Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto XIV) – di Andrea Ponso

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Paradiso XIV, La Croce con Cristo, illustrazione di Gustave Doré

di Andrea Ponso

Canto XIV

I nostri corpi terreni non sono più, nella prospettiva di fede, “figura” delle anime paradisiache; è esattamente il contrario: sono le “anime” paradisiache ad essere “figura” del corpo glorioso definitivo: “Come la carne gloriosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta; perché s’accrescerà ciò che ne dona / di gratuito lume il sommo bene”. Ma, allora, sono “anime” o “corpi” (come abbiamo sempre continuato a sostenere) quelli che Dante incontra in paradiso? Verrebbe da dire si e no insieme, né l’uno né l’altro o l’uno e l’altro. Sono corpi, perché la voce e la memoria della vita passata sono presenti al corpo, sono scritti nei corpi e nei gesti, nelle tonalità vocali e ritmiche, nella traccia significante che arde ed esce da se stessa ex-sistendo e incontrando il pellegrino; ma sono corpi e carni particolari: né soggetto né oggetto, pura relazione imprendibile e mai del tutto riducibile ad enunciato – solo una continua, danzante e luminosa, concretissima enunciazione, solo canto.
E, tuttavia, come i corpi terrestri, seppure ad un altro livello, sono in cammino verso il corpo glorioso. E, anche questo cammino, questo divenire verso la pienezza, non può appartenere all’immobilità di un concetto o di una idea, ma solo alla flessibile materia della carne. Stanno ancora e sempre nascendo questi corpi, e forse Dante ce lo indica sommessamente quando introduce la voce di Salomone, che risponde alla sua domanda sulla condizione dei beati dopo la resurrezione della carne: è una voce che somiglia a quella che annuncia la presenza del Verbo nel grembo di Maria – “forse qual fu da l’angelo a Maria, / risponder […]”. Non si smette di nascere nuovi, non smettono di nascere nuovi: è una continua annunciazione.
E saranno corpi “capaci” – capienti, più forti nella loro potenzialità di ricevere lo splendore e la grazia: “né potrà tanta luce affaticarne: / ché li organi del corpo saran forti / a tutto ciò che potrà dilettarne”. Pur nel loro splendore, quindi, i beati non sono ancora al culmine della promessa, si trovano essi stessi in un “già e non ancora” che diventerà pienezza totale solo quanto il corpo riacquisterà la totalità della sua potenza ed estensione. Si tratta, per noi che siamo chiusi in verità parziali, di una vera e propria ascesi, nel senso più profondo del termine: non una rinuncia al corpo, ai sensi, agli organi e alla carne, ma una loro dilatazione, un vero e proprio allenamento a diventare finalmente corpo e carne in pienezza – fino a quel “disio de’ corpi morti” che non è semplice ricongiungimento dell’anima con il corpo ma abbraccio della finitezza e della morte nella totalità del corpo glorioso.
E forse non è un caso che proprio dopo queste scoperte dantesche arrivi l’insostenibilità della visione allo “sfavillar del Santo Spiro”: “come si fece súbito e candente / a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!”. Lo sfavillare dello Spirito – meglio dello “Spiro”, di quella profondità del respiro che è propriamente Vita – non è che la presenza di questa totalità gloriosa che il corpo di Dante ancora non può sostenere: e non perché è corpo, ma perché non lo è ancora abbastanza, non lo è ancora in pienezza. Beatrice viene in soccorso, forse consolando Dante di questa poca carne gloriosa, come fa la filosofia e il pensiero di fronte all’inspiegabilità della carne e della sua pienezza, in una modalità per certi versi simile a quella di Paolo quando, davanti all’aeropago, parla della resurrezione della carne; anche se, nel nostro caso, Beatrice ha funzioni chiaramente diverse: non di rifiuto ma di misericordia e salvezza.
E infatti, anche la bellezza e i sensi di Beatrice, alla vista di Dante, crescono in ascesi cielo dopo cielo – tanto che Dante “osa” dire, nel finale del canto, che sembra privilegiare la bellezza di Beatrice a quella della visione e azione dei “beati militanti” e al simbolo stesso della Croce che essi mostrano: “Forse la mia parola par troppo osa / posponendo il piacer de li occhi belli”. Ma in quella bellezza è contenuta, di pienezza in pienezza, anche quella di Beatrice, in particolare quella degli occhi che, con il resto del corpo, crescono diventando sempre più spirituali laddove diventano anche sempre più corporali: “ché ‘l piacer santo non è qui dischiuso, / perché si fa, montando, più sincero”.
Ciò che rimane “indietro” nel salire è l’intelletto, la memoria: “Qui vince la memoria mia lo ‘ngegno” – non il corpo e i sensi; e Dante si scusa perché il suo corpo e i suoi sensi ancora non sono “capaci”, capienti per accogliere tutto: “ancor mi scuserà di quel ch’io lasso / vedendo in quell’albor balenar Cristo”. La prova di tutto questo sta nella metafora musicale che è costretto a usare per dire la visione che gli occhi non riescono a contenere e, quindi, a depositare nella “mente”: “E come giga e arpa, in tempra tesa / di molte corde, fa dolce tintinno / a tal da cui la nota non è intesa, / così da’ lumi che lì m’apparinno / s’accogliea per la croce una melode / che mi rapiva, sanza intender l’inno”. Non è la musica forse più legata al corpo e ai sensi che la stessa visione intellettuale che, qui, non può più sussistere? Non è una esperienza dei sensi e del corpo, primariamente, quella del significante musicale che supera il “segno” della stessa Croce? Non è maggiormente immersiva questa esperienza del corpo “che non intende e ode”? Laddove si credeva di trovare “significati” (e quindi intelletto scorporato e “memoria”) si trovano “significanti”, la forza sensitiva e relazionale della musica, nel suo ritmo e nel suo movimento, che sorprende proprio l’intelletto, il νοῦς mediante la carne, i sensi, il corpo.

