Sull’EstroVerso l’ultima puntata della rubrica che ho curato per 2 anni e 8 mesi con Gabriel Del Sarto. È stato un viaggio lungo ma prezioso, così bello che non può finire qui. Ad maiora! Dall’inizio, sempre. Di seguito i nostri ringraziamenti e l’arrivederci ai lettori.
Il più grande abbraccio a Grazia Calanna perché non esiste ospitalità più ospitale della sua.
Attrazione, ancora
Ma dimmi, chi sono, questi girovaghi, questi anche un po’ più fuggitivi di noi…
Nelle pagine di questo breve romanzo abita una voce femminile – quella della protagonista – che, poco alla volta, sotto forma di un monologo articolato in cinque capitoli, conduce nel gorgo in cui è caduta la sua vita.
Il mondo della protagonista è un vicolo cieco che emerge poco alla volta, perché se all’inizio sembra solo quello della donna sedotta e abbandonata da Giovanni – uomo politico e medico –, più avanti diventa quello di una donna la cui marginalità è assoluta, estromessa com’è non solo dalla vita privata e pubblica del suo uomo, ma anche da quella della figlia.
«Cella. Dario e Elena mi chiamano così, l’ho scoperto origliando. Rimangono chiusi in camera per ore, busso giusto per segnalare che vado in giardino, rispondano al telefono, se squilla. Perché mi chiamano Cella, chiedo al cane. Forse perché sto chiusa in casa, perché non vado al di là del cancello, tranne che per la spesa, le necessità. O forse perché amo un uomo che in cella, in effetti, dovrebbe finirci, anche se nessuno ha ancora trovato il modo. La colpa non coincide con la punizione quasi mai. Sarebbe bello se la sofferenza avesse quel risarcimento. Lui mi ha lasciata e ora paga. Invece a rimanere dentro, sconfitta, sono io. Cella» (p. 82).
Colei che era stata l’amante di Giovanni – da questo legame era nata Elena – è la donna che inizia il suo memoriale, anni dopo, riportando alla luce “il mondo di prima”, quello antecedente la nascita della figlia, e in cui la storia furtiva con l’uomo – che aveva già una moglie e un figlio, Dario – credeva potesse condurre da qualche parte.
Che Giovanni sia il prototipo dell’uomo che esercita il suo potere di fedifrago e pervertito attraverso il possesso, l’umiliazione e l’abbandono, è un dato di fatto. Meno evidente è, invece, la scoperta che custodisse il segreto di avere curato anni prima una terrorista e per questo fosse dovuto fuggire, facendo perdere le tracce di sé.
Ignorando la reale natura del suo uomo e il legame che la terrà legata a filo doppio anche al figlio di costui, Dario, il resoconto di Cella rivela quanto la donna si fosse allontanata dalla vita vera, inseguendo le false rappresentazioni della stessa.
Lo snodo di questo monologo è nella parte centrale del romanzo, quando il memoriale di Cella si colloca al tempo in cui nella sua casa entra Liliana Vigas, l’ex terrorista che Giovanni aveva curato anni prima. Prima di scomparire definitivamente, Liliana lascerà – chissà se volutamente o per sbaglio – un diario in casa di Cella. In queste pagine si leggono le confessioni di Lia, al tempo in cui la politica extraparlamentare e la lotta armata avevano rappresentato tutto quanto la vita significasse per lei. Il ritratto di Liliana diventa un doppio del dolore di Cella: lo specchio in cui guardare al proprio dolore e, forse, il momento a partire dal quale proprio la protagonista può cercare di rimettere ordine agli eventi della sua vita.
Policastro in esergo riproduce una frase di Roland Barthes – Tutto ciò che mi impedisce di abitare la mia tristezza, mi è insopportabile – che ritrae in maniera nitida il dolore della protagonista del romanzo. Toccherà al lettore nella ricostruzione di questo magma di sensazioni e emozioni fare proprie le parole universali di Cella e trasformare il dolore in conoscenza.
Per il fine settimana, Arturo Mazzarella suggerisce Gilda Policastro. Buona Lettura.
Gianluca D’Andrea
La necessità di continuare a intrecciare – nel solco delle più innovative esperienze poetiche del secondo Novecento – l’ingarbugliata matassa di fili che legano la poesia alla prosa – si presenta nei termini di un’esigenza imprescindibile per chiunque voglia attingere all’indefinito arco di risorse offerte dal linguaggio poetico. Risorse che si dimostrano sempre più ardite nella “perturbante” sovrapposizione – direbbe Freud – tra una quotidianità completamente scabra, dimessa, e la pluralità di voci narrative che tentano invano di afferrarne il senso.
Sono proprio queste le polarità entro cui si svolge, con un estro stilistico pari al rigore concettuale, Non come vita, la raccolta che Gilda Policastro ha pubblicato nel 2013 per Aragno, da cui sono tratti i testi che seguono.
