Pieter Bruegel il Vecchio, Cacciatori nella neve (1565)
di Gianluca D’Andrea
La sospensione non va ridotta a mero livellamento. L’irriconoscibilità dell’altro dipende dalla mancanza di attrito dovuto all’assenza di presenza. Per non rischiare di sprofondare nell’ombra – nel riflesso e nel “senza mondo” – il soggetto ha bisogno di segnali, segni evidenti, eccessivi, di una comunicazione che riempia la distanza. Purtroppo, ormai, occorre ripartire da un sentimentalismo derivante da un ritorno ingombrante di emotività. Nell’epoca dell’isolamento è già forte l’impulso alla relazione, ma il raggiungimento dell’altro è reso ancora più complicato dal diradarsi della presenza.
Il sentimentalismo spicciolo espresso dalla rapidità della comunicazione, si evidenzia in una simbologia che, nella sua banalità, sta però rendendo più complessa la sua struttura, aggiungendo sfumature derivanti da una gestualità inghiottita dagli schermi. Per non parlare dell’immagine – foto o video che sia – tesa a divenire la sostituzione rappresentativa di un percorso che la verbalizzazione aveva reso possibile. La storia oggi è espressa per immagini da individui che ne parcellizzano il senso, centralizzando nel momento che è avvertito come necessario (e desiderante) barlumi della propria esperienza. Il tutto è ricondotto alla dimensione della traccia, degli indizi che, chissà, un giorno potrebbero essere rielaborati da computatori ancora più raffinati degli attuali, per dare a un eventuale ente del futuro (?) un quadro della vita antropomorfa nel momento che precede la sua scomparsa.
L’apertura di senso può scaturire dall’insignificanza di questi indizi, o forse nella liberazione dal senso che il soggetto impone alla propria esistenza, alla sua necessità di “essere” a tutti i costi in un periodo in cui a essere è solo un insieme di frammenti per immagini.
Non penso sia ripristinabile una relazione “erotica” col mondo così come eravamo (alcuni, ultimi di una generazione) abituati a concepirla fino a qualche decennio fa. Siamo solo in attesa della catastrofe successiva, o meglio del disastro. Dis-astrum, come avviene in Melancholia di Lars von Trier (2011) e come si può leggere nell’analisi che di questo film ci presenta Byung-Chul Han (cfr. Eros in agonia, 2013, pp. 5-17) e a cui questa lettura è dedicata.
«La memoria è un processo dinamico, vivente, nel quale interferiscono e si influenzano diversi piani temporali».
(Byung-Chul Han)
Nella stessa pagina da cui proviene la citazione in epigrafe possiamo leggere una riflessione di Freud (da Le origini della psicanalisi) che tanto dice sul nostro modo di ricordare: «il materiale presente sotto forma di tracce mnemoniche è di tanto in tanto sottoposto a una nuova sistemazione in accordo con gli avvenimenti recenti, così come si riscrive un lavoro. Ciò che è essenzialmente nuovo nella mia teoria è la tesi che la memoria non sia presente in forma univoca ma molteplice e che venga codificata in diverse specie di segni».
E subito dopo ancora Byung-Chul Han: «Così, non esiste il passato […]. La memoria digitale consiste di punti-di-presente indifferenziati, per così dire morti viventi: le manca ogni orizzonte temporale esteso, che caratterizza invece la temporalità del vivente. La vita digitalizzata perde, così, vitalità: la temporalità del digitale è quella dei morti viventi».
Ecco perché la poesia ha il compito di forzare la speranza e, di conseguenza, raggiungere il tempo.
L’eterno presente su cui si fondano le pratiche “social” e che riduce l’espressione a un istante frammentario che, una volta reso “pubblico”, è già destinato alla scomparsa, nonostante la sua “sicura” archiviazione in un cosmo di dati. Si ha la sensazione di vivere su un atollo alla deriva. Il tempo collegato al ricordo, è evidente, è il risultato di uno sforzo riordinatore. Non si tratta di ricomporre una “linearità” del racconto, ma di reintrodurre a una narrazione cospirando con il ritorno, con un respiro sempre originato dal tempo. Ecco, narrazione attraverso la memoria e respiro del presente possono riattivare un trasporto verso il futuro, una dimensione prospettica che si rivolge alla speranza di una nuova vitalità, che allontani la morte nel dato oggettivo, il suo contatto sempre più pressante perché sempre meno avvertito.