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto XIII) – di Andrea Ponso

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Giovanni Di Paolo, Canto XIII, Adamo, Cristo e Solomone, miniatura (The British Library)

di Andrea Ponso

Canto XIII

Ancora il canto si apre con l’impossibilità della rappresentazione, con la fatica di “ritenere” l’immagine e l’esperienza che viene vissuta da Dante e raccontata al lettore: “Imagini, chi ben intender cupe / quel ch’i’ or vidi – e ritegna l’image, / mentre ch’io dico, come ferma rupe -“. Certo la fatica è tanta, ma non si tratta di qualcosa di scorporato: l’immagine ha una sua precisa fisiologia, è stata indagata quasi a livello medico e corporeo nelle sue funzioni dalla cultura che lo stesso Dante esprime. Quindi, più che di inconsistenza ed evanescenza si tratta della difficoltà immensa del non riconoscimento, come accade ai discepoli nei racconti post-pasquali, dopo la resurrezione del Cristo: per lo più non lo riconoscono eppure non è uno spirito! Tenersi saldi a quella “rupe” significa quindi sforzarsi di rimanere carne e non solo intelletto, anche di fronte allo scivolare continuo e al divenire forsennato e dolcissimo insieme delle rappresentazioni perché è proprio la carne, e non l’intelletto, il cardine della salvezza.
Lo strapiombo che sta sotto di noi lettori e di Dante stesso è lo strapiombo della non riconoscibilità di qualcosa che supera ogni possibile sistematizzazione intellettualistica: “poi ch’è tanto di là da nostra usanza”: abito ed abitudine, in fondo, rischiano di essere più forti di qualsiasi cosa, se usati in modo difensivo. Ciò che rimane, proprio nella mente, è solamente “quasi l’ombra de la vera / costellazione e de la doppia danza / che circulava il punto dov’io era”: è quasi l’ombra di un’esperienza concretissima, talmente vera da non poter essere chiusa nell’idolo del nostro intelletto, ma che solo l’azione della parola e la sua gestualità può in qualche modo far rivivere al presente nella memoria, come accade nel rito dove, appunto, non è la mente sola che ricorda ma il corpo attraverso tutti i suoi linguaggi anche non verbali, e in particolare quelli legati all’azione e al sentire. Non a caso qui si canta proprio la trinità e l’umanità e divinità del Figlio: “Lì si cantò non Bacco, non Peana, / ma tre persone in divina natura, / e in una persona essa e l’umana”. Non è un caso, quindi, che il massimo della sapienza terrena sia comunque attribuito al primo uomo modellato da Dio e all’ultimo e nuovo uomo incarnato dal Cristo.
E non a caso Tommaso parlerà, con le categorie della sua filosofia e teologia, della “materia”: “Se fosse a punto la cera dedutta / e fosse il cielo in sua virtù supprema, / la luce del suggel parrebbe tutta”. Il problema, quindi, non sarebbe legato alla dualità ontologica di materia e spirito ma, piuttosto, al nostro “ingegno”: un ingegno e un intelletto incapaci non per mancanza costitutiva, potremmo dire, ma per eccesso e presunzione di comprensione totale sotto le sue categorie, incapace di aprirsi all’eccesso della creazione in tutte le sue potenzialità disvelate dalla forma loro impressa non da noi ma dalla mano divina.
Infatti, ci vuole quel “tremore” che la mano dell’artista dovrebbe possedere, un “tremore” che lascia cadere la pretesa riduttiva di sottomettere la totalità: l’artista “ch’a l’abito de l’arte ha man che trema”. Ed è proprio questo tremore, questa debolezza che lascia cadere nell’esperienza senza la pretesa di esserne il compimento, che apre alla totalità e vi si immerge con fede: solo quando non si riesce e si abbandona l’idea di voler tradurre totalmente nell’opera l’irriconoscibilità presente e concretissima, solo allora si è in una modalità del “conoscere” in senso biblico, vale a dire esperienziale e immersivo. Perché proprio in quella “debolezza” e in quella “impossibilità” della traduzione completa passa lo Spirito: “Però se ‘l caldo amor la chiara vista / de la prima virtù dispone e segna, / tutta la perfezion quivi s’acquista”. Ed è la saggezza, di cui si discute, una modalità altra del conoscere: immersiva, umile e intensamente corporea come “fu fatta la vergine pregna”. Ed è in fondo la stessa saggezza di Salomone che non chiede una conoscenza speculativa fine a se stessa ma, piuttosto, una conoscenza che diventi pratica ed esperienza da condividere con gli altri nell’esercizio della sua regalità: “non per sapere il numero in che enno / li motori di qua sù, o se necesse / con contingente mai necesse fenno; / non si est dare primum motum esse, / o se del mezzo cerchio far si puote / triangol sì ch’un retto non avesse”. Il pericolo, ancora, è quello idolatrico che rende schiavi delle proprie stesse conoscenze, della propria stessa idea di verità e di “forma”: “e poi l’affetto l’intelletto lega”.
La prudenza è quindi umiltà soprattutto dell’intelletto e della sua corsa ad anticipare e prevedere, a chiudere in sistemi veritativi ciò che per sua natura è creazione in atto e continua trascendenza nella materia: questa è la sicurezza di una mente staccata dal corpo e dalla carne, che si innalza sopra la propria finitezza invece di abitarla, che rifiuta la stessa incarnazione, come era accaduto anche in alcune eresie di tipo gnostico. La prudenza, invece, umilmente si attiene al corpo e ai sensi, senza tuttavia assolutizzarne intellettualisticamente i risultati: essa si abbassa per immergersi, e non cerca di tirare conclusioni che diventano chiusure alla libertà non solo dello Spirito ma anche dell’uomo: “Non sien le genti, ancor, troppo sicure / a giudicar, sì come quei che stima / le biade in campo pria che sien mature; / ch’i’ ho veduto tutto ‘l verno prima / lo prun mostrarsi rigido e feroce; / poscia portar la rosa in su la cima;”. Lasciarsi sorprendere: e questo accade solo nella totalità vivente del corpo, dell’azione e del sentire; non nelle pre-visioni e nelle ipostatizzazioni dell’intelletto e della mente.

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto XII) – di Andrea Ponso

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Giovanni Di Paolo, Canto XII, miniatura (The British Library)

