Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto IX) – di Andrea Ponso

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Paradiso, Canto IX. Dante e Beatrice con Cunizza (Fonte: Bodleian Library – University of Oxford ©)

di Andrea Ponso

CANTO IX

“Significare” senza i segni del linguaggio di parola o, meglio, sottolineando la stessa importanza di tutti gli altri linguaggi, agiti con la stessa potente e gloriosa intensità: ecco una della grandi scommesse del paradiso dantesco. Ed ecco: “ver’ me si fece, e ‘l suo voler piacermi / significava nel chiarir di fori”, ci dice Dante. E Dante lo “dice” e lo “significa”, è costretto, amorosamente, a farlo; eppure partecipa di questa pienezza in cui ogni forma di comunicazione, da quella verbale alla gestuale, da quella della luce e della musica fino alla lettura quasi telepatica dei pensieri, ci è data e mostrata – anzi, ci è data per parteciparvi, per entrarci dentro proprio attraverso un “significare” nuovo e antichissimo, quello della parola poetica. Tanto che, forse, per essere davvero nell’evento paradisiaco che Dante ci mostra, dovremmo immaginare la sua lingua come straniera e incomprensibile, così da non soffermarci troppo sui concetti e sull’immaginazione, per poter godere del suo movimento, della sua gestualità, dei grumi e degli strapiombi di luce imprendibile che, però, dal nostro orecchio e dalla nostra vista, si espandono in tutto il corpo com-muovendolo, facendolo vibrare e tremare, respirare nelle pause metriche e scivolare tra le rime e le assonanze. Dovremmo disimparare la nostra maestria linguistica, le nostre regole logico-grammaticali, proprio nel momento in cui le stiamo sperimentando nel segno e nella sua successione. Abbandonarci a questo continuum dove il corpo è il ponte principale verso il paradiso, sarebbe già essere in paradiso.
E c’è una storicità potente, che non va per niente persa, in questa modalità di lettura totale e quasi fisiologica che il paradiso ci chiede. Certo, conosciamo l’attualità delle vicende che Dante racconta, come in questo caso quella di Cunizza; ma forse riusciremmo a percepirne la midolla anche solo assecondandone il fluire dei significanti, come se, appunto, non conoscessimo “la lingua”. Prendiamo, ad esempio, due versi del discorso di Cunizza e ascoltiamone, oltre i significati, la storia e la sua narrazione: “ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro vulgo”. Il primo verso è un capolavoro perché ci fa suonare e partecipare nel senso e nella storia anche senza il significato, prima del significato: “ma lietamente a me medesma …” è già di una dolcezza e di un’accettazione musicale senza precedenti, proprio nei significanti e nel scivolare arreso eppure consapevole del ritmo; “indulgo”, un poco più duro nel suono, è come un breve lampo del dolore passato, messo a fine verso quasi ancora ci fosse un’ombra di esitazione che poi invece scivola via nel verso successivo, dove la -g- dura si scioglie in dolce, “cagion”, e torna il ritmato planare della -m- che ci aveva immersi nel verso precedente, insieme alla -s-, “la cagion di mia sorte …”; fino a quel “… non mi noia” dove la variazione in -n- un poco più dura viene stemperata da quel semplice “mi” e dalla sua posizione: “non mi noia” è, a livello fonico e ritmico, una sorta di lieve capogiro, un ritorno dei significati e della storia, che quindi non viene cancellata mai e “che parria forse forte al vostro vulgo”.
Dentro a questo movimento ritmico e musicale, in cui la storia s’incarna oltre ogni idolatria dei significati solamente, dove tutto è anche gesto e cenno, fisiologia gloriosa e abbandono, basta lasciarsi suonare dal suo incedere per vedere il futuro, per pre-vedere – ma sarebbe più esatto dire per pre-sentire – ciò che sta per accadere, come farà Cunizza, e come faranno e hanno fatto molti altri personaggi. È la profezia del ritmo e del significante. È davvero la lingua e il corpo di Dio in cui ci muoviamo e siamo: e lo dice, in fondo, anche Cunizza, quando ci ricorda che “Sù sono specchi, voi dicete Troni, / onde refulge a noi Dio giudicante; sì che questi parlar ne paion buoni”. Il giudizio di Dio è musicale e ritmico, è un vibrare continuo in lui, e se siamo in lui, nel suo canto senza fine, nel suo e nostro continuo tremore, che è gioia e timore in un’unica risonanza, siamo intonati e “buoni”, nonostante il giudizio possa essere duro. “Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia” dice Dante in questo canto, ma ormai sappiamo bene che non di sola vista si tratta e che tutto è sinestesia continua, tanto che l’ultima parola del verso, come accade spesso e si ripeterà pochi versi dopo (“s’io m’intuassi, come tu t’inmii”), è davvero un andare oltre il linguaggio, sfidandone proprio il “significare” per immergersi, con quel termine che, più che significato è slancio e gesto, in Lui.