Carteggio XXXVIe LETTURA (21): LA NON-CASA – una risposta a Vito Bonito e alla sua lettura di Transito all’ombra
Il 3 gennaio 2017 Vito Bonito mi ha inviato tre foto in cui sono “registrate” le sue parole scritte “a penna” su Transito all’ombra. Quale miglior auspicio per “ricomporre” un carteggio – l’ultimo risale a luglio 2016 [qui] e parla ancora di ritorni, case, dimore e può collegarsi a quello che Cecilia Bello Minciacchi dice a proposito del “dimorare” che interessa tanto a Vito e che emerge nella sua ultima raccolta, Soffiati via, Il Ponte del Sale, Rovigo, 2015: “«nessuna dimora nessuna» (p. 66), verso ancora più asfittico, chiuso com’è nella negazione reiterata che toglie ogni speranza di rinvio o di proroga: questo significa, «con Derrida, la parola enigmatica dimora, che riconduce al latino demorari (de e morari) e a quel senso di attesa e di ritardo che si porta dentro»” (C. Bello Minciacchi, Campioni # 11. Vito M. Bonito, in Doppiozero, 07 settembre 2015).
A me non resta, allora, che continuare a riflettere sulla “NON-CASA”, riflessione che forse lega i miei pensieri a quelli di Vito, come mi è già capitato di fare in Carteggio XIX: Heimat – Stimmung (10 settembre 2014): Un “transito” che è anche un “soffio”, insomma, che può condurci alla fine di una presenza e, chissà, a un nuovo riconoscimento.
Una LETTURA, la mia, che parla di una ripetizione, ma prima ecco le foto-parole di Vito Bonito:
LETTURA (21): LA NON-CASA di Gianluca D’Andrea
«colui che ‘immagina’ ora diventa propriamente colui che ‘registra’, poiché, per rimanere all’altezza di se stesso, cerca di tenere il passo di ciò che ha fatto e dell’incalcolabile potere che egli ha acquisito attraverso il suo fare, potere che però lo sovrasta».
(Günther Anders)
Il potere di essere liberi di fare ci rende schiavi di questo stesso potere. Il pensiero di Anders è ripreso nel 2014 da Byung-Chul Han per il quale il potere, il poter fare, non ha limiti e paradossalmente ci costringe a fare, trasformandoci in “figuranti”, soggetti sottomessi alle dinamiche di un “potere” più strutturale di altri poteri, perché intimo, scelto (vedi Byung-Chul Han, Psicopolitica, 2016).
«Passano le figure, inseguono gli eventi» (Acquario, in Transito all’ombra, p. 47) e non trovano requie, non trovano una dimora; nel “vuoto”, eppure, risiede qualcosa, un’angoscia. Un po’ come in Heidegger, più che “fuori-da-casa”, però, l’essere è immerso in una “non-casa” che individua la nostra distanza dal contesto proprio nella nostra presenza in continuo transito, qualcosa che ci soffoca proprio quando più ampie ci sembrano le prospettive. La libertà che ci costringe a re-inventare lo spazio svuotato da responsabilità, se non le nostre: questo è un terror panico provocato, però, dalla libertà manipolatoria dell’homo technologicus che sente il peso del potere (dovere di tracciare un percorso senza fondamenti, senza una mappatura già acquisita che possa indirizzarlo. Ecco, il nostro essere senza indirizzo ci limita a una continua trasformazione («di trasporto, di trasposizione o di trasmutazione», dice Nancy in L’equivalenza delle catastrofi (dopo Fukushima), Mimesis, 2016, p. 45) con cui dobbiamo fare i conti senza possibilità di ristabilire una tregua col mondo, perché immersi, anzi compartecipi e sempre più spesso protagonisti, della sua metamorfosi.
Forse uno degli sforzi più plausibili, in questi tempi trapassati (come sempre d’altronde, è caduto anche il confine tra finito e infinito) è quello del ricordo, perché possa riverificarsi una nuova narrazione, ma anche la memoria è a rischio perché è implicita una volontà, una scelta, nel selezionare i ricordi. Forse è il momento di correre questo rischio:
«senza memoria d’immagine,
noi lontani da sempre
pronti ad abbandonare la non-casa
la certezza di affacciarsi
in altre distanze, non nostalgia
di un luogo che è lo stesso,
sempre un altro».