di Andrea Ponso

CANTO XII

La seconda corona di beati che apre, con la sua presenza, questo canto, è segnata, anche dal punto di vista stilistico e grammaticale, da un movimento vertiginoso, concentrico, fatto d’archi che si rispondono creandosi l’un l’altro quasi incessantemente. Non sembra più esserci differenza tra apparizione e sparizione, tra moto e immobilità, tra dentro e fuori, tra nube e chiarore, tempesta e calma. Il principio di non contraddizione, se così possiamo chiamarlo, salta, per eccesso; e due immagini, apparentemente contraddittorie, lo attestano in un modo formidabile. La prima che Dante usa è quella profana della ninfa Eco che si strugge, disperdendosi, per amore di Narciso: “a guisa del parlar di quella vaga / ch’amor consunse come sol vapori”. Mentre la seconda si richiama alla tradizione biblica del nuovo patto stabilito da Dio con Noè e gli uomini dopo il diluvio attraverso l’arcobaleno. Un segno di relazione e di unione consistente, che unisce terra e cielo, nasce quasi dal suo opposto, cioè dall’evaporare e dallo scomparire lento e doloroso della parola di Eco: l’eco che si ripete disperdendosi fino al limite del silenzio qui si fa costruzione e relazione, disegnando e mostrando l’unione tra Dio, l’uomo e tutta la creazione. E da questa dispersione della voce e della parola, della relazione e della consistenza, nasce una parola nuova – “canto che tanto vince nostre muse” – e l’umile sicurezza della prima voce che si rivolge a Dante, quella di Bonaventura da Bagnoregio.
E le prime parole di Bonaventura sono in perfetta armonia con i movimenti e le immagini appena descritte, nel senso di una relazione e di una unione nella differenza volta alla medesima gloria: “Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca: / sì che, com’elli ad una militaro, / così la gloria loro insieme luca”. E da questa apparente debolezza e dissolvenza Bonaventura tesse lungamente l’elogio di Domenico e dei domenicani – ordine per certi aspetti duro e inflessibile, fin troppo concreto e violento, potremmo dire noi oggi, nella lotta contro gli eretici: questa potenza e questa quasi presagita violenza per difesa della fede, Dante la fa nascere da un eco che si dissolve e da un nuovo patto biblico segnato dalla bellezza e dalla dolcezza dell’arcobaleno, come abbiamo visto all’inizio, forse per ricordarci che ogni forza e ogni suo eccesso deve comunque fare i conti con il suo opposto – che opposto non è ma complementarietà.
E, infatti, è proprio l’altra parte di quell’orbita unica che, secondo Bonaventura, è stata in gran parte dimenticata, vale a dire l’esempio di Francesco e della sua povertà e pacificazione non violenta; e dimenticata in primis dai suoi: “Ma l’orbita che fé la parte somma / di sua circunferenza, è derelitta, / sì ch’è la muffa dov’era la gromma”. La lotta che Bonaventura descrive è quella tra Spirituali e Conventuali, che si contendono l’interpretazione della regola di Francesco (“ch’uno la fugge e altro la coarta”). Ma né l’una né l’altra di queste due vie sembrano essere quelle giuste.
E torniamo quindi, alla fine, allo stesso movimento iniziale che ha retto l’intero canto, quello in cui tutto è simbolicamente tenuto insieme in vista non tanto dell’imporsi di una parte sull’altra ma, piuttosto, della loro armonia profonda, pure nella dissonanza – una dissonanza che, in queste ultime parole di Bonaventura, è quella intestina all’ordine francescano; ma che risuona nella sua voce diventando eco armonico nel coro degli altri grandi spiriti che lo circondano, da Ugo di San Vittore a Giovanni Crisostomo, da Anselmo a Rabano Mauro … fino a quel Gioacchino da Fiore che, pure contraddittoriamente, mostra forse la trascendenza e la speranza insita anche nella situazione di lotta e di difficoltà, quasi come un augurio e una presa di coscienza, da parte dello stesso Dante, della speranza.

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Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto XI) – di Andrea Ponso

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Giovanni Di Paolo, Canto XI, miniatura da: Robana Picture Library, Londra (Foto: RPL-059302 © BL/Robana)

di Andrea Ponso

CANTO XI

Tommaso d’Aquino, il grande dottore della Chiesa, il costruttore della più imponente e sistematica cattedrale del sapere medievale; Tommaso, simbolo della potenza del pensiero e della sua infinita ricchezza, capace di indagare e costruire, di fondare e rispondere … il trionfo dell’indagine dell’uomo su tutto lo scibile. È lui che tesse le lodi della povertà e di Francesco. E, in questo lodare, come in ogni lode, la gioia e la riconoscenza non possono non agire e incidere a fondo anche chi loda, trasformandosi anche in spoliazione e povertà; in queste parole che Dante fa dire a Tommaso è come se l’intero lavoro dell’Aquinate si rigenerasse grazie alla povertà di Francesco, alla sua “ignoranza” e al suo farsi piccolo tra i piccoli e ultimo tra gli ultimi; la sua umiltà diventa letteralmente humus per lo stesso Tommaso e, soprattutto, per l’ordine domenicano; in questo humus, in questa umiltà che è donna, che è la sposa da tanti dimenticata e non più abbracciata, in questo grembo, anche la sapienza e l’intelletto si ripuliscono di ogni idolatria e di ogni pericolosa tendenza “sistematica”. Non c’è quindi solo il matrimonio tra Francesco e Povertà, in queste parole, ma anche quello tra Sapienza e Umiltà: e il cerchio dinamico e relazionale della trinità si chiude aprendosi alla creaturalità e alla sua semplicità misteriosa e laudata.
La stessa critica che, sempre nelle parole di Tommaso, riguarda l’attualità del suo stesso ordine, quello domenicano, ci riporta al vuoto e alla povertà ma, questa volta, in senso negativo, per eccesso di “dispersione”: una dispersione che è frutto di un accumulo vano, di beni materiali e anche di studi profani: “Ma ‘l suo pecuglio di nova vivanda / è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote / che per diversi salti non si spanda; / e quanto le sue pecore remote / e vagabunde più da esso vanno, / più tornano all’ovil di latte vòte”. È una fame e un accumulo che svuota, mentre la povertà abbracciata da Francesco riempie e porta alla grazia.
E un’altra spia ci indica la povertà esemplificata da Francesco di contro a quei domenicani che si disperdono nell’accumulare beni vani: non c’è praticamente nessun segno, nessun rimando all’attività del Francesco “scrittore” o “poeta”; le stesse parole, fattesi “letteratura”, pure nella loro grandezza e nella loro funzione di preghiera, sono implicitamente relativizzate e rese meno importanti dei gesti e delle azioni, della vita stessa dello sposo della Povertà. Anche questa lode sotterranea, quindi, fatta da un domenicano, non è mera esaltazione ma, piuttosto, una lode che critica proprio gli eccessi di chi, parlando in questo canto, rappresenta l’intero ordine. Tutto questo ci riporta a meglio comprendere i versi d’apertura: “O insensata cura de’ mortali, / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!”. “Voglio che siate senza cura”, come direbbe Paolo.

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto X) – di Andrea Ponso

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Giovanni Di Paolo, Canto X, miniatura del codice alla British Library, Londra (Fonte: Wikipedia)

