Franco Buffoni, “La linea del cielo”, Garzanti, Milano, 2018

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Monumento a Jan Palach e Jan Zajíc

Franco Buffoni, La linea del cielo, Garzanti, Milano, 2018

franco-buffoni-la-linea-del-cielo-9788811601968La linea del cielo sembra costituire il piedritto terminale di un arco che ha come principio Il profilo del Rosa, raccolta del 2000. La curva di quest’arco iscrive il tempo individuale nel tempo sociale e storico attraversato dallo stesso individuo. Così la storia collettiva appare ricomporsi – anche se per barlumi e frammenti – grazie alla vicenda assai comune di un uomo che, usando il linguaggio nel suo valore testimoniale non dimentica di trovare il giusto distacco autoironico (pragmatico), per allontanare da sé ogni residuo “eroico” dell’io.
Come «Il profilo del Rosa raccontava l’uscita dai confini dell’io» (secondo una definizione di Guido Mazzoni apparsa in una delle recensioni più illuminanti su quel libro, leggibile qui), così La linea del cielo espande il senso di fuoriuscita inaugurato vent’anni prima. A risultare trasformato è il «monocromo grigio», individuato ancora da Mazzoni come ultima evidenza di un percorso di scoperta e maturazione che avrebbe come punto d’approdo la «serialità» di ogni esperienza. Infatti, il Buffoni “maturissimo” di La linea del cielo conferma e supera, a mio avviso, quello “maturo” de Il profilo del Rosa con un’operazione che può essere interpretata proprio attraverso la lunga gittata degli anni trascorsi tra i due lavori. In primo luogo la dimensione della memoria manifesta un mutamento: dall’apertura dell’individuo alla storia si passa alla consapevolezza che la storia (l’alterità), con tutti i suoi “attimi”, è fondante per l’uomo. La linea del cielo, allora, sembra inoltrarsi nel processo dialettico che crea il “sistema relazionale” che ancora definiamo col termine “individuo”, e lo fa oscillando costantemente tra distacco illuministico e immersività romantica.
Soprattutto nella seconda parte, a cominciare dalla sezione inaugurale, titolata paradigmaticamente Rivendicative (cioè “rivalsa” dell’individuo sulla storia ma da “dentro” la storia, attraverso i diritti delle minoranze), siamo introdotti in un’atmosfera di ri-nascita:

Mio sussulto

Mio sussulto
Mia ex segreta malattia
Mio stato chiuso nella vacuità
Di sguardi obliqui, mia pazienza
In mancanza di meglio, mia esuberante
Rinascita con
Una dichiarazione al mondo.

(p. 121)

La “dichiarazione al mondo” è una presa di posizione sì individuale, ma nel desiderio di un’agnizione collettiva che, in alcuni frangenti può ricostituire un orientamento, una “nuova” storia. Con buone probabilità, inoltre, la skyline richiamata nel titolo sembrerebbe sintomo di questo nuovo orientamento che risiede nei mutamenti in atto, nella trasformazione del vecchio “profilo” e, conseguentemente, nel costante superamento dei confini. È certo che Il profilo del Rosa, strettamente connesso alla memoria di un luogo di formazione personale da cui si tentava una fuga aperta, è superato da La linea del cielo in cui l’espansione “evasiva” ha raggiunto il suo massimo esistenziale e si esprime con la consapevolezza che il limite è parte necessaria di un processo di costante apertura. Processo che si manifesta riconoscendo sé dentro una collettività:

17 maggio

Il 17 maggio 1990 avevo quarantadue anni,
Quando nella nazione più avanzata del mondo
S’incominciò a poter dire e scrivere
Che non ero né ammalato né pazzo.
Da allora sono passati altri trent’anni
E oggi sono convinto quasi anch’io
D’essere umano. Evviva lo stato di diritto.
Evviva la Costituzione americana.

(p. 122)

La prima parte del libro (composto nel segno della dualità che cerca assiduamente l’incontro: Lombardia/Roma, individuo/società, poesia in re/ poesia sapienziale, ecc.) è quella in cui è più marcata la presenza dell’individuo, con i luoghi della memoria che si combinano al «tema della morte»:

Come un cicisbeo invecchiato

Cantare la dignità dell’uomo senza dèi
Oppure soltanto opporre ai colpi dell’ansia
Liberi testi sul tema della morte?
Come un cicisbeo invecchiato
Al tramonto del secolo dei lumi
Mi aggiro nell’ex spazio vicino all’autostrada
Delle Sorelle Ramonda
Diventato moschea
Per vincere un inculcato schema sacramentario
Dal battesimo all’estrema unzione
Propiziato da ancestrali feste della pioggia
Fertilità e solstizi.
Col tempo che si adatta altrove
A plastificare altri corpi
Di umani deceduti.