Le ombre lasciate dalla detonazione della bomba atomica. Museo della bomba atomica, Nagasaki (Fonte: Cultuframe)
di Gianluca D’Andrea
«Un sapere che gode e un piacere che conosce».
(Giorgio Agamben)
Ma questo è ancora ciò che chiamiamo relazione. Agamben nel 1979 s’interrogava sul capovolgimento del senso, proprio nell’epoca in cui il senso si stava annientando di là da ogni catastrofe.
La tarda Guerra Fredda stava perfezionando le strategie del terrore dopo un primo excursus ai confini ultimi dell’apocalisse. Dopo la fine della “strategia del terrore”, con la caduta delle ideologie e delle politiche comuniste, lo stesso “terrore” si è trasformato in capacità di acquisire prestigio da parte delle nazioni. Una reputazione internazionale intesa come potenza di determinare gli equilibri politici globali:
«L’arma atomica ha generato per la sua potenza una strategia di deterrenza a volte invocata come una nuova condizione di pace, spesso chiamata “l’equilibrio del terrore”. Come sappiamo, questo stesso equilibrio suscita il desiderio di possedere l’arma nucleare per diventare a propria volta un agente di tale equilibrio, sarebbe a dire, una minaccia di terrore. Da questo terrore, sia detto di passaggio, ci si potrebbe domandare, che legami non percepiti esso intrattenga con quello che chiamiamo “terrorismo”, il quale ha d’altronde preceduto l’arma nucleare. In generale si può dire che il terrore designi un’assenza o un oltrepassamento del rapporto: esso si esercita, solo, non dà inizio ad alcuna relazione»
[Jean-Luc Nancy, L’equivalenza delle catastrofi (dopo Fukushima), Mimesis, 2016, p. 41]
«L’atomo sterminava la paura / del collasso, la parola scissione…» (Transito all’ombra, p. 13), ecco, nel 1979 si ragionava sul concetto di “scissione”, sul senso spezzato, oggi siamo consapevoli dell’assenza di senso, perché la caduta è già avvenuta e non ha portato nessuna rivelazione: «captavamo i messaggi apocalittici / ma mai come segni d’appartenenza, / semmai come un ricordo già avvenuto» (Ivi, pp. 17-18), cioè come qualcosa di postumo, perché ad attenderci non è un futuro, ma un presente-futuro senza rapporto dialettico e quindi senza scissione: «Dall’azione alla reazione, non vi è alcun rapporto o relazione: c’è connessione, concordanza o discordanza, andata-e-ritorno, ma non rapporto se ciò che chiamiamo rapporto ha sempre a che fare con l’incommensurabile, con ciò che rende assolutamente non equivalenti l’uno e l’altro del rapporto» [J. L. Nancy, L’equivalenza delle catastrofi (dopo Fukushima), cit., p. 44].
Ma noi viviamo il mondo dell’equivalenza e della sostituibilità degli affetti, ecco perché il sentimento, seguendo Byung-Chul Han (Psicopolitica, nottetempo, 2016, p. 52), è una «parola rovinata» (Transito all’ombra, p. 55) e senza possibilità di narrazione, se non nella finzione («ma il racconto, qui, finge la sua apocalissi», Transito all’ombra, p. 81) che si augura di riformulare un contatto, non un senso. Eppure se ancora si vuole restare nell’ambito della percezione, occorre riconsiderare il sentire come il presupposto da cui partire per cogliere e formulare: nuove forme, immagini, immaginazione.
Foto tratte da: Byung-Chul Han, Nello sciame – Visione del digitale, nottetempo, Roma, 2015 e Valeria Pinto, Trasparenza. Una tirannia della luce, su Le parole e le cose (13 luglio 2015).
LA SOGLIA CORTESE DEL RICORDO
(su Jucci di Franco Buffoni)
«Soglie e attraversamenti sono zone del segreto, dell’incertezza, della trasformazione, della morte, della paura, ma anche della nostalgia, della speranza e dell’attesa».