di Andrea Ponso

Canto X

La simultaneità e l’immediatezza delle percezioni sono sottolineate fin da subito in questo canto: “… ma del salire / non m’accors’io, se non com’uom s’accorge, anzi ‘l primo pensier, del suo venire”. Ciò che così letteralmente accade è fuori dalla linearizzazione spazio-temporale e può essere ricostruito solo dopo – non potendo essere anticipato dalla mente: infatti è nel corpo e nei sensi che avviene questa anticipazione, questo sentire che solo a posteriori può trasformarsi in coscienza e pensiero, in scrittura e narrazione. Ancora una volta, quindi, quell’immediato che ci porterebbe a vedere il viaggio dantesco come il massimo dello “spirituale”, ci conduce invece all’immediatezza senza tempo del corpo e delle sue percezioni, dove si viene anticipati senza motivo e senza sapere, senza previsione e senza ricordo che non sia ricostruzione e mediazione: ed è così che, precisamente, agisce la grazia; ed è in questo modo che si è nella “materia” paradisiaca, “quella materia ond’io son fatto scriba”. Tanto addentro in questa materia che Dante non percepisce i “colori” ma solamente l’intensità dell’azione delle “anime” che sono nel cielo del Sole: “Quant’esser convenia da sé lucente / quel ch’era dentro al sol dov’io entra’mi, non per color, ma per lume parvente!”. Siamo sempre nella stessa dinamica ergo-emotiva che scavalca nella sua immediatezza la ricostruzione razionale e narrativa che verrà solo dopo – una mediazione, questa, che, tuttavia, è vera solo in quanto ci riporta all’immediato e ce lo fa esperire attraverso strategie testuali che, coerentemente, si muovono al di sopra e al di sotto della semplice visione razionale, come abbiamo mostrato nel canto precedente.
La “famiglia” dei beati di questo cielo, cioè dei sapienti, partecipa anch’essa di un’azione e di un movimento, più che di un insieme di concetti o di visioni intellettuali: essa, infatti, è coinvolta nella dinamica trinitaria, in quel motore di tutto che già all’inizio di questo canto ci veniva proposto (Guardando nel suo Figlio con l’Amore / che l’uno e l’altro etternalmente spira …”): “Tal era quivi la quarta famiglia / de l’alto Padre, che sempre la sazia, / mostrando come spira e come figlia”. Questo “mostrare”, ormai lo sappiamo bene, è sinestetico e partecipativo: i beati sono dentro a questa dinamica e ne godono, ne vedono lo “spirare”, il soffio e il respiro, il ritmo e il suo nascere e far nascere continuo: in poche parole, si scoprono creati e in relazione con esso, come lo è ogni creatura, anche se non ha la forza o l’umiltà di sentirlo. E sono dei “sapienti”, nel senso profondo del termine: sono finalmente capaci di gustare il sapore di questa azione creazionale che da sempre crea e tiene insieme ogni cosa. E Dante stesso vi si immerge misticamente, tanto da dimenticare la stessa Beatrice, la stessa guida teologica: “e sì tutto ‘l mio amore in lui si mise, / che Beatrice eclissò ne l’oblio”. Ma se Beatrice è anche immagine della teologia, questo “oblio” e questo “eclissarsi” di lei è in realtà la sua pienezza, il suo compimento – poiché la vera teologia è viva e piena proprio nel momento in cui sa dimenticare se stessa e le sue pretese per farsi esperienza viva e totale; e, infatti, “Non le dispiacque, ma sì se ne rise, / che lo splendor de li occhi suoi ridenti / mia mente unita in più cose divise”. E la “mente”, unita pericolosamente solo a Dio, felicemente e positivamente si “divide”, cioè torna a contemplare la vera totalità dell’azione divina, non fermandosi all’oggettivazione immobile di Dio: è un altro segno del movimento trinitario, che è tale solo in quanto mai si chiude in se stesso, ma rimane eternamente aperto alla relazione e alla creazione. Stare in Dio e dimenticare completamente la sua azione e creazione è una contraddizione in termini che non può avere luogo.
Il resto del canto, come spesso accade, altro non è che la didascalia di questa pratica d’ascolto e d’immedesimazione. I grandi spiriti che vengono visti da Dante con l’aiuto di Tommaso d’Aquino, altro non sono che punti ritmici dentro a questo movimento, partecipanti a questa danza e a questo canto. Ciò che il grande Tommaso richiama per nome, da Ugo di S. Vittore a Gregorio Magno, altro non è che musica e azione: note “non da ballo sciolte”. La Scolastica e tutta la riflessione logica del tempo è finalmente incarnata dentro al suo oggetto di ricerca e tutte le speculazioni teologiche si sciolgono in questa pratica in atto. Tommaso ne partecipa con gli altri, e così lo stesso Dante – ma il modello sembra ancora una volta essere quello mistagogico dove le parole esplicative vengono solo dopo il vissuto concreto di ciò che designano, come mediazioni che rimandano all’immediatezza di una teologia che è vita, preghiera e pratica. Quando Dante scrive, descrivendo l’impossibilità del dire ciò che vede e sta vivendo, “dal muto aspetti quindi le novelle”, ci sta forse indicando non l’ineffabile in assoluto, ma solo relativamente al linguaggio: il Mistero, infatti, è fare silenzio nel linguaggio, per uscire dal linguaggio, tramite il linguaggio, ed entrare nella pratica dell’azione e dei sensi, per iniziare finalmente ad essere quella “danza”.

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto IX) – di Andrea Ponso

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Paradiso, Canto IX. Dante e Beatrice con Cunizza (Fonte: Bodleian Library – University of Oxford ©)

di Andrea Ponso

CANTO IX

“Significare” senza i segni del linguaggio di parola o, meglio, sottolineando la stessa importanza di tutti gli altri linguaggi, agiti con la stessa potente e gloriosa intensità: ecco una della grandi scommesse del paradiso dantesco. Ed ecco: “ver’ me si fece, e ‘l suo voler piacermi / significava nel chiarir di fori”, ci dice Dante. E Dante lo “dice” e lo “significa”, è costretto, amorosamente, a farlo; eppure partecipa di questa pienezza in cui ogni forma di comunicazione, da quella verbale alla gestuale, da quella della luce e della musica fino alla lettura quasi telepatica dei pensieri, ci è data e mostrata – anzi, ci è data per parteciparvi, per entrarci dentro proprio attraverso un “significare” nuovo e antichissimo, quello della parola poetica. Tanto che, forse, per essere davvero nell’evento paradisiaco che Dante ci mostra, dovremmo immaginare la sua lingua come straniera e incomprensibile, così da non soffermarci troppo sui concetti e sull’immaginazione, per poter godere del suo movimento, della sua gestualità, dei grumi e degli strapiombi di luce imprendibile che, però, dal nostro orecchio e dalla nostra vista, si espandono in tutto il corpo com-muovendolo, facendolo vibrare e tremare, respirare nelle pause metriche e scivolare tra le rime e le assonanze. Dovremmo disimparare la nostra maestria linguistica, le nostre regole logico-grammaticali, proprio nel momento in cui le stiamo sperimentando nel segno e nella sua successione. Abbandonarci a questo continuum dove il corpo è il ponte principale verso il paradiso, sarebbe già essere in paradiso.
E c’è una storicità potente, che non va per niente persa, in questa modalità di lettura totale e quasi fisiologica che il paradiso ci chiede. Certo, conosciamo l’attualità delle vicende che Dante racconta, come in questo caso quella di Cunizza; ma forse riusciremmo a percepirne la midolla anche solo assecondandone il fluire dei significanti, come se, appunto, non conoscessimo “la lingua”. Prendiamo, ad esempio, due versi del discorso di Cunizza e ascoltiamone, oltre i significati, la storia e la sua narrazione: “ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro vulgo”. Il primo verso è un capolavoro perché ci fa suonare e partecipare nel senso e nella storia anche senza il significato, prima del significato: “ma lietamente a me medesma …” è già di una dolcezza e di un’accettazione musicale senza precedenti, proprio nei significanti e nel scivolare arreso eppure consapevole del ritmo; “indulgo”, un poco più duro nel suono, è come un breve lampo del dolore passato, messo a fine verso quasi ancora ci fosse un’ombra di esitazione che poi invece scivola via nel verso successivo, dove la -g- dura si scioglie in dolce, “cagion”, e torna il ritmato planare della -m- che ci aveva immersi nel verso precedente, insieme alla -s-, “la cagion di mia sorte …”; fino a quel “… non mi noia” dove la variazione in -n- un poco più dura viene stemperata da quel semplice “mi” e dalla sua posizione: “non mi noia” è, a livello fonico e ritmico, una sorta di lieve capogiro, un ritorno dei significati e della storia, che quindi non viene cancellata mai e “che parria forse forte al vostro vulgo”.
Dentro a questo movimento ritmico e musicale, in cui la storia s’incarna oltre ogni idolatria dei significati solamente, dove tutto è anche gesto e cenno, fisiologia gloriosa e abbandono, basta lasciarsi suonare dal suo incedere per vedere il futuro, per pre-vedere – ma sarebbe più esatto dire per pre-sentire – ciò che sta per accadere, come farà Cunizza, e come faranno e hanno fatto molti altri personaggi. È la profezia del ritmo e del significante. È davvero la lingua e il corpo di Dio in cui ci muoviamo e siamo: e lo dice, in fondo, anche Cunizza, quando ci ricorda che “Sù sono specchi, voi dicete Troni, / onde refulge a noi Dio giudicante; sì che questi parlar ne paion buoni”. Il giudizio di Dio è musicale e ritmico, è un vibrare continuo in lui, e se siamo in lui, nel suo canto senza fine, nel suo e nostro continuo tremore, che è gioia e timore in un’unica risonanza, siamo intonati e “buoni”, nonostante il giudizio possa essere duro. “Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia” dice Dante in questo canto, ma ormai sappiamo bene che non di sola vista si tratta e che tutto è sinestesia continua, tanto che l’ultima parola del verso, come accade spesso e si ripeterà pochi versi dopo (“s’io m’intuassi, come tu t’inmii”), è davvero un andare oltre il linguaggio, sfidandone proprio il “significare” per immergersi, con quel termine che, più che significato è slancio e gesto, in Lui.

