RELIGIO: I ferri del mestiere di Andrea Ponso, Mondadori, Milano 2011

(Già apparso su Quid culturae)

RELIGIO: I ferri del mestiere di Andrea Ponso, Mondadori, Milano 2011.

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Rileggere, legare, scegliere. Le tre possibilità etimologiche, che la tradizione ci lascia in eredità, del termine “religione” sembrano convogliarsi in sostanza morale nelle scelte tematiche dell’ultimo lavoro di Andrea Ponso.
Una rilettura del reale attraverso l’esegesi del testo che è l’esistenza: «Quella terra desolata, che agli occhi di ogni viandante appariva un deserto, sarà ricoltivata» (Ezechiele, 36,34), solo la consapevolezza in termini assoluti del senso della fine (ma anche nel tempo storico a noi vicino non si può certo eludere l’aspetto tragico e devastante delle azioni umane), guida un’operazione che non è fatta «per la crescita» (p. 7) del soggetto, quanto, piuttosto, per provare le capacità etiche dello stesso. Come nell’infanzia proviamo le nostre possibilità, scoprendo i nostri limiti, giunti al percorso di maturazione dobbiamo rimetterle in gioco per certificare «se mai siamo all’altezza della morte» (ancora nel testo introduttivo a p. 7). Etica che tenta un legame, che rimette in discussione valori primordiali, dunque, in primo luogo generativi:

Nuovi germogli, tra ruggine e chiodi,
divelti dalla precisione dura
degli arnesi. Questo mestiere brucia
con rabbia primavere, tenerezze,
rifugi. Ciò che spargi è cenere:

guardo ora il viso dolce di mia madre
seppellire quello assorto e immobile
di mio padre, senza cedere luce,
senza perderne tracce.

(p. 9)

Il rigore del verbo, la sua «precisione dura» si tiene in una costruzione per inarcamenti che, infatti, fungono da collegamento, le assonanze intrecciano parole che scandiscono il testo in un’alternanza di distruzione e rigenerazione: «dura», «brucia», «tenerezze», «cenere» quasi un paradosso mistico che parte dal senso del distacco provocato dal desiderio di appartenenza dell’essere specifico all’essere universale, secondo i dettami di un autore certamente studiato dal nostro: «l’uomo non deve essere niente in se stesso, assolutamente distaccato da se stesso: così non esiste separazione tra lui e tutte le cose, ed è tutte le cose» (Ecce mitto  angelum meum, in Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, tr, it. di M. Vannini, Adelphi, Milano, 20077, p. 231). Appaiono gli “arnesi”, i ferri del mestiere appunto, le protesi che permettono all’uomo l’azione. Distruttiva o costruttiva che sia quest’azione, resta un problema di soglie cui il poeta tenta di rispondere mettendo in campo i suoi stessi strumenti, scoperchiandone le possibilità ambivalenti. Considerare morte e vita come un unicum rappresenta la sfida di questa ricerca per cui le parole a volte cercano di essere «Come l’erba che germoglia dai sassi» (p. 12), cioè un’apparizione minima ma gorgogliante nella sua precarietà. L’apparizione botanica, che combatte per l’evidenza naturale della nascita pur nella consapevolezza dell’imminente fine (anche per questo la citazione iniziale dal fondatore della Scuola Zen Sōtō riflette sull’aspetto dell’azione e della sua conseguenza fisica), si trasforma, «la siepe s’infittisce, gemma / fiori azzurri, di un veleno che uccide, / strappa a morsi le braccia», si ristabilisce, nelle intenzioni di Ponso in modo violento questo è da notare di passaggio, il reale processo naturale delle cose. La permanenza del soggetto e la sua aderenza al mondo nascono proprio da queste considerazioni, a soccorrerci è ancora Eckhart: «uscire da se stessi non può mai essere tanto nobile quanto il permanere in se stessi» (Del distacco, in Meister Eckhart, Dell’uomo nobile, tr, it. di M. Vannini, Adelphi, Milano, 20084, p. 133). Questa congiunzione al mondo non avviene per mezzo di una disposizione mimetica ché, conosciuto il procedere delle cose, risulterebbe mera astrazione, una maschera d’attaccamento. Il misticismo di Ponso, invece, tenta di sostanziare la concretezza intrisa di vita e morte, l’ineluttabilità del reale anche nella sua natura selvatica. La direzione verso cui il soggetto, presente a se stesso proprio nel distacco, sembra muoversi è quella di un dialogo che può avvenire solo nella disposizione ricettiva della complessità, lontano dalla “facilità” espressiva di certa poesia contemporanea. In alcuni casi, però, la voce di Ponso (forse a causa del sacrificio compiuto da «chi ha studiato la via» e chiede all’altro il rigore di una disciplina) si irrigidisce, rischia il monologo e il gioco delle parole confonde più che illuminare:

Salva solamente la voce calcinata
e l’erba che non siamo mai del tutto.
Salvo solamente il bossolo mai
esploso, la rondine inconsapevole
che lieta vi si posa.