Byung-Chul Han
A una prima lettura Jucci può sembrare un libro “chiaro”, “facile”, solo il semplice omaggio alla persona che, nella vita di Franco Buffoni, ha significato la maturazione di scelte decisive; alla guida “ri-formatrice” della consapevolezza del sé sviluppatasi dalla relazione intima e dal contatto profondo. Jucci è anche questo – perché espone la presenza reale di un attraversamento durato dieci anni, incistato, da quel periodo, in tutta l’esperienza esistenziale del poeta – ma soprattutto arriva per presentarci la “velatezza” e il pudore, in sostanza il mistero simbolico che la parola ri-crea dentro le potenzialità stesse del dire, nelle fibre più intime della sua tradizione – e quasi missione – segnaletica.
Di più, Jucci è il libro dell’eros che si svela ma non si mostra nella trasparenza oscena del corpo della parola (ogni termine non termina, ma rimanda ad altro e, dentro la “società della trasparenza”, trovare un artefatto che riesca a riprovocare l’eccitazione della seduzione, attraverso il “nascondimento” della propria materia nell’immaginazione, è traguardo della lingua e rilancio per le generazioni a venire sul senso stesso della nominazione).
Siamo dentro un percorso che si riattiva di continuo attraverso il canale della memoria, accende il sé e imprime ad esso un impulso talmente accecante da sfiorarne la trasfigurazione (o, forse, riesce a colpirlo nella trasposizione o interiorizzazione dell’altro, perché “Jucci”, personaggio del libro, rivive attraverso Buffoni che ne reinventa il linguaggio).
Il tragitto ascetico e trasfigurante della parola ha echi stilnovistici e forse, si potrebbe aggiungere, risolleva la tensione del Contrasto, ancora di matrice medievale (chi può, infatti, negare la dimensione critica del nostro tempo incerto?), fino a definirla nella fusione delle due voci, per cui l’ultima sezione, Come un eternit – termine che evoca ondulazioni cancerogene e intrusive -, è teatro dialogante che dimostra, nella “finzione”, l’inevitabilità dell’invasione dell’altro, la sua scoperta dentro il sé.
Si tratta di una scoperta che non possiede lo stigma della gentilezza, se per “gentile” si allude all’origine “gentilizia” dell’etica, alla bontà di stirpe di una genesi, quella umana, che fu tutt’altro che gentile, quanto piuttosto “cortese”, di vicinanza a “buone maniere” che possono essere trasgredite perché pura apparenza o costrizione sociale. Jucci è, a ragion veduta, il libro erotico che “trasgredisce” le “norme” della sessualità “sociale”, conducendoci ai primordi del desiderio e del trasporto che, normalmente, sono asessuati.
Trasgressione e trasporto: in questa raccolta Buffoni scopre e comunica, senza alcun indugio, il pudore della nudità dell’essere e l’ingenuità nativa della presenza, senza tensioni “sovraespositive” dell’io o narcisismi, anzi, nella totale umiltà della “riconoscenza” dell’altro che ha contribuito alla formazione stessa del poeta e, in un senso non solo figurato, alla sua salvazione.
Le sezioni della raccolta sono tappe di questo incontro/scontro relazionale che si svolge, dalle prime frammentarie situazioni (convogliate nei primi tre capitoli del particolare Bildungsroman che Jucci è: I. Dietro il muretto; II. Solo licheni e tundra; III. I rifugi segnati) – e che rappresentano, nella dinamica dialettica della trama dello stesso, la pars costruens dell’incontro e della scoperta – alla seconda parte incentrata sulla malattia della coprotagonista/antagonista e che simboleggia la distruzione delle certezze acquisite che si scontrano con l’evidenza del male. Forse per questo, la malattia di “Jucci” diviene metonimia assoluta, cioè trasposizione che raggiunge definitivamente il σύμβολον, il riconoscimento effettivo di una totalità che è ancora speranza nella trasfigurazione e commistione: dei soggetti, dell’identità sessuale, della relazione, della parola – il tutto dispiegato, infine, nella sintesi ondulatoria, nel movimento onnipervasivo di attrazione-repulsione in cui è inquadrabile l’ultimo, rivelatorio, capitolo (Come un eternit).