Arturo Mazzarella
Poesie – Gilda Policastro
Fili
a chi parlano la gente ai telefoni————– a chi dice, lei
sei come un domatore: prima la frusta e poi lo zuccherino
a quali fili sono appesi quando si muovono nella danza
quelli che aspettano —————-treni che volano aerei lontani
com’è inspiegabile i fili che tengono insieme ————-che ti staccano
gli altri
certi, vivono di comunicati arrivi e partenze ————–e interferenze
ho fatto il numero per sapere come stavi,
ma ho messo giù perché se c’eri non lo davi a –
quelli che non ci sono telefonano di continuo
a tutte le ore hanno bisogno di dire pensavo che non ce l’avresti fatta a sopravvivere ti faccio le mie condoglianze ti sei rifatto una vita, meno male
coi morti per essere buoni
bisogna essere duri ——–dentro
al telefono le pause sono mortali quando si parla ——di noi
non dire niente agli altri, non capirebbero
*
Posti
il gruppo di autocoscienza delle rumene
la signora con le gambe macchiate
sotto i pantaloni alla zuava (forse picchiata
e sono lividi)
l’africana riccia se la portava via il tassista
i venditori giallini hanno introiettato Il capitale
ti vendono gli accendini e non ti vogliono, per dire,
recitare una poesia
-non mi aspettavo che per scrivere di cultura tu volessi dei soldi
-nemmeno io che li volessero da me per comperarmi il pane
sto barattando libertà con solitudine:
loro al parco almeno si parlano
– ma il problema – ho detto camminando verso san carlino
allo scrittore noto
– non è tanto il mio brutto carattere
e di come ti maltratto l’ambulante,
piuttosto quello di chi ha comprato accendini e cd pirata
perché noi siamo nati
dalla parte buona del mondo
loro da quella sbagliata
-un ricatto pietoso-, ha detto allora lo scrittore noto:
-a mio figlio, se scordo la merenda, non ne compro due: gli chiedo scusa
la ragazza riccia coi seni palestrati
la ragazza magra con gli slip in evidenza
la ragazza del libro brava e bella
la ragazza ch’ero quando mi ha vista e ha detto:
non pensavo ch’eri tu, quanto diversa sei
diventata e come mi piaci di più adesso che non sei come prima
al parco è lecito se di sesso diverso
sdraiarsi uno sull’altra e parlarsi all’orecchio in evidente strofinio
la rumena del gruppo si è spostata
accanto a un uomo
solo
che sfoglia un giornale
meglio reietti ————oggi
che una vita normale
*
Prossimità
per A.
Dorme, e la inonda
di tiepido umore
Distesa—- l’arma bianca
per tagliare come al ristorante,
gettare minutaglie, i resti che non servono,
della mattanza
Si lavano i camici bianchi,
si tolgono i guanti
pieni
Un unico varco,
distesa la inonda di umore rappreso
si lavano i camici bianchi, si tolgono i guanti
si gettano via gli avanzi
Apre alla voglia
e lo stesso umore
la inonda
Il corpo di lei,
svuotato
*
Primo amore
La signoria sul corpo della vita
è sola dilazione:
in rovescio per sottrazione di resistenza
levigando il ventre come tavola di marmo
senza rialzi
e incavando l’occhio nei neri fossi
del peso forma
Un uomo uccide una donna dopo cena e poi s’impicca in una villa al mare
Una donna e un uomo al ristorante: lei verdi foglie, lui funghi prataioli
Il solo modo della riduzione perfetta
delle due in una e, nella stessa,
del cuore e della testa
Non si danno in natura che rapporti
reversibili
Brama sbarre la vittima
non sa di essere
carnefice ———-chiama
carneficina
di coltellate solitamente quattordici,
per l’anonima ragazza di Calabria
o la moglie famosa
Dell’amore finito in morte
solo dilazione
in prolungata agonia
da farmaco
che corrode, non guarisce
come una cura
all’incontrario, farlo
sparire
*
D’estate
Sugli autobus la gente estiva è una donna
dai seni enormi e bianchi
un matto che parla da solo e puzza
un ragazzo con la mappa della città
e la maglietta di cuba
la gente estiva è poca
ma la gente del mondo è troppa
gli ascolti i discorsi telefonici che urlano
certi non li rivedi mai,
di quasi tutti hai la mail
Negli ospedali la gente estiva ha i pigiami
d’inverno, a righe
i figli leggono nella sala d’aspetto
la moglie del vicino non parla ma porta
una boccetta di profumo
la gente va negli ospedali per poco,
lei crede,
a molti potrebbe succedere
ma a tutti no, meno male
Nei posti estivi la ragazza è bella
da morire
un turista francese ha percosso la figlia
a morte, sull’altare
