagiandosi sul concetto di privilegio. “Il bordo di tempo che circonda il nostro presente” (Deleuze) chiede alterità non riconoscimento. Emerge una dimensione gerarchica – e qui la formazione “religiosa” di Mencarelli mostra il suo versante rischioso, al limite della chiusura nell’acquisito -, una volontà di giustezza che inibisce il lettore: «qui a forza si è romantici, / il bosco alle spalle senza fine / racconta l’altra parte della storia/ quella di corpi sciolti dai vestiti / pezzo dopo pezzo come una vittoria/ prima che tutto senza freno avvenga» (p. 24). Ecco, concetti come “nudità” e “libertà” emergono dal loro sfondo “romantico” e non dicono nulla su un presente che vede nella “nuda vita” il sintomo della scomparsa del “vecchio uomo”, così come nel ribaltamento della libertà individuale in arbitrarietà delle scelte di consumo, una prospettiva di “reale” mutamento.
Una corrente nostalgica percorre il libro, una reazione al passato perduto che si trasforma in perdizione del presente, cioè stasi: «io invece vengo bene al naturale / nella posa di drogato più che pazzo / che ama zero il suo sorriso,/ l’ultimo scatto lo vuoi serio / io e te guancia contro guancia / per portarci domani qualcosa del presente» (p.31).
Purtroppo anche sul piano stilistico si avverte una caduta. L’andamento a scatti, il nervosismo “dolorosissimo” di Figlio lascia spazio a un percorso piano, a un racconto monotono e senza accensioni. Il ritmo è livellato e modellato sulla ballata, è vero, ma a rischio litanico, come una supplica del ricordo in forma di racconto -, così la traccia fornita dalla ballata romantica si aggancia alla tematica nostalgica e perde slancio: «Primavera è luce che si allunga / colore resuscitato al mondo / sulle pene inflitte dall’inverno», oppure «Anna non temere solo la luce ci guarda, / ora dammi il fiore della tua timidezza» (p. 40). Si arriva anche a gravi cadute d’intensità nella volontà di rendere il più possibile “popolare” la parola. Incipit come «Tutto porta inciso il tuo nome» per quanto possano essere giustificati nel tentativo di smorzare qualunque “aulicità”, rischiano di accomodarsi su stilemi da canzonetta (“Ti vedo scritta su tutti muri”, cit).
A soffrire, dunque, è tutto il dispositivo di scrittura, la rete di relazioni che si instaura tra soggetto e mondo, in favore di un possesso che è limite all’alterità: «Io rimango con quelle due parole/ giocosa dichiarazione di possesso/ ognuno dell’altro proprietario/ come della casa o di una moto» (p. 47). Che questa speranza non sia vera, Mencarelli lo sa, eppure la nostalgia per “l’adolescenza” del mondo ha spinto al limite l’illeggibilità del mutamento.


Testi da Storia d’amore

Nostro parco giochi è questa piazza
un letto comodo la villa comunale
siamo proprietari di un paese
che conosce i nostri nomi uno a uno,
tu zingaro tu sbandato
io figlio di puttana,
è la qualità dei giochi a farci noti
ferocia compressa dentro scherzi
finiti nel pianto e nella storia.
Dai paesi vicini come pellegrini
arrivano ragazzi solo per sapere
di quel motorino aliante mancato
scaraventato giù da un sesto piano
o delle nostre comete impazzite
pagnotte intrise d’ogni liquame
in volo fino allo schianto calcolato
sui vecchi in tondo a briscolare.
Ogni bocca delle nostre
aggiunge al racconto il suo dettaglio
mentre ammirazione mista a risa
cresce negli occhi di chi ascolta,
poi solo ridere, che dannato ridere.

*

Il copione oltre al giro dei paesi
su un fulmine andato in marmitta
cone te stretta neanche divertita
ha il suo finale fisso sul sentiero
dove i laghi sembrano due occhi
e la capitale distesa giù nel centro
una bocca famelica di luci,
qui a forza si è romantici,
il bosco alle spalle senza fine
racconta l’altra parte della storia
quella di corpi sciolti dai vestiti
pezzo dopo pezzo come una vittoria
prima che tutto senza freno avvenga.
Con te per chissà quale ragione
di vanitosa o forse d’impaurita
andrà rivista la scrittura,
tanto la mia bocca s’avvicina
tanto la tua serra le sue labbra,
la voce ti ricompare a sole spento
solo perché l’ora è quella del ritorno.
Non so quanto amaro esca dal sorriso
ma da stasera mi è chiara una cosa,
a questo gioco arriverò per primo.