Libro calibrato eppure pulsionale, Jucci è opera del nostro tempo, capace di realizzare il cortocircuito, per cui la poesia ha ancora motivo di resistere, tra ricordo, allusione evocativa e riflessione sulla caducità dell’essente, e ci riesce proprio oggi che «la memoria si positivizza in un ammasso di rifiuti e di dati, in una “bottega di rigattiere”, ossia in un “deposito pieno fino all’orlo di tutte le immagini possibili, completamente disordinate, mal conservate e di simboli logorati”» (P. Virilio, Information und Apokalypse. Die Strategie der Täuschung, übers. Von B. Wilczek, Hanser, München-Wien, 2000, p. 39, cit. in Byung-Chul Han, La società della trasparenza, nottetempo, Roma, 2014, p. 57), offrendo, ancora una volta, la possibilità alla parola di “fare luce oscurando” il senso dell’esistere, la sua reale eppure “romantica” necessità.
TESTI
Da: I. Dietro un muretto
Cioccolata con panna
Venivo dall’inverno dei vent’anni Le domeniche pomeriggio l’odore Di cioccolata con panna Nelle salette dei bar…
Giochi di bimbi sciocchi Senza una precisione coi movimenti brevi Messi per un rumore Verso la fine lenta Lenta per un motivo: Dalla risata fatua Il segno preso in giro.
I giochi di appartenenza alla razza degli uguali, L’astuto dramma della mia Censura personale, Viaggiatore assoluto con notizia Dal fianco cespuglio, calciatore accosciato Aria di Murge. E storie percosse congiuntivi A seguire il fore ut, canali senza appigli Punture nel torace, tenaglie Al museo delle torture.
Da: II. Solo licheni e tundra
Solo licheni e tundra
Tu, intervenisti lì All’imbocco della valletta Dove ad un tratto muta la vegetazione: Solo licheni e tundra Per qualche ettaro, Forse la lingua di ghiaccio profonda Che formò il lago Lì sotto non si è sciolta, Resiste tra i detriti coi resti dei mammut. Forse il tempo tiene lì la poesia.
*
Verso la sorgente
Davvero il senso di scorrimento Delle acque sotterranee Lo indovini dalle strisce Di verde più fitto A ritroso verso la sorgente. Me lo ripeto adesso che mi dico Ce l’ho fatta, non può avere capito. E dentro tremo come un libro al fuoco Dell’Indice.
Da: III. I rifugi segnati
Da principio furono le cime
Da principio furono le cime Quando la sera stava per calare E il colore rosa del nome Era piano da sillabare Verso il terreno in pendenza Dove il seme attecchisce Con luna calante. Poi entrammo nelle opinioni Quiete del Ticino Andando a ritroso Dal tempo del vapore A quello della vela Del remo Attraverso nebbie soffici Ciottoli ben fatti. E volammo sul pendio del Piambello A intersecare in primavere di forsizie Dell’aquila l’ombra sulla roccia Fino a dove scompare il sentiero. Solo molto più in basso il torrente.
Da: IV. Le maniche distanti
Il bene oscuro
Come te, aquila equilibrata, che centellini millimetrato Il profilo del Rosa nel bianco dell’alba, Come te quando in picchiata precipiti e sfracelli. Midolli spinali tranciati da cavi di funivia, Fruste attorcigliate sibilanti boa.
Una parola ogni tanto ripetevi Perché il sentiero se la ricordasse. Ruzzolò dapprima due scalini Della discesa a Goglio Il cane da caccia morsicato Sul muso dalla vipera, Gonfiandosi in un soffio a dismisura Fino alla pietosa fucilata Il bene oscuro.
*
Ti servirebbe un sosia
Se passavo per il mondo Prima di venire da te, Ridendo e con entrambi i gomiti Che oscillavano a onde sul viso “Ti servirebbe un sosia” mi dicevi, Neanche tanto ridendo ti placavi. Nel sogno invece, se mi comporto bene, Ti siedi di fronte e non hai fretta Mentre ti squarci il corpo E nascondi il coltello.
*
Il cretinetti e la funambola
Noi in quello stagionale ricovero Per boscaioli e carbonai Tra pochi resti di cibo e di fuoco A ripararci dal temporale, Col capriolo che si ferma all’improvviso E poi si volge.
Sono stato molto in dubbio Prima di chiamarti per nome in poesia.
Avresti fatto meglio a non chiamarmi, Cretinetti.
Eri davanti a me come una fonte Scendevi da ogni lato, funambola.
Noi due santi in quella foto vaghiamo Capaci come fiori di tenerci in equilibrio Ma Catherine Pozzi e Valéry a Vence Si tengono per mano.