cuocersi al sole incrementa i melanomi
i motoscafi decapitano l’amico
ma questo non vuol dire, sono casi
tutti ci siamo divertiti da giovani,
al mare
e t’avessero sculacciata di più, da piccola
Nel silenzio estivo si sentono i tasti
mentre le macchine, poche, vanno fuori
la vicina ha chiuso le imposte e non chiede
le cose che faccio, o i fidanzati,
le studentesse tornano in Calabria
che d’estate bisogna riposare
cuocersi al sole, annegare
nell’acqua galleggiata da escrementi o da bolle
d’olio dei motoscafi
Ho un tavolo sotto il pergolato
e una barchetta di legno,
mi vieni a trovare
Ma no, rimango a Roma, prendo il pullman
il padre è in ospedale,
lo andiamo a visitare
Il medico di guardia ha smesso il turno
è domenica
ci sono solo infermieri abbronzati
nei corridoi e i malati
che camminano col trespolo,
con le flebo di medicinali
mossi da bollicine pare d’acqua minerale
Dico papà che presto esci,
e lui mi guarda come me da piccola
con smorfie di ribrezzo o di spavento
bambino adesso è lui su quel triciclo
che vuole farsi tutto il corridoio,
di corsa, uscire fuori,
andare al mare
*
I cari altri
Gli altri sono:
mangiare il panino a morsi,
gridare al telefono e
sputare
mentre lo fanno
I gesti che non durano,
la bambina dire ciao dalla porta,
e lui che ci hai dormito, una notte,
la mattina non ne sai il nome più
– ma non è come pensi
Gli altri sono:
il ventre che spinge
sotto le calze, e sopra i seni
le mani,
ma pensare che non resiste,
e ochéi, ci sentiamo domani
Un’unica forma, o misura, ha il fare,
il resto è represso
dal vestito di madre,
dal divieto,
e più chiedono, gli altri, più ingombrano,
meno ci stai
con gli altri sono:
i figli, morire, tu-figlia-loro-morti,
e le coperte, e il velo
e i pigiami e le giacche,
gli altri le porteranno, li butteremo,
e quel giorno non verrai
nel sogno a rimproverare
non come vita, ma più di dormire o meno,
adesso non ricordare, non dire il nome, che non sai
degli altri, che a te chiedono, loro,
di non andartene
e che hanno paura,
non vanno a letto, non si sdraiano come d’amore,
eppure non passa, non va-e-non-viene, e sono a metà
*
La cottura del pesce
ti odiano perché sei viva
le ottantenni delle amiche, in eurostar, e
a una certa età tutto è invidiabile, aggiunge, mentre
dei figli si raccontano poi o del pesce, che va bollito
nella sua stessa acqua, per insaporire:
le ascoltiamo ne ridiamo,
continuiamo lui a leggere io a dormire,
guardando i prati, le montagne, i porti
coi primi bagnanti al sole di pasqua
abbiamo cercato le tracce
nei conti da pagare, nei soliti fiori,
li metti tu, che ho sfondato la sedia, l’ultima volta,
poi dalle cartelline sono emersi
i romanzi, che iniziava quell’anno,
mentre i parenti debitori sono in vacanza, al mare,
e, ci sentiamo, state tranquilli, la prossima volta
sei stai bene è peggio, perché fai la tua vita
vuota di ombre,
e se male ti ci pare di sprecarla, proprio perché,
il prete dice, non si vive per poco e si muore per sempre
ma il contrario, o ci si rincontra, e quasi
vien da sperare di no, per loro
che potrebbero ricominciare a litigare,
dei parenti debitori, o dei romanzi
ti odieranno finché sei vivo o vorranno
sentire della musica, ballare perfino
(lui va a scuola di tango)
oppure smettere le corse, i romanzi
e andare a vivere dove non siamo che nati,
ricomprare la sedia, bollire il pesce nella sua stessa acqua,
leggere coi cugini ch’è morta la vecchia, bruciata
mentre era fuori per la spesa la badante, e
dire che è tutto inutile, le scelte, quando il destino bussa,
e passa
Gilda Policastro
Gilda Policastro ha esordito con la silloge Stagioni e altre apparsa nel Decimo quaderno italiano di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, 2010). Ha preso parte a festival e rassegne (Romapoesia e RicercaBo); ha vinto ex aequo il Premio “Mazzacurati-Russo” con La famiglia felice (d’if, 2010) e il Premio “Antonio Delfini” con Antiprodigi e passi falsi (Transeuropa, 2011). Ha scritto due romanzi: Il farmaco (Fandango, 2010) e Sotto (Fandango, 2013). Critica letteraria e saggista, ha collaborato con i supplementi culturali del “Manifesto” e del “Corriere della Sera”. Ha pubblicato, inoltre, saggi su Dante, Leopardi, Sanguineti e la critica militante contemporanea.