(p. 43)

La dimensione preistorica dell’infanzia («Scienza della preistoria, mitologia / Lombarda subalpina di segni litici su roccia», Vipere lilla, p. 67, vv. 17-18) si fonde con la “storia” dell’età matura (Roma in questo caso è la città-simbolo di un trasferimento psicologico ed etico oltre che esistenziale) e, sul piano stilistico, muta definitivamente ogni propensione lirica (il cui massimo espressivo, occorre ricordarlo, era stato raggiunto con Jucci nel 2014, in un lirismo che cantava la sua fine) e la proietta verso un’ibridazione dei generi che sembra essere un’attrazione costante nell’ultimissimo Buffoni (si vedano i lavori in prosa, la pièce Personae, che sembrano manifestare una volontà inclusiva senza requie e, con ogni evidenza lasciano la sensazione di un’officina aperta a ulteriori sperimentazioni). La condizione postuma dell’uomo novecentesco si vivifica nel costante rapporto con la memoria:

Il più grande complimento

Foto fiori e volantini
A ricoprire la statua di Jan Palach
A mezzogiorno.
La memoria, dici, come fosse
Cosa rara
Da custodire…
Invece ce n’è d’avanzo
Nel mondo
E sempre rinnovantesi,
Cambia solo ogni tanto il colore
Del persecutore,
Magari il suo accento.
Avevo vent’anni a Praga,
Ne avevo otto a Budapest
E avevo già capito.

(p.129)

In questa direzione assumono valore “documentale” anche gli pseudoritratti degli autori più o meno cari a Buffoni, e che vengono a costituire un pantheon di segnali inequivocabili sulle scelte di poetica dell’autore:

Cesare Segre

Continuo a credere che poesia sia un’altra cosa
E abbia poco da spartire con cruciverba
Sciarade o un noioso listino di anodini
Aggettivi, messi in fila per numero di sillabe
Ricorrenze o corrivi richiami a lettere iniziali,
Eppure – malgrado questa
Sia per me la prima volta acrostica –
E mentre penso – Cesare – a quanto
Gioco di parola sia comunque intrinseco al rito del comporre,
Rido al ricordo del Bettinelli veneziano, al suo supplizio,
Estratto dalle parole in rima: al lanifizio.

(p. 165)

Con ogni probabilità le ultime sezioni di La linea del cielo, esasperando la dualità di tutto il libro, concludono la riflessione di Buffoni sul secolo breve (ma quanto gravido di una lunga attesa di cambiamento), ribadendo ancora la necessità di un superamento e di una commistione che sembrano rappresentare un lascito per le generazioni che verranno “dopo la lirica”:

Codice Verlaine

Non siamo ancora partiti.
Perché solo nei fumetti
Clarabella può saltare lo steccato,
Tu, mucca normanna graffi il muso
E il vento tira dritto.
Dov’è l’autunno che volevo,
L’ultimo con la scala di pietra all’abazia
In questo giugno di raffiche di pioggia?
Dov’è nascosto il Fall con i suoi swallows
Dove la season of mists delle brughiere?
Si estende da tempia a tempia
Il mio terrazzino di Elsinore,
Vi stendo i panni di un personale
Bucatino autarchico, niente lavanderia
Niente servizi prima dello sbarco.
Il costo di tutto questo è molto alto
In termini di nervi logorati
Alleanze e solidarietà, bassissimo
Per lo scarso uso di notizie.
Porcellana ceralacca lapislazzuli,
Voglio partecipare al destino dei popoli
Nel loro farsi, non alle loro vaste decadenze,
Mi verrebbe da esclamare pensando
All’uso estremo dell’autunno,
Oggi quattro giugno del ’44.

Gianluca D’Andrea
(Maggio 2018)

Michele Ranchetti: una poesia da “Verbale” (Garzanti, 2001) – Nuove Postille ai testi

Ranchetti

Michele Ranchetti

di Gianluca D’Andrea

Michele Ranchetti: una poesia da Verbale (2001)

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Muoiono le figure dell’assenso
vite non più parallele s’interrompono
d’essere presente è il compito, non più la sorte.
Tu non sei
più vicino alla fine che al principio
e il dove è inesistente: ora precipita
o sale e si sottrae: si avverte
come presenza oltre l’assenza eterna.


Postilla:

Da questo reportage di matrice classica viene fuori un’immagine. Un barlume da un insieme di “illuminazione e ombra” (almeno a detta dell’autore); a noi sembra giungere una necessità di presenza dopo l’avvenuta fine. Di che? Dell’essere e del tempo di questo stesso essere, così particolare da divenire “figura”, paradigma di un umano non «più vicino alla fine che al principio», in un’equidistanza che annienta come in un paradosso la distanza stessa. La distanza da una relazione col percepibile che si propone «oltre l’assenza eterna», si ribalta in una “sensazione” del nuovo, in un rinnovamento appena avvertibile.
Da questo reperto-referto si estrapola un senso assoluto, come da un’epigrafe il sunto rappresentativo di un’opera. Quasi a margine dell’esistere, il segno che marchia il suo essere avvenuto e, allo stesso tempo, presenzia la sua ineffabilità, la speranza del suo avvenire “eterno”.