Albeggia e sbianca una verità Il tuo viso in uno spasmo. E fu la sera che mi regalasti Le silence de la mer di Vercors.
Da: V. Colline di tulle nero
Perché al telefono
Perché al telefono s’alza la voce si chiede, Mentre dovrebbero aprirsi spazi al silenzio. Ma fin qui non siamo che all’algebra lineare, Alla geometria analitica del sentimento. Poi vennero i corsi con varianti biomatematiche, Fluidodinamiche E di fisica dei plasmi. Che cosa al tuo fegato Che cosa, inesorabile, hai dentro?
*
Uno splendido figlio
Letto di canne bianche che al verde fidanza Due anime teneramente abbracciate, Non dovrebbe uno splendido figlio Esserci accanto in questo ostello? Noi con le ombre più lunghe Di quanto non fossimo alti, Io che ti cerco da dietro il vetro, Usignolo in trappola con le voglie Che perdono di senso. E se molto è morto qui, niente è mai nato.
*
Colline di tulle nero
Quando anche il fard ti impallidiva il viso A rintanarti nel dolore secco, Spingevi la sedia in avanti Per non cadere nel vuoto Asso delle colline Di tulle nero, Svincoli dall’alto Nastri della guancia nello specchio Fossette d’asfalto. Per quell’autorità Che la morte ti dà Se prossima ma non incombente “Ho male qui” Tu sai che so Non puoi dire niente.
*
Il capriolo sulla neve
Dal capriolo morto sulla neve Scendevano tre zampe abbandonate Mentre mirava verso l’alto il muso Simmetrico alla zampa ripiegata. Dal tuo male intabarrato nel lenzuolo Brandelli di supplizio verso dove La pelle cicatrizza. Poi come un fungo all’improvviso Svergato viscido dal ventre del castagno, La tua nudità post mortem Dal monatto sollevata.
Da: VI. Demoiselle anglaise
Dove il fiume fa l’ansa
Per me sei rimasta dove il fiume fa l’ansa, La corrente l’isola le rapide dicevi Si vedono meno quando è in piena, L’impeto confonde tutto E quando tu gli porti lui si prende. Non se ne accorge. Invece d’estate i colori Più sassi più rossi sul fondo Nel punto dove volevi Passarlo senza stivali. Per me sei rimasta là Non ti ha presa nessuno, Soltanto il fiume Sull’isola legata alla terra Per tanti mesi all’anno.
*
Demoiselle anglaise
La forza che allunga la tua ombra Fino a farti demoiselle anglaise Qui dove fauni, sileni e menadi Non hanno mai abitato E il tempo resta giù Sepolto in valle. Sei riuscita a trovare un po’ di vento anche lì? Un po’ di vento ti piaceva tanto Quando si alzava e all’improvviso Gli ridevi in faccia e ti voltavi.
*
Per vedere dal cielo
È la segmentazione delle creste Che imprime il ritmo al vento, È l’aspra loro irregolarità, la scogliosa Repulsione all’ordine collinare Che poi ti toglie il compasso dalle mani Graffiandoti le dita. Da questa altezza qui si vede bene Dove la terra si arrotonda E la montagna Comincia a scivolare, Da qui senti la placca che sfracella Coi pini che diradano. Non pensavo di incontrarla di nuovo Questa cremosità Della terra Verso sera In Valdossola Dopo il temporale Con ciò che per il Toce Vien giù dal monte Rosa. Ci torniamo, dici, ci torniamo Nella casa dal tetto rosso Coi pini accosti alla finestra Il rifugio accosto ai pini Il passo della Rossa accosto al rifugio E poi solo cime nient’altro che cime Per vedere dal cielo se la casa si è mossa?
*
Quando dalle spalle mi sfilerai lo zaino
Quando dalle spalle mi sfilerai lo zaino “È troppo pesante, non lo puoi più portare” E con gesto deciso indicherai Il luogo dell’approdo, Cadrà neve d’agosto Sarà sera E lampada ai miei passi Sarà la tua parola.
Ossa giunture tendini L’intero armamentario Sono qui finalmente non Te li sottraggo più.
Protettore dell’orizzonte dio solare sfinge, Se quercia fossi stato o alloro almeno, Rose mirto viole le piante sacre A Venere le avrei donato.