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto VIII) – di Andrea Ponso

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Paradiso, Canto VIII. Dante parla con Carlo Martello (Fonte: Bodleian Library – University of Oxford ©)

di Andrea Ponso

CANTO VIII

“Io non m’accorsi del salire in ella” dice Dante parlando del cielo di Venere e dell’amore; l’io non si accorge se non nell’altro: “ma d’esservi entro mi fé assai fede / la donna mia ch’i’ vidi far più bella”. L’io come coscienza chiusa, come “monade” è incapace di seguire la salita, perché esso è “carne”, nel senso paolino, e non “corpo”: solo la sapienza fisica e sensibile del corpo glorioso è capace di quest’apertura finalmente piena che riesce a sentire nel sentire dell’altro, che depone la pretesa solipsistica a cui tende ogni “anima” per farsi toccare e guidare, sorprendere e com-muovere dall’altro.
E Dante quindi sale, anche se sappiamo che gli ordini spazio temporali che troviamo nel paradiso sono solamente funzioni dell’umiltà e della grazia ermeneutica e narrativa, che in realtà non hanno luogo quando ormai si è tutto in tutto, come promette l’evangelo di Cristo. E l’immagine che, attraverso Beatrice, Dante raggiunge, è apparentemente il massimo del disincarnato: “E come in fiamma favilla si vede, / e come in voce voce si discerne, / quand’una è ferma e altra va e riede, / vid’io in essa luce altre lucerne / muoversi in giro più e men correnti, / al modo, credo, di lor viste interne”. Ma questa immagine altro non è che il segno e l’agire del segno come azione e sentire: non sarebbe nemmeno immagine, se non in movimento; sono corpi e vite talmente libere da non cadere mai dentro alla rappresentazione, sono forze ergo-emotive e sinestetiche al di là della divisione tra soggetto e oggetto, come sempre in questa cantica; tanto che la loro stessa intensità intellettiva nei confronti della visione divina non è mostrata dal loro pensiero o dalle parole ma, propriamente, dalle modalità e dall’intensità delle loro azioni e movimenti. È pur sempre carne musicale, materia che vibra, agisce e suona, voce e canto propriamente polifonico: una sobria ebrietas, come direbbe Ambrogio, in cui la relazione musicale e ritmica ci porta nella communitas senza più immunitas – in quel massimo di apertura del corpo della vita che, tuttavia, non cancella la storia e le singolarità di chi vi partecipa, ma ne costruisce il senso e, più che il significato, la loro significatività – che è cosa ben diversa. E non dimentichiamo che, proprio qui, in questo canto, siamo nel cielo dell’amore, culmine di questa relazione e di questa forza.
E infatti ecco Carlo Martello – storia, carne e amore fatti musica in un intreccio che non è più grumo ma armonia – che prende la parola e non solo a suo nome, con quel “Noi” che, come vedremo, è in comunicazione anche con la storia di Dante sulla terra, e che mostra precisamente ciò che il poeta aveva anticipato nel suo sentire, vale a dire la modalità musicale del loro essere in azione e in unità, proprio come accade nella liturgia: “Indi si fece l’un più presso a noi / e solo incominciò: Tutti sem presti / al tuo piacer, perché di noi ti gioi. / Noi ci volgiam coi principi celesti / d’un giro e d’un girare e d’una sete, / ai quali tu del mondo già dicesti: / Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete; / e sem sì pien d’amor, che, per piacerti, / non fia men dolce un poco di quiete”. Canto fermo e polifonia, se così possiamo dire, diventano la stessa unità relazionale, singolare-plurale, tanto che lo stesso uscire dall’unico “giro” e dall’unica “sete”, per la forza d’amore che ne è il motore, “non fia men dolce”; e tanto che la stessa relazione singolare dell’uomo Dante con Carlo Martello si tinge dei colori fortissimi e insieme dolci dell’amicizia terrena e della consonanza poetica, che in cielo non viene certo dimenticata o cancellata a favore di un freddo impianto concettuale – quasi che questi movimenti del cielo d’amore diventino tutt’uno con quelli della retorica e dello stile, dello scrivere e del leggere, insomma, del fare poesia.
L’immagine, splendida, che riassume tutto quello che abbiamo detto fino a ora, e forse l’intera modalità relazionale di questa cantica, ci viene offerta dalla voce dell’anima protagonista: “La mia letizia mi ti tien celato / che mi raggia d’intorno e mi nasconde / quasi animal di sua seta fasciato”. Ritroviamo, insieme, il massimo della letizia e dell’amore nel suo protendersi verso l’altro e, nello stesso tempo, quel non vedere mai fino in fondo, quel rimaner celato che non è una difesa ma un eccesso di gioia e che, come tale, non può non espandersi all’altro – ma in una modalità che impedisce l’appropriazione e la delimitazione conoscitiva di tipo solo razionale. Raggiare e nascondimento: è il ri-velare, è il massimo di una presenza che non si riduce a qualcosa di diverso dal suo evento presente, al suo accadere inappropriabile ma, proprio per questo, pienamente vivibile come esperienza d’amore.
Come al solito, poi, la dissertazione dottrinale è una conseguenza dell’intensità dell’incontro con l’altro e il suo evento: è certamente importante, ma sembra non essere il punto incandescente da cui ogni parola nasce e procede. E questo punto è l’amore, e l’amore non ha altre origini se non queste, di tipo somatico, relazionale, d’azione e gesto, nell’incontro con l’altro.