 

Giorgio Caproni: una poesia da “Il Conte di Kevenhüller” (Garzanti, 1986) – Postille ai testi

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Giorgio Caproni (Foto di Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Giorgio Caproni: una poesia da Il Conte di Kevenhüller (1986)

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PARATA

…verso i monti invernali…
(Adriano Guerrini)

Sfilano nella tramontana
della storia.

———————-Quasi
– interminabili e eguali –
in fila indiana.

—————————-Sono
«i trapassati».

—————————Coloro
– in terra come nella memoria –
che per esser vissuti
non sono mai stati.

Sfilano quasi piegati
in due.

————–Nel soffio
del tempo, anch’io piegato
li avvicino.

———————Io,
che non sono mai stato.

Ne fisso uno.

——————————-Mi fissa.

Nel bianco del suo volto vuoto
non mi vede.

—————————Lo fisso
ancora (lui trasparente e quasi
di vetro), e il mio sguardo
– un ferro – mi si ritorce
contro.

—————-Nel vuoto
del suo volto, afferro
me assente.

———————-Inesistente.

(O il perfetto contrario.)

Non ho, nel sillabario
della mente, poteri
per dargli anima.

——————————–Neri
– o persi – son tutti
i miei inerti pensieri.


Postilla:

Quando una tradizione letteraria rischia fino in fondo la sua stessa produttività, sull’orlo della scomparsa, s’intuisce che è ancora possibile scorgere il mutamento come un sintomo. Grazie a questa tradizione, la poesia italiana è viva e lancia il suo sguardo su questi tempi apparentemente illeggibili.
In Caproni, l’ultimo soprattutto, la scomparsa non è più orlo, perché il confine è stato trapassato in direzione dell’assorbimento dell’ombra, nel ribaltamento dell’essere nel suo “perfetto contrario”, nel compimento-commistione con l’inerte. Procedimenti chiarificatori – la musica franta e zigzagante dei versi “spezzati”, i dubbi sulla parola “inessenziale”, l’allontanamento del soggetto dal mondo – decidono il “modo” nuovo di percepire la relazione, laddove il soggetto “distrutto” può ricomparire a patto di accettare l’inerte, a comunicare con la morte “interminabile e uguale”. Finisce un mondo e sfuma nel gelo tramontano. Proprio quando si giunge al massimo della resa, «Coloro/ – in terra come nella memoria -/ che per esser vissuti/ non sono mai stati», “Io” che non è mai stato, è plausibile si scopra nella sua stessa assenza, decentrato, scisso ma ancora agente. Anche solo nel riflesso «trasparente e quasi/ di vetro» dell’altro “inesistente”, il soggetto può “afferrarsi” e “afferrare” la propria assenza. La Bestia estinta si riconosce nella sua “perdizione” ed è pronta al salto metamorfico, a un inguardabile – perché ancora invisibile – cammino.

Giovanni Giudici: una poesia da “Eresia della sera” (Garzanti, 1999) – Postille ai testi

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Giovanni Giudici (Foto: © Carlo Carletti)

di Gianluca D’Andrea

Giovanni Giudici: una poesia da Eresia della sera (1999)

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Voltati dopo tanto

Voltati dopo tanto
Dimenticati nomi
Al caos mentale non più
Distinguere tra poi e prima

Poco vigili sensi
Già eravamo persone di un tempo trascorso
Il nostro non ancora però del tutto consunto
Di un oltretomba vivi

Profeti di passato – l’esatto
Contrario di colui che nella Bibbia
Rammemorò il futuro
E a noi nessuna ormai fraterna lingua


Postilla:

Il disorientamento parte dalle difficoltà della memoria. Nella mente il “caos” perché sono scomparsi i nomi, dimenticati. La conseguenza è incapacità di scelta, distinguere, perdita della propria presenza “storica”: «Già eravamo persone di un tempo trascorso». C’è una comunità di riferimento (si noti l’utilizzo della prima persona plurale) ridotta, invecchiata, che si riconosce nell’incomprensione dei segni del futuro (il riferimento al profeta Daniele, nell’ultima strofa, sembra suggerire questo). Forse queste figure, che brancolano nel passato e si sentono rifiutate dal futuro, queste apparizioni attraversate dall’incertezza e dal senso di sconfitta, possono diventare monito, o meglio allarme, perché lo sforzo di comprensione dei segni del “futuro” non si sleghi dalla conoscenza di quelli del passato, per riattivare un orientamento temporale, una lingua, una storia, anche se non lineare (il componimento, infatti, è giocato sulla forza scardinante della metatesi, l’ingarbugliamento sintattico, l’iperbato: «E a noi nessuna ormai fraterna lingua»).