*

Il vento parla una lingua fredda
l’improvvisata dell’inverno
ci ha sorpreso a maniche sbracciate
sulle rive di un cratere fatto lago
preso in ostaggio dalle rane
dai resti sparsi di un’estate
andata all’altro mondo,
anche la tua voce a raffiche
se ne scappa via lontana
e quel che stai dicendo
da soli pochi metri di distanza
chissà chi lo starà ascoltando,
provo a leggerti le labbra
ma invece di capirti
mi perdo nel loro movimento,
una raffica di vento
e mi ritrovo aggrappato alle tue ciglia,
tutto porterebbe al primo bacio
ma tu ancora ti rifiuti
corri via e io ti vengo dietro,
sia pure in mezzo al lago.

*

La cabina fototessera
sputa smorfie miste a visi
tu regina senza pari
storci e arricci al tuo comando
non c’è naso o bocca che si opponga
avresti un futuro certo nelle tele,
io invece vengo bene al naturale
nella posa di drogato più che pazzo
che ama zero il suo sorriso,
l’ultimo scatto lo vuoi serio
io e te guancia contro guancia
per portarci domani qualcosa del presente.
Ti guardo nella foto intanto che s’asciuga,
non eri tu la prima volta che ti ho vista,
eri un’altra cosa più bruttina,
il tuo viso non bucava come ora
la corteccia della pelle come niente.

*

Primavera è luce che s’allunga
colore resuscitato al mondo
sulle pene inflitte dall’inverno,
ricordi il sentiero del primo incontro?
Ora sei tu a spingermi in alto
mi trascini sempre più dentro
solo per sorprendere il bosco
col suo vestito di gemme
e profumi le foglie neonate,
quando ti volti e mi prendi
qualcosa di purissima voglia
e più bambina paura tra i baci
mi dice a quale disegno
dal principio avevi pensato,
mentre tutto accade per gioco
il bomber steso per lenzuolo
la lentezza che mi comando
contro la fretta che ti spoglia
il tuo corpo come mai pronto.
Anna non temere solo la luce ci guarda,
ora dammi il fiore della tua timidezza.

*

Tutto porta inciso il tuo nome
ogni giorno nato e consumato
il paese tutte le sue strade
le formiche in solenne processione
tutto a voce alta lo ripete
suono più veloce della luce
Anna vero nome dell’amore
nome dal sapore di fiamma
Anna che significa ossessione.

*

Non è il mio inferno
quel regno di pena e fiamme
minaccia ai bambini sul più bello,
il mio demonio è una mattina
scolorata dal cielo alle persone
ti di chilometri lontana
in gita con la scuola per L’Italia,
io scarpa senza la gemella
buttato da una parte sconto il tempo.
Non è teatrale il mio demonio
non è mostruoso non ama il fuoco
lui gioca a svuotare le promesse
ad alitare il suo comandamento
tutto il suo verbo in un solo ritornello
tre parole piantate in mezzo agli occhi:
Non rimane niente, non rimane niente,
di questo tempo di tutti tempi
di tutte le madri le mani dei padri
del tuo viso inciso nei giorni
non rimarrà che il niente,
siamo un urlo nello spazio
per caso viventi per caso amanti
disordine è il padre da onorare.
Questa è la terra dell’inferno
questo niente da tramandare
niente da difendere niente da sperare,
ti prego fai presto, torna,
senza di te sono meno di un disperso,
io senza il tuo neo come mi oriento?

*

Un giorno saprò dire tutto questo
con una sola parola, miracolosa,
dirà tutto svelerà ogni cosa,
cadranno una volta pronunciata
tutti gli inganni sparsi sul percorso,
la via apparirà chiara senza intralci
salvarti sarà un gioco da bambini,
per te riuscirò nell’impensabile
il primo a schiavare l’universo.
Niente di tutto questo.
L’intero verso del futuro
si consumerà senza fuochi dal cielo,
ai tuoi piedi mai poggerò la preda
la prova che alla fine resisteremo,
ma tolta l’impazienza che mi smania
altro atto vuole la mia fede,
dare rinascita ogni giorno
al clamore che sei per i miei occhi,
poi con ogni fibra di esistenza
amare e ringraziare, questo mi basta.

Collage Invernale – La superpiega del futuro

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratte da: Gilles Deleuze, Foucault, Cronopio, 2002