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto VII) – di Andrea Ponso

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Paradiso, Canto VII. Dante ascolta Beatrice (Fonte: Bodleian Library – University of Oxford ©)

di Andrea Ponso

CANTO VII

Questo canto si apre con il dileguarsi musicale e sinestetico delle figure e del protagonista di quello precedente. Ma ciò che si “dilegua”, nella gloria del paradiso, aumenta la sua intensità e non la perde, in un “salire” continuo e incessante: ciò che, in qualche modo, viene meno, invece, è l’occhio che guarda e il corpo che vive tale evento; ma anche questo “meno” è un “più”. E questo testimone, che per essere tale deve farsi tutt’uno con ciò che accade – e quindi crescere diminuendo – , in questi momenti sembra non avere nessun altro modo per seguire tale abbaglio che dilegua salendo, e che diminuisce aumentando d’intensità, che non sia quello del ritmo e del significante.
Il poeta, insomma, entra in quella “danza” di “velocissime faville”, in quel campo di forze in cui il “velar di súbita distanza” è pienamente anche una rivelazione quasi somatica, una scossa che si sente fin nella lingua carnale, in quel “Io dubitava e dicea “Dille, dille!” / fra me, “dille” dicea, ‘a la mia donna / che mi diseta con le dolci stille”: in questi versi è evidente la presa significante dell’evento – l’entrare del soggetto nel suo campo di forze e di intensità – in quella ripetizione quasi imbambolata della d dura che si trasforma in inusitata dolcezza e smarrimento mistico. Tanto che lo stesso nome di Beatrice viene spezzato per eccesso d’intensità, quasi atomizzato da un’esplosione del suo nucleo che lo dissolve in pura potenza significante: “Ma quella reverenza che s’indonna, / di tutto me, pur per Be e per ice, / mi richinava come l’uom ch’assonna”; e ancora, anche qui, è la durezza dolcissima della stessa lettera d, del suo significante, che spinge oltre il linguaggio, costruendo nella lingua e insieme oltre, quello splendido neologismo proveniente dal latino “domina” e che, con “indonna” tiene insieme la potenza della sottomissione amorosa e la bellezza del femminile. E il nome di Beatrice si spezza, esplode di gioia in Dante – e magari quell’insistenza sulla d è anche il segno di una penetrazione dello stesso nome del protagonista nel ventre sonoro e carnale della sua guida e donna – tanto che l’assonna, portandolo quindi alla dimenticanza e all’immersione mistica.
Allora, forse, più che dalle spiegazioni teologiche che vengono dopo, già qui la mente è sciolta dai suoi lacci – “ma io ti solverò tosto la mente” dirà Beatrice – che non sono altro che dubbi e distanza dalla presenza dell’evento. Potremmo forse dire che tale successione, in cui prima avviene l’azione e la sua esperienza e poi la spiegazione, quel dubbio che Dante vive e sperimenta quasi come una sorta di continua iniziazione, ha qualcosa della tecnica mistagogica e liturgica nella “spiegazione” dei misteri. Tutto quello che viene dopo, quindi, vale a dire la problematica dell’incarnazione e della creazione come redenzione e la resurrezione della carne, sono solo riflessi di un’esperienza, residui certo necessari, ma che in realtà sono totalmente dentro ad un fare teologia che è propriamente mistagogia poetica. Forse può essere utile portare un esempio che viene dalla pratica patristica della lectio. Come ci dice Cassiano in un passaggio per certi aspetti davvero sconvolgente, l’immersione nella lectio continua porta non solo alla incessante metamorfosi kenotica dell’uomo, ma anche a quella del volto stesso delle Scritture:

«Ne segue che, per effetto di un tale studio e per il progresso della nostra mente, anche il volto delle Scritture comincerà a modificarsi e la bellezza di una comprensione più profonda in un certo senso progredirà con il progredire della mente. Gli aspetti delle Scritture, infatti, si adattano alla capacità dell’intelligenza umana, e così appariranno terreni a chi è vittima della carne, e divini agli uomini spirituali, in modo che coloro, ai quali in precedenza quel volto appariva involuto in una certa nebbia brumosa, non saranno certo in grado di intuirne la sottigliezza e neppure di sostenerne il fulgore» (Conlatio 14, 11).

La straordinarietà di questo passo sembra risiedere nel fatto che le stesse Scritture, in questa modalità partecipata e mistagogica, si “modificano”: e questo significa che non sono un oggetto di fronte ad un soggetto che pretende di conoscerlo in quanto oggetto. Ritroviamo quindi, ancora una volta, quella modalità immersiva tipica del rito e della mistagogia, che è una delle caratteristiche peculiari del sacro. In questo senso, potremmo dire che sono due le modalità opposte di approccio al testo: quella “carnale”, secondo la lezione di Paolo, non è infatti che l’impossibilità di uscire dalla distanza logica e mentale della dicotomia tra soggetto e oggetto; mentre quella “spirituale” è invece proprio la capacità di superare questo dualismo con il corpo. La “carne”, quindi, non è la totalità sensibile, storica, relazionale e immersiva in cui corpo e divino si incontrano: essa è invece il segno di una parzialità dualistica, di un riduzionismo incapace di vivere la totalità della vita in Cristo. Sempre Cassiano non smette di stupirci in questo senso quando scrive:

«Ognuno che, non solo possiede la semplicità dell’innocenza, ma, fortificatosi con la virtù della discrezione, è divenuto uno sterminatore di serpenti velenosi fino a tenersi il vinto Satana sotto i piedi, rappresenta la figura di un cervo razionale che, in virtù dell’alacrità della propria mente, può pascolare sui monti dei profeti e degli apostoli, nutrendosi dei loro sublimi insegnamenti. Egli poi, alimentato da un tale costante nutrimento, comincerà a raccogliere in sé tutti i sentimenti contenuti, per esempio, nei Salmi e li riesprimerà in modo da enunciarli, non come composti dal profeta, ma quasi come prodotti da lui stesso, come se fossero una preghiera tutta sua, nata dalla profonda compunzione del cuore. Crederà così che i salmi siano stati creati in vista della sua persona, fino a convincersi che le loro sentenze non furono formulate in passato unicamente e per mezzo del profeta e in vista del profeta, ma che esse vengano di volta in volta, ogni giorno, ricreate e realizzate in lui» (Conlatio 10, 11).