Da: VII. Come un eternit
Come un eternit
Ho provato a pensarti dal futuro Da quando e dove Ferma nel tempo io Ti vedrò salire Sempre più vicino All’età mia. Giusto un attimo prima fermerò il pensiero Per festeggiare il nostro compleanno alla pari Col mio safari nella tua sorpresa.
Come quando assistevi al tuo funerale E lo trovavi troppo lungo E contemplavi il tuo cadavere, Funambola.
E l’ultima volta la mia tomba Cancellata dalla neve… Tu che mi cercavi, giocherellone insensato Pirla gaudioso.
Arrivi, arrivi, e con i tuoi capelli…
Le note stonate hai sempre saputo Come chiamarle a raccolta.
Di quando, per vincere il pallore, Ti cimentavi coi colori accesi Il verde e il paonazzo L’incarnato e il ranciato. Ma perché è ondulato il mio ricordo? Come un eternit mi lavora alle tempie E sotto il mento mi sorprende…
Perché io innamorata sono dentro di te, più ti scuoti per allontanarmi più io penetro in profondità.
*
La lunga nota medievale
Ma voglio quegli anni o gli anni nuovi, Mi sorprendo a chiedermi: un Tuffo nell’ignoto o la strategia del noto? Da capo rivivendo quel nostro decennio Con la testa di oggi, O ritrovandomelo intatto da stordire? Si ripresenta la fuga dal padre Perdutasi nel nulla verso oriente Dopo che conventi e osterie Bordelli e sacrestie Mi ebbero accolto e scacciato Nutrito e denunciato. Poi apparisti tu, Jucci, e io… Fammi almeno risentire La tua lunga nota medievale, Con quella in mente Voglio trasmigrare.
*
Il sassolino bianco
Tu che il futuro sei Prima del passato… Come il sassolino bianco che una volta Ti mettesti in bocca. Perché lo facesti? Perché? E quando la morte ti portò di là Il sasso era lontano era la luna, Diana tu nello spazio nocivo… Non so quanto il futuro fosse in anticipo Su di te.
Sono la morte che nelle discariche si cela, Nelle discoteche… Il granello di sabbia Nel tuo ingranaggio sono.
Tu che non riuscivi a leggere Un libro da me chiosato, Sei tornata betulla Trascinata dalla piena Di traverso sul piccolo torrente A far da ponte, I rami conficcati tra le rocce, secco il tronco. E sei straordinariamente gioiosa Nel sogno dei cavalli, Con le parole giochi Anche alla nostra età.
Io con le dita ancora tra i gerundi Ad implorare te di non usarli?
Io col mio italiano d’esilio in poesia… Fossi mai riuscito a cogliere il tuo invito A non cercare dagli altri Lo sguardo ammirato.
*
Poi che non ci sono il giorno e la notte
Poi che qui non ci sono il giorno e la notte Ma i pianeti e le orbite, Non ci sono neppure le tue vecchie bugie Consigliate dalla notte, E posso pensare libera a quando ti accendevi Per una scoperta Marsilio da Padova o Lorenzo Valla… Vederti crescere, sentirti trasalire.
Non che a me piacesse Quel tuo compiacimento alla mia crescita. Mi sentivo un animale nel serraglio, Prevedevi ogni futura mossa, Ne intuivi la portata favorendola.
L’anima si curva per via del selciato O della volta celeste. Meglio la seconda, non credi?
Per il perfetto compimento della tua Vita-in-morte da me data?
No, non da te data, Da me scelta una notte Sognando cavalli morti… Mi sarei dovuta sposare di lì a poco Quando conobbi te e al primo incontro Mi parlasti di von Aschenbach… Fosti la cosa bella, malgrado tutto Non sei riuscito a diventare L’immagine di cera di te stesso. Qualcosa in fondo ti è rimasto Di allora. E io a quel qualcosa mi aggrappo Anche ora. Anche ora mi dà vita.
Alla fine non è stato difficile Avviare l’eternità: mi è bastato Sentirmi Una cosa sola con il vuoto…
Vento, vento, taci, smettila di sfiorarlo È tutto mio e dorme, In pace devi lasciarlo.
Il vento ti farà ammalare Vuole la tua trachea e i tuoi bronchi. Continuerà a provarci ed alla fine Vincerà lui.