(p. 20)

I due aggettivi iniziali dei versi 1 e 3, così evidenziati, richiamando all’integrità (salvezza, salute) rischiano di scadere nell’ammonimento moralistico, sermone o predica che sia (l’impostazione anaforica con quell’avverbio di quantità quasi assordante confermano quest’impressione), in cadenze imperative che infastidiscono, così come nel testo successivo (sempre a p. 20), l’attacco «È solo che perdono tutto e tutti» svia dalla vicenda creaturale che si svolge successivamente negli «occhi dolci un poco arrugginiti / della cincia nascosta nella siepe». Questo gioco a nascondere porta con sé, comunque, una riflessione profonda sul bene e sul male, sull’etica di un linguaggio, nel nostro caso quello poetico, che, seguendo Ponso, resta in bilico nella sua stessa ambiguità: «lì, dove vorresti piantare semi / di fuoco e tempesta col tuo lavoro. / Ma sfoltire le rive significa / morire. E si rimane con la fame / che decima la dentatura: così / l’organismo, dalla sua notte buia, / si nutre di se stesso» (p. 21). La chiusura di quest’ultimo esempio sembra arrendersi all’evidenza di un solipsismo ineluttabile, in un’esposizione, però, banale che scivola distante dalla veracità ricercata (probabilmente il predicatore, per suo statuto, parlando da una solitudine autoimposta cede al senso di colpa ed ecco che «l’organismo, dalla sua notte buia, / si nutre di se stesso»).
Le apparizioni di angeli, sulla via ambivalente che la raccolta nel suo percorso traccia, paiono annunciare un nuovo spostamento antropologico: «Ci muoviamo tra le sedie, il tavolo, / con la precisione di angeli muti / che per la prima volta abbiano visto / il proprio viso e il proprio corpo vivo» (p. 23). Nonostante queste brevi epifanie, si perpetua il movimento oscillatorio, la nuova caduta nella bassa istintualità è leggibile a p. 25: «Mi vedi vivo così, / come il cane con in bocca la fine, / senza rimorsi; e dentro alle siepi / le labbra schiuse dei morti: cocci / sparsi sotto la crosta dei campi». Quest’ambiguità concettuale, che nasce, lo abbiamo visto, dall’esigenza da parte del soggetto di abbracciare il reale, così evidente a livello macro-testuale (anche all’interno di uno stesso componimento, però, ci è stato possibile individuarne la presenza), si trasforma, sul piano stilistico in un’elaborazione complessa, certo, ma estenuante per non dire ingarbugliata. Provo a spiegare con un esempio: il poeta stesso ci dice il suo desiderio di essere letto «come / Ezechiele: profetizza alle ossa. / Niente sia risparmiato» (p. 28), in questo passo l’inversione ossimorica, il contrasto logico espresso dagli enunciati (infatti, Ezechiele, sappiamo dalla Bibbia, profetizza alle ossa perché alle stesse il Signore risuscita carne e spirito, cioè ridona la vita, ma il proverbiale «niente sia risparmiato» sembra opposto a questo senso) presuppone un gioco di velamento e svelamento stucchevole. L’incertezza, evidenziata sul piano concettuale, si dirama nel componimento successivo, ripresentandosi in questi versi iniziali: «Questa ruvida premura di padre / che sento sulle mani che non / vogliono generare» (ancora p. 28). Proprio nel punto della raccolta, la fine, in cui ci si aspetta uno slancio definitivo dopo il lungo peregrinare del soggetto nella selva delle parole e dei concetti, l’operazione di Ponso sembra disorientarsi ulteriormente, fino a scadere nell’ammiccamento maligno dell’ultimissimo testo, in cui, i clichés dello scriba (termine che si porta appresso un nugolo di ambivalenze e tra i significati del quale si nasconde l’ombra dello scrittorucolo) e quello dell’orto di scrittura dal retrogusto benedettino, impattano l’ultimo auto-ammonimento di chi vuole aderire alla propria scrittura, al proprio sé e allo stesso tempo cercare il mondo, non uscendo dall’impasse relazionale:

Si apre la stanza: ecco la sedia,
la giacca di lino e l’incendio. Brave
persone, state lì a sentire, parlate
piano, che con le dita lo scriba ora
ravviva i filari bagnati dell’orto,
ne sente il fresco, s’identifica
piano alle potature.

(p. 31)

Gianluca D’Andrea
(Gennaio 2014).

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