Qui è detto in un modo davvero preciso quale sia il risultato dell’applicarsi alla lectio continua: in poche parole, si tratta di diventare il proprio “oggetto” di studio e di preghiera, di scoprire in se stessi e nell’unità dell’evento l’accadere di quel campo di forze che il testo stesso evoca; così, non solo è superata la dicotomia soggetto e oggetto, ma diventa anche attivamente partecipata e incarnata la forza propriamente creativa di tale superamento. Ecco che, allora, salta anche il concetto di ermeneutica così come viene di solito inteso ai nostri giorni: non si tratta di “spiegare” il testo, di ricavarne leggi morali da applicare a se stessi e alla vita di tutti i giorni, e nemmeno di costruire una teologia di concetti o un’esegesi testuale. Il fine ultimo è infatti proprio quello di vivere ora, nel presente, l’azione del testo, incarnandolo radicalmente, scoprendosi in qualche modo creati dall’atto stesso della lectio: ut eorum sensus non textu lectionis, sed rientia praecedente penetremus (Conlatio 10, 11).

L’anticipazione della resurrezione della carne è già, in fondo, racchiusa e insieme aperta in questa pratica e in questo sentire ed esperire che la stessa Beatrice indica come “sepulto”: “Questo decreto, frate, sta sepulto / a li occhi di ciascuno il cui ingegno / ne la fiamma d’amor non è adulto”. Non sono versi che sbarrano la strada alla comprensione o, meglio, essi sono il segno di una iniziazione cristiana (luogo privilegiato proprio della mistagogia) che invita ad immergersi nella pratica del mistero, a seppellirsi in esso – vale a dire ad entrarvi e non a considerarlo come oggetto.

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto VI) – di Andrea Ponso

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Paradiso, Canto VI. Giustiniano, anime e Romeo (Fonte: Bodleian Library – University of Oxford ©)

di Andrea Ponso

CANTO VI

Ed ecco l’epico, e l’imperiale; la retorica altissima e ampia fino ai limiti sopportabili di un canto che, per intero, è dilatato all’inverosimile da un unico discorso, quello dell’imperatore Giustiniano e che, tra le altre cose, sembra quasi dimenticare le domande di Dante cadute in questo dal canto precedente. È il solo canto in cui il discorso unico del personaggio copre per intero il silenzio e la letizia con le sue indicazioni storiche, con la sua visione provvidenziale, con i colpi attualissimi sulle lotte interne e sulle guerre esterne; un canto per certi aspetti aberrante, anche per le accuse rivolte al popolo ebraico e la giustificazione della distruzione di Gerusalemme.
Eppure, in fondo, le dimensioni di tutto questo contrastano e stridono in “questa picciola stella” che è il cielo di Mercurio, il più piccolo fra i pianeti nella geografia teologica dantesca. E, certo, esso è il ricettacolo “de’ buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda”: buoni, sicuramente, secondo Dante, ma i cui “disiri”, “quando […] poggian quivi, / sí disvïando, pur convien che i raggi / del vero amore in sú poggin men vivi”. Ecco allora che la “correzione” di tale ricerca della fama, seppure non vista negativamente, viene ridimensionata non attraverso la negazione delle azioni e dei significati raccontati e incarnati nella storia, ma attraverso la forma, potremmo dire, e lo spazio geografico-simbolico. Questa “spaziatura” redime ma non cancella, abbraccia propriamente a volo d’uccello – l’aquila imperiale come “uccello di Dio” – liberando anche i grandi spiriti dai loro nomi di “Cesari” e dalle inevitabili dispute e contraddizioni del potere, trasformandoli in umili “baiuli” (facchini, insomma, o semplici portatori); un abbraccio che, in qualche modo, stringe e quasi soffoca, se guardiamo all’ampiezza e alla maestà storica che contiene, ma che in questo modo libera: “Cesare fui e son Iustinïano”.
E così, e solo così, da una prospettiva concreta e spaziale, e teologica ad un tempo,

Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote.

L’armonia e le “diverse voci” sono tali in quanto elidono parte della durezza e della spigolosità insita nella volontà dei nomi che, pur necessari nella prospettiva politica dantesca, coprono l’uomo nella sua finitezza: questo recupero del nome, al di là delle sue insegne politiche, è il recupero di qualcosa che esce puro e pieno d’amore dalla bocca materna, è il primo nome, a cui si torna, nell’armonia paradisiaca, addolciti. Non possiamo non ricordare, a tale riguardo, il cambiamento del nome dell’Apostolo: da Saulo, nome regale, a Paolo, nome che dice il “poco” e la finitezza, dove passa davvero la storia e la sua redenzione.
Storia e redenzione attraversano le nervature e la carne nei punti meno evidenti, anche quando si tratta dell’impero, soprattutto quando si tratta dell’impero e del potere: ed è in quel restringimento, in quelle vene, che si dilata la grazia e che l’universale visione del paradiso ci conduce in un movimento di diastole e sistole continuo; un unico discorso, di un unico personaggio, davvero a volo d’aquila, altissimo, ci porta nella strettura infinita dove lavora segretamente la grazia. Dante dilata i suoi sensi, affina il suo stile in grande stile, per arrivare a questo, per stare e diventare nel paradiso con un paradosso, come al solito, che non è fatto per nascondere il mistero ma per abitarlo davvero.
L’intero movimento epico si conclude dunque, coerentemente, con la presentazione di una figura quasi sconosciuta ai grandi regesti della storia come quel “Romeo”, Romieu de Villeneuve, che può, nella visione appena accennata, stare alla stessa altezza e nella stessa armonia di un imperatore. La sua figura coerente, “umile e peregrina”, di uomo colpito dalla storia e apparentemente nell’abbandono di quel peregrinare “povero e vetusto”, viene salvata e abbracciata proprio nella sua umiltà, nel suo essere paulos, come l’Apostolo:

e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe.

Ed è sempre l’unica voce dell’imperatore a lodare e a ricordare questo oscuro personaggio della storia in cui lo stesso Dante si può identificare, e anche noi lettori: in quel quasi niente che è sempre e in ogni momento il tutto kairologico e messianico dove la storia umana e quella della salvezza s’incontrano e s’illuminano di lampo in lampo, di presente in presente.

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto V) – di Andrea Ponso

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Paradiso, Canto V. Dante e Beatrice (Fonte: Bodleian Library – University of Oxford ©)

di Andrea Ponso

Canto V

Il quinto è il canto didascalico in gran parte dedicato alla modalità profonda dei voti religiosi; ma già al secondo verso siamo “di là dal modo” grazie alla potenza d’amore: di là dal modo, come dirà Giovanni della Croce. I voti religiosi sono messi in parallelo con il dono più grande fatto all’uomo, vale a dire il libero arbitrio: la rinuncia alla propria volontà, è quindi un sacrificio tra i più alti, perché esaltando il dono nel momento stesso in cui vi rinuncia, lo trasforma in relazione e abbandono; questa umiltà, pervasa di gioia e di fiducia senza pari, è la stessa che, in fondo, anche se con caratteristiche diverse, forse ritroviamo nell’atto conoscitivo stesso che Dante, e il lettore con lui, sta sperimentando per mezzo della grazia.
Ed è un rincorrere la luce, una luce che si fa sempre più forte e non solo, naturalmente, nel senso della vista, ma anche in tutti gli altri, portando ad un continuum che possiamo percepire nella tessitura di ritmo, significante e sintassi, proprio “sí com’ uom che suo parlar non spezza”, ora riferito a Beatrice ma che già Dante scopre in se stesso e nel suo essere: egli, come ogni altro uomo, è già tutto questo, è già questo continuum che deve diventare ciò che è – anche “s’altra cosa vostro amor seduce”. Certo, qui si parla dei voti religiosi, ma è già un parlare intero: un parlare di tutto a tutto, è già il divino escatologico che sarà (ed è già, e non ancora) “tutto in tutti” (1Cor 15, 28).
Questo parlare intero, che l’uomo è costretto a fare a pezzi – e cioè a renderlo oggetto per poter comprendere, rendendosi così egli stesso soggetto e, quindi, staccandosi dalla totalità mediante lo stesso atto che lo porterebbe a conoscere – è il culmine e la fonte di ogni cosa, anche delle stesse divisioni e della fatica e dell’umiltà di stare nella modalità spezzata, parziale, della conoscenza: anch’essa è “dentro” a questo parlare intero, anche la rappresentazione di oggetto, soggetto e conoscenza – pure se da sempre sono un’unico gesto di quel continuo che è la vita.
Beatrice, che in gran parte è il flusso stesso di questa indivisibile parola, di questo discorso che abbraccia indicando e indica abbracciando, chiede a Dante di fermarsi dentro: “Apri la mente a quel ch’io ti paleso / e fermalvi entro; ché non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso”: qui non si tratta semplicemente della memoria come di solito la immaginiamo; è qualcosa di più vivo e profondo: è un modello immersivo e vitale, in cui bisogna ricordare di essere, da sempre, per poter davvero avere esperienza di ciò che ac-cade senza ricadere nella contrapposizione e nella frammentazione. In questo senso, le metafore del pasto e della pastura, che tornano anche in questo canto, indicano una dinamica in cui il conoscere è qualcosa di fisico: è un lasciare che qualcosa entri dentro di noi, fino alla digestione, come accade nell’eucaristia e, nello stesso tempo, un lasciarsi immergere, come succede nel battesimo. Ed è questa apparente contrapposizione tra unità e parte che spinge avanti anche la vera conoscenza – anche se non c’è “avanti”, in realtà, e non c’è progressione o parte (e nemmeno l’unità come somma delle parti): è solamente un gioco a cui aderire con fede, un viaggio che porta dove già si è da sempre.
Bisogna entrare dunque in quel “silenzio” in cui già siamo da sempre, mettendo da parte il “cupido ingegno” e, nello stesso tempo, lasciandolo scorrere senza contrapposizione. Dice infatti Dante, descrivendo ancora una volta la sua guida: “Lo suo tacere e ‘l trasmutar sembiante / puoser silenzio al mio cupido ingegno”; ma “già nuove questioni avea davante”. Ecco la felice colpa, la buona contraddizione che favorisce il movimento verso l’alto e il profondare della conoscenza sempre più verso il suo presente immutabile e pre-categoriale: Dante è costretto amorosamente, umanamente e umilmente, a ricostruire le coordinate spazio-temporali e le modalità solite della conoscenza; è costretto ad avere “questioni” davanti a lui – “che già nuove questioni avea davante” – e cioè a ristabilire il dualismo tra soggetto, oggetto e atto del conoscere; ma si tratta forse solamente della pietà della scrittura, e dell’amore per la finitezza, lo stesso che sempre dimostrano tutte le anime che parlano con lui. E torna l’immagine bellissima della “pastura”, del cibo come conoscenza:

Come ‘n peschiera ch’ è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,

sí vid’ io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
“Ecco chi crescerà li nostri amori”.

Sarebbe uno stagno, una vasca d’acqua ferma, questo “splendore”? Si, ma ferma nella sua pienezza e, nonostante questo, guizzante e viva, disposta al salto, all’uscire dalla totalità, se mai fosse possibile, per donarsi all’umano bisogno di sapere ed esperire, come ci indicano i versi successivi.
Eppure, in fondo, non c’è un “fuori” dalla luce della pienezza, e l’irreale non è quello che vediamo ma la nostra “ignoranza”, che ci obbliga a non prendere davvero lucciole per lanterne: Dante ci invita a prenderle per lucciole, dimenticando il nostro bisogno di catalogare e distanziare, di porre un “dentro” e un “fuori”, di porre “lanterne” e pensiero, e tecnica al posto della naturale pienezza cangiante della semplicità. E ce lo mostra, come sempre, in un passaggio vertiginoso, che possiamo dire contraddittorio solamente se, appunto, rimaniamo nell’ignoranza delle nostre categorie classificatorie: un’anima esce dal gruppo per parlare – ma “esce” davvero?
In fondo è “come il sol che si cela elli stessi / per troppa luce …”, e “per piú letizia sí mi si nascose / dentro al suo raggio la figura santa”; e i due ultimi versi, inarrivabili, che tutto riassumono nella totalità che si comunica senza uscire, perché tutto è uno: “e così chiusa chiusa mi rispuose / nel modo che ‘l seguente canto canta”, dove l’insistenza alliterativa sulle c e sulle u paradossalmente, invece di chiudere apre al canto, e dove il solenne finale è canto e anche cadere ritmico – un cadere nella pienezza, un lasciarsi cadere che rischia il silenzio e l’attesa della risposta dell’imperatore Giustiniano nel canto successivo. Nella dinamica narrativa non è dato sapere se la voce continuerà: c’è questo stacco che è, ancora, preso comunque nel continuum ritmico della visione, che si deve seguire in quel “canto canta” che scende, per salire – che interrompe ancora una volta le coordinate spaziali per percepire, direbbero oggi i neuroscienziati, la pienezza olistica dell’esperienza mistica: pare infatti che sia proprio l’interruzione del bisogno continuo di organizzare lo spazio e di incasellare tutto in rapporti di causa-effetto una delle caratteristiche neuronali tipiche delle esperienze di profonda meditazione mistica; e questa interruzione non avverrebbe per difetto, ma per eccesso, in modo che propriamente il nostro cervello in qualche modo smette di cercare perché appagato e in pace. Non c’è “divertimento” in paradiso, non nel senso del di-vertere, perché è tutto nell’uno della presenza: lettore, narratore e atto conoscitivo insieme. E questa pienezza è